CAPITOLO VII
IL RITORNO ALL’OCEANO PACIFICO
Il signor di Ventimiglia non aveva indugiato ad accettare l’invito, quantunque quella cortesia, troppo spinta da parte d’un nemico senza dubbio acerrimo, poiché poteva essere in giuoco la sua esistenza, avesse fatto arricciare il naso al sospettoso guascone e anche a Mendoza.
Il gabinetto del marchese era uno stanzino ammobiliato senza pretese ed illuminato da due candelabri, collocati sopra un enorme scrittoio coperto da un panno verde e da cumuli di carte.
Il marchese di Montelimar indicò al conte una sedia, poi, sedendoglisi di fronte, gli chiese:
– Ora mi direte che cosa volete da me. Mi avete cercato a Pueblo-Viejo, fors’anche a San Domingo e mi avete preso a Nuova Granata. Che cosa desiderate dunque?
– Domandarvi, innanzi tutto, se dinanzi a me la vostra coscienza è perfettamente tranquilla, – rispose il signor di Ventimiglia.
Il marchese socchiuse un po’ gli occhi, poi, dopo un breve silenzio, rispose:
– La vostra domanda mi stupisce un po’.
– Ah! – fece il conte. – Mi direte allora chi era, quindici anni or sono, il governatore di Maracaibo.
– Io, – rispose il marchese.
– Dunque voi avete fatto appiccare mio padre, – gridò il conte, con uno scatto improvviso.
– Non posso negarlo.
– Sapevate che era un gentiluomo.
– Sí.
– Che non combatteva per avidità di guadagno, perché i Ventimiglia avevano e hanno tuttora terre e castelli, quasi quanti ne hanno i duchi di Savoja.
– So che erano ricchissimi.
– Sapete per quale motivo mio padre ed i miei zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero erano venuti in America?
– Per vendicarsi del duca Wan Guld, mi hanno detto, – rispose il marchese, sempre calmo.
– Sapete che cosa aveva fatto quel duca?
– Veramente non lo so: l’America centrale è troppo lontana dall’Europa e certe informazioni si perdono durante la traversata dell’Atlantico.
Il conte si era alzato, in preda ad una vivissima agitazione.
– Francia e Piemonte combattevano contro la Spagna sui canali dell’Olanda e sulla Schelda, – disse. – Condottiero delle genti italiche era un fiammingo: il duca Wan Guld.
– Io ho udito parlare di questo, – disse il marchese, – molto vagamente però.
– I conti di Ventimiglia erano in quattro, tutti fratelli, e forti condottieri, che godevano la piú ampia fiducia del duca di Savoja. Racchiusi in una fortezza con due reggimenti, difendevano ferocemente una rocca, quando una notte il nemico entrò per una delle porte che un traditore aveva aperta, corrotto da un enorme compenso. Il primogenito dei Ventimiglia fu ucciso o meglio assassinato a tradimento da un sicario del duca, mentre cercava di opporsi a quell’invasione. Era Wan Guld, che si era venduto al nemico per diventare, piú tardi, governatore d’una delle piú importanti colonie spagnuole del Golfo del Messico.
– Me ne ricordo infatti, – disse il marchese di Montelimar. – I tre conti di Ventimiglia attraversarono a loro volta l’Atlantico per uccidere il traditore, e sotto il nome di Corsaro Rosso, Verde e Nero, coll’aiuto di Pietro l