All’indomani, appena sorto il sole, coll’alta marea, fra il rullare dei tamburi, il suono dei pifferi, i colpi di fucile dei bucanieri della Tortue e gli urrah strepitosi dei filibustieri delle navi ancorate, la spedizione usciva dal porto, sotto il comando dell’Olonese, del Corsaro Nero e di Michele il Basco.
Si componeva di otto navi fra grandi e piccole, armate di ottantasei cannoni, dei quali sedici imbarcati sul vascello dell’Olonese e dodici sulla Folgore, e di seicentocinquanta uomini fra filibustieri e bucanieri.
La Folgore, essendo il veliero piú veloce, navigava in testa alla squadra, dovendo servire da esploratore.
Sul corno della maestra ondeggiava la bandiera nera a fregi d’oro del suo comandante e sulla cima dell’alberetto il gran nastro rosso delle navi da combattimento; dietro venivano gli altri legni su una doppia linea, ma distanziati tanto da poter manovrare liberamente senza pericolo di urtarsi o di tagliarsi reciprocamente la via.
La squadra, uscita al largo, si diresse verso occidente, per raggiungere il canale di Sopravvento, per poi sboccare nel Mare Caraybo.
Il tempo era splendido, il mare tranquillo ed il vento favorevole, soffiando dal nord-est, sicché tutto faceva sperare una tranquilla e rapida navigazione fino a Maracaybo, tanto piú che i filibustieri erano stati avvertiti che la flotta dell’ammiraglio Toledo si trovava in quell’epoca sulle coste dell’Yucatan, in rotta pei porti del Messico.
Dopo due giorni, la squadra, senza aver fatto alcun incontro, stava per doppiare il Capo dell’Engaño, quando dalla Folgore, che veleggiava sempre in testa, fu dato il segnale della presenza d’una nave nemica, veleggiante verso le coste di San Domingo.
L’Olonese, che era stato nominato comandante supremo, ordinò tosto a tutte le navi di mettersi in panna e di raggiungere colla sua la Folgore, la quale già si preparava a mettersi in caccia.
Al di là del capo, un vascello che portava sul picco della randa il grande stendardo di Spagna e sull’alberetto di maestra il lungo nastro delle navi da guerra, veleggiava lungo la costa, come se cercasse qualche rifugio, avendo forse già scorta la poderosa squadra dei filibustieri.
L’Olonese avrebbe potuto farlo circondare dalle sue otto navi e costringerlo alla resa, o farlo affondare con una sola bordata, ma quei fieri corsari avevano delle magnanimità incomprensibili, per essere ladri di mare, e davvero ammirabili.
Assalire un nemico con forze superiori lo reputavano una vigliaccheria, indegna d’uomini forti come si credevano, e con ragione, e sdegnavano di abusare della loro possanza.
L’Olonese fece segnalare al Corsaro Nero di mettersi in panna al pari delle altre navi e mosse arditamente incontro al vascello spagnuolo, intimandogli la resa incondizionata o la lotta, e facendo gridare dai suoi uomini di prora che qualunque fosse stato l’esito della pugna, la sua squadra non si sarebbe mossa.
Il vascello, che si reputava già perduto, non potendo avere la menoma speranza di uscire vittorioso contro le forze cosí schiaccianti, non si fece ripetere due volte l’intimazione, pure, invece di ammainare lo stendardo, il suo comandante lo fece inchiodare sul corno e come risposta scaricò contro la nave nemica i suoi otto cannoni di tribordo, facendo cosí comprendere che non si sarebbe arreso se non dopo un’ostinata resistenza.
La battaglia si era impegnata d’ambe le parti con grande vigore. La nave spagnuola aveva sedici cannoni, ma soli sessanta uomini d’equipaggio; 1’Olonese aveva altrettante bocche da fuoco e un numero doppio di uomini fra i quali molti bucanieri, formidabili bersaglieri, che decidevano presto le sorti della pugna coll’infallibilità dei loro grossi fucili.
La squadra, dal canto suo, si era messa in panna, obbediente agli ordini del fiero filibustiere di non intervenire. I soli equipaggi, schierati sulle tolde, assistevano, come tranquilli spettatori, alla lotta, ben prevedendo però che il vascello spagnuolo avrebbe finito per soccombere in quella pugna impari per la sproporzione di forze.
Gli spagnuoli, quantunque cosí poco numerosi, si difendevano con vigore supremo. Le loro artiglierie tuonavano furiosamente, tentando di disalberare e di rasare come un pontone la nave corsara, che cercava di abbordarli. Alternavano scariche di mitraglia e palle e sviavano di bordo per presentare la prora, onde non farsi speronare e ritardare piú che era possibile il contatto, essendosi di già accorti della preponderanza numerica degli avversari.
L’Olonese, reso furioso da quella resistenza ed impaziente di finirla tentava tutti i mezzi per abbordarli, ma non ne veniva a capo ed era costretto a riprendere il largo per non farsi sterminare gli uomini da quella grandine di mitraglia.
Quel duello formidabile fra le artiglierie delle due navi durò, con grave danno delle alberature e delle vele, tre lunghe ore, senza che il grande stendardo di Spagna venisse ammainato. Sei volte i filibustieri erano montati all’abbordaggio ed altrettante volte erano stati respinti da quei sessanta valorosi, ma alla settima riuscirono a porre i piedi sulla tolda della nave nemica ed a calare la bandiera.
Quella vittoria, di lieto augurio per la grande impresa, fu salutata dai filibustieri della squadra con fragorosi urrah, tanto piú che, durante quel combattimento, la Folgore, spintasi entro una insenatura, era riuscita a scovare un altro legno spagnuolo armato di otto cannoni ed a catturarlo dopo breve resistenza.
Visitate le due navi predate, si constatò che la maggiore aveva un carico prezioso, parte in merci di grande valore e parte in verghe d’argento; e la seconda, di polvere e di fucili destinati alla guarnigione spagnuola di San Domingo.
Sbarcati i due equipaggi sulla costa, non volendo tenere a bordo prigionieri, ed accomodati i guasti subiti dalle alberature, la squadra, sul cadere del giorno, si rimetteva alla vela dirigendosi verso la Giamaica.
La Folgore aveva ripreso il suo posto all’avanguardia essendo, come fu detto, la miglior veliera, mantenendosi ad una distanza di quattro o cinque miglia.
Al Corsaro Nero premeva di esplorare il mare a grande distanza, per tema che qualche nave spagnuola potesse accorgersi della direzione di quella poderosa squadra, e corresse a darne l’annuncio al governatore di Maracaybo o all’ammiraglio Toledo.
Per essere certo del fatto suo, non abbandonava quasi mai il ponte di comando, accontentandosi di dormire in coperta, avvolto nel suo ferraiuolo e coricato su un seggiolone di bambú.
Tre giorni dopo la presa dei due vascelli, la Folgore, avvistate le coste della Giamaica, faceva l’incontro del vascello di linea che aveva abbordato presso Maracaybo e che durante la tempesta aveva cercato un rifugio alla base di quella isola.
Era ancora privo dell’albero maestro, però il suo equipaggio aveva rinforzati gli alberi di mezzana e di trinchetto, spiegate tutte le vele di ricambio trovate a bordo e s’affrettava a guadagnare la Tortue, per tema di venire sorpreso da qualche nave spagnuola.
Il Corsaro Nero, informatosi della salute dei feriti, che aveva fatti ricoverare nelle corsie del vascello, proseguí la sua rotta verso il sud, ansioso di giungere all’entrata del Golfo di Maracaybo.
Quella traversata del Mar Caraybo si compí senza incidenti, essendosi il mare mantenuto costantemente tranquillo, e la notte del quattordicesimo giorno da che la squadra aveva lasciata la Tortue, il Corsaro avvistava la punta di Paraguana, indicata da un piccolo faro destinato ad avvertire i naviganti della bocca del piccolo Golfo.
– Finalmente!… – esclamò il filibustiere, mentre una cupa fiamma gli animava lo sguardo. – Domani forse l’assassino dei miei fratelli non sarà piú fra il numero dei viventi.
Chiamò Morgan, che era allora salito in coperta pel suo quarto di guardia, dicendogli:
– Che nessun lume venga acceso a bordo questa notte, tale essendo 1’ordine dato dall’Olonese. Gli spagnuoli non devono accorgersi della presenza della squadra o domani non troveremo nella città una sola piastra.
– Dovremo fermarci qui all’entrata del Golfo?…
– No, tutta la squadra si avanzerà verso la bocca del lago e domani, all’alba, piomberemo improvvisamente su Maracaybo.
– Prenderanno terra i nostri uomini?
– Sí, assieme ai bucanieri dell’Olonese. Mentre la flotta bombarderà i forti dal lato del mare, noi li assaliremo dalla parte di terra, onde impedire al governatore di fuggire a Gibraltar. Che all’alba tutte le scialuppe da sbarco siano pronte e armate di spingarde.
– Va bene, signore.
– D’altronde, – aggiunse il Corsaro, – sarò sul ponte anch’io; scendo nel quadro a indossare la corazza di combattimento.
Lasciò il ponte e scese nel salotto per passare nella sua cabina. Stava per aprire la porta della sua stanzetta, quando un profumo delicatissimo, a lui ben noto, giunse improvvisamente fino a lui.
– È strano!… – esclamò, arrestandosi stupito. – Se non fossi certo di avere lasciata la fiamminga alla Tortue, giurerei che è venuta qui.
Si guardò intorno, ma l’oscurità era completa, essendo stati spenti tutti i lumi; pure gli parve di vedere, in un angolo del salotto, appoggiata ad una delle ampie finestre che guardavano sul mare, una forma biancastra.
Il Corsaro era coraggioso; però al pari di tutti gli uomini di quei tempi era pure un po’ superstizioso e nello scorgere quell’ombra, immobile in quell’angolo, si sentí bagnare la fronte da alcune stille di sudore freddo.
– Che sia 1’ombra del Corsaro Rosso?… – mormorò, retrocedendo verso la parte opposta. – Che venga a ricordarmi il giuramento pronunziato quella notte, su queste acque?… Forse che la sua anima ha abbandonati gli abissi del Golfo, dove riposava?…
Subito però ebbe quasi vergogna di aver avuto, lui cosí fiero e coraggioso, un istante di superstiziosa paura e, snudata la misericordia che portava alla cintola, si fece innanzi, dicendo:
– Chi siete voi?… Parlate o vi uccido.
– Io, cavaliere, – rispose una voce dolce che fece trasalire il cuore del Corsaro.
– Voi!… – esclamò egli fra lo stupore e la gioia. – Voi, signora?…
Voi qui, sulla mia Folgore, mentre vi credevo alla Tortue? Sono io forse?…
– No, cavaliere, – rispose la giovane fiamminga.
Il Corsaro si era precipitato innanzi, lasciando cadere la misericordia ed aveva tese le braccia verso la duchessa, mentre le sue labbra le sfioravano rapidamente i pizzi dell’alto collare.
– Voi qui!… – ripeté con una voce che aveva un tremito. – Ma da dove siete uscita voi?… Come vi trovate sul mio vascello?
– Non lo so… – rispose la duchessa, con accento imbarazzato.
– Via, parlate, signora.
– Ebbene… ho voluto seguirvi.
– Allora voi mi amate?… Ditemelo; è vero, signora?…
– Sí, – mormorò ella con un filo di voce.
– Grazie… ora posso sfidare la morte senza paura.
Aveva estratto l’acciarino e l’esca ed aveva acceso un doppiere collocandolo però in un angolo del salotto, in modo che la luce non si proiettasse sulle acque del mare.
La giovane fiamminga non aveva abbandonata la finestra. Tutta rinchiusa in un ampio accappatoio bianco adorno di pizzi, colle braccia strette al seno, come se volesse comprimere i palpiti precipitati del cuore ed il vezzoso capo inclinato su di una spalla, guardava, con quei grandi occhi scintillanti, il Corsaro che gli stava ritto dinanzi, non piú pallido né piú tetro e meditabondo, poiché un sorriso di felicità infinita si delineava sulle labbra del fiero uomo di mare.
Si guardarono in silenzio per alcuni istanti, come se fossero ancora stupiti di quella confessione di reciproca affezione, lungamente sospirata da entrambi forse, ma non cosí presto attesa: poi il Corsaro, prendendo la giovanetta per una mano e facendola sedere su d’una sedia, presso il doppiere, le disse:
– Ora mi direte, signora, per opera di quale miracolo voi vi trovate qui, mentre io vi ho lasciata alla Tortue, nella mia casa. Io stento ancora a credere a tanta felicità.
– Ve lo dirò, cavaliere, quando voi mi avrete data la vostra parola di perdonare ai miei complici.
– Ai vostri complici?
– Comprenderete che da sola non avrei potuto imbarcarmi di nascosto sulla vostra nave e starmene rinchiusa quattordici giorni in una cabina.
– Nulla potrei rifiutare a voi, signora; e coloro che hanno disobbedito ai miei ordini, ma che nello stesso tempo mi hanno preparata una cosí deliziosa sorpresa, sono già perdonati. I loro nomi, signora.
– Wan Stiller, Carmaux ed il negro.
– Ah!… Essi!… – esclamò il Corsaro. – Avrei dovuto sospettarlo!… Ma come avete potuto ottenere la loro cooperazione?… I filibustieri che disobbediscono ai comandi dei loro capi, si fucilano, signora.
– Erano convinti di non fare un dispiacere al loro comandante, perché si erano accorti che voi, cavaliere, segretamente mi amavate.
– E come hanno fatto ad imbarcarvi?…
– Vestita da marinaio, di notte, assieme ad essi, affinché nessuno potesse accorgersi della mia presenza.
– E vi hanno nascosta in una di queste cabine? – chiese il Corsaro, sorridendo.
– In quella attigua alla vostra.
– E quei bricconi, dove si sono cacciati?…
– Sono sempre rimasti nascosti nella stiva, però venivano a trovarmi di frequente per portarmi dei viveri che sottraevano alla dispensa del cuciniere.
– I volponi!… Quanta affezione in questi ruvidi uomini!… Sfidano la morte per veder felici i loro capi, eppure… chissà quanto potrà durare questa felicità! – aggiunse poi, con accento quasi triste.
– E perché, cavaliere?… – chiese la giovane con inquietudine.
– Perché fra due ore l’alba sorgerà ed io dovrò lasciarvi.
– Cosí presto?… Ci siamo appena veduti che già pensate di allontanarvi!… – esclamò la fiamminga, con doloroso stupore.
– Appena il sole spunterà sull’orizzonte, in questo golfo si combatterà una delle piú tremende lotte che abbiano impegnati i corsari della Tortue. Ottanta bocche da fuoco tuoneranno senza tregua contro i forti che difendono il mio mortale nemico e seicento uomini si slanceranno all’assalto, decisi a vincere od a morire; ed io, lo potete immaginare, sarò alla loro testa per guidarli alla vittoria.
– Ed a sfidare la morte!… – esclamò la duchessa con terrore. – Se una palla vi colpisse?…
– La vita degli uomini è nelle mani di Dio, signora.
– Ma voi mi giurerete di essere prudente.
– Sarà impossibile. Pensate che sono due anni che io attendo l’istante per punire quell’infame.
– Che cosa può aver fatto quell’uomo, perché voi nutriate verso di lui odio cosí implacabile?…
– Mi ha ucciso tre fratelli, ve lo dissi, e commise un infame tradimento.
– Quale?…
Il Corsaro non rispose. Si era messo a passeggiare pel salotto, colla fronte aggrottata, lo sguardo torvo e le labbra contratte. Ad un tratto s’arrestò, retrocesse lentamente verso la giovane, che lo osservava con una viva angoscia dipinta sul viso e sedendosi accanto a lei disse:
– Ascoltatemi e giudicherete se il mio odio sia giustificato.
Sono trascorsi dieci anni da quell’epoca, ma ricordo tutto come fosse ieri.
Era scoppiata la guerra del 1686 fra la Francia e la Spagna, pel possesso delle Fiandre. Luigi XIV, assetato di gloria, nel fiore della sua potenza, volendo schiacciare il suo formidabile avversario, che tante vittorie aveva già riportate sulle truppe francesi, aveva invase arditamente le provincie che il terribile duca d’Alba aveva conquistate e domate col ferro e col fuoco. In quell’epoca, esercitando Luigi XIV una grande influenza sul Piemonte, aveva chiesto soccorso al duca Vittorio Amedeo II, il quale non aveva potuto rifiutarsi dal mandargli tre dei suoi piú agguerriti reggimenti: quelli d’Aosta, di Nizza e della Marina. In quest’ultimo, in qualità d’ufficiali, servivamo io ed i miei tre fratelli, il maggiore dei quali non contava che trentadue anni ed il minore che doveva piú tardi diventare il Corsaro Verde, solamente venti. Recatisi nelle Fiandre, i nostri reggimenti si erano già valorosamente battuti piú volte al passaggio della Schelda, a Gand, a Tournay, coprendosi ovunque di gloria. Le armi alleate dovunque avevano trionfato, respingendo gli spagnuoli verso Anversa, quando un bel giorno, o meglio un brutto giorno, una parte del nostro reggimento Marina, essendosi spinto verso le bocche della Schelda per occupare una rocca abbandonata dal nemico, si trovò improvvisamente assalito da tale numero di spagnuoli, da essere costretto ad asserragliarsi piú che in fretta entro le mura, salvando a grande stento le artiglierie. Fra i difensori c’eravamo noi quattro. Tagliati fuori dall’esercito francese, accerchiati da tutte le parti da un nemico dieci volte piú numeroso e risoluto a riconquistare la rocca, che per lui era di grande importanza, essendo la chiave d’uno dei principali bracci della Schelda, non avevamo altra alternativa che di arrenderci o morire. Di resa nessuno ne parlava, anzi avevamo giurato di farci seppellire sotto le rovine, piuttosto di abbassare la gloriosa bandiera dei prodi duchi di Savoia. Al comando del reggimento, Luigi XIV aveva, non saprei per quale motivo, destinato un vecchio duca fiammingo, che si diceva godesse fama di valoroso ed esperimentato guerriero. Essendosi trovato colle nostre compagnie, il giorno in cui eravamo stati sorpresi, aveva assunta la direzione della difesa. La lotta era cominciata con pari furore d’ambo le parti. Ogni giorno le artiglierie nemiche ci rovinavano i bastioni, e tutte le mattine eravamo in grado di resistere, poiché alla notte riparavamo frettolosamente i guasti. Per quindici giorni e quindici notti gli assalti si succedettero con gravi perdite d’ambo le parti. Ad ogni intimazione di resa rispondevamo a colpi di cannone. Mio fratello maggiore era diventato l’anima della difesa. Prode, gagliardo, destro nel maneggio di tutte le armi, dirigeva le artiglierie e le fanterie, sempre primo negli attacchi, ultimo nelle ritirate. Il valore di quel bel guerriero aveva fatto nascere nel cuore del comandante fiammingo una sorda gelosia, che doveva piú tardi avere per noi tutti fatali conseguenze. Quel miserabile, dimenticando che aveva giurato fedeltà alla bandiera del duca e che macchiava uno dei piú bei nomi dell’aristocrazia fiamminga segretamente, s’accordava cogli spagnuoli per farli entrare nella rocca a tradimento. Una carica di governatore nelle colonie d’America ed una grossa somma di denaro dovevano essere il prezzo dell’ignominioso patto. Una notte, seguito da alcuni fiamminghi suoi parenti, apriva una delle pusterle, lasciando il passo ai nemici che si erano furtivamente avvicinati alla rocca. Mio fratello maggiore, che vegliava poco lontano con alcuni soldati, accortosi dell’entrata degli spagnuoli, si precipita incontro a loro dando l’allarme, ma il traditore lo aspettava dietro l’angolo di un bastione con due pistole in mano. Mio fratello cadde ferito a morte ed i nemici entrarono furiosamente in città. Combattemmo per le vie, nelle case, ma invano. La rocca cadde e noi potemmo appena salvarci con pochi fidi e con una precipitosa ritirata a Coutray. Ditemi signora, avreste voi perdonato a quell’uomo?
– No, – rispose la duchessa.
– E non perdonammo noi infatti. Avevamo giurato di uccidere il traditore e di vendicare nostro fratello, e cessata la guerra lo cercammo a lungo, nelle Fiandre prima ed in Spagna poi. Saputo che era stato nominato governatore di una delle piú forti città delle colonie d’America, io ed i miei fratelli minori, armati di tre legni, salpammo pel Gran Golfo, divorati da un desiderio insaziabile di punire, presto o tardi, il traditore. Diventammo corsari. Il Corsaro Verde, piú impetuoso e meno esperto, volle tentare la sorte, cadde invece nelle mani del nostro mortale nemico e fu ignominiosamente appiccato come un volgare ladrone; poi tentò la sorte il Corsaro Rosso e non ebbe miglior fortuna. I miei due fratelli, da me sottratti alla forca, riposano in mare ove attendono la mia vendetta, e se Dio m’aiuta, fra due ore, il traditore sarà nelle mie mani.
– E che cosa farete di lui?
– Lo appiccherò, signora, – rispose freddamente il Corsaro. – Poi sterminerò quanti hanno la sventura di portare il suo nome. Egli ha distrutta la mia famiglia; io distruggerò la sua. L’ho giurato la notte che il Corsaro Rosso scendeva negli abissi del mare e manterrò la parola.
– Ma dove ci troviamo noi? Qual è la città che governa quell’uomo.
– Lo saprete presto.
– Ma il suo nome? – chiese la duchessa, con angoscia.
– Vi preme saperlo?…
La giovane fiamminga aveva portato alla fronte un fazzoletto di seta. Forse quella bella fronte, in quel momento, era coperta di stille di freddo sudore.
– Non so, – disse, con voce rotta. – In mia gioventú, mi parve aver udito raccontare, da alcuni uomini d’armi che servivano mio padre una storia che somiglia a quella che voi mi avete or ora narrata.
– È impossibile, – disse il Corsaro. – Voi non siete mai stata in Piemonte.
– No, mai; ma vi prego, ditemi il nome di quell’uomo.
– Ebbene, ve lo dirò: egli è il duca Wan Guld…
Nel medesimo istante un colpo di cannone si udí rombare fragorosamente sul mare.
Il Corsaro Nero si era slanciato fuori del salotto, gridando:
– L’alba!…
La giovane fiamminga non aveva fatto alcun moto per trattenerlo. Aveva portato ambe le mani al capo, con un gesto di disperazione, poi era piombata sul tappeto, senza mandare un solo grido, come se fosse stata improvvisamente fulminata.
Speak Your Mind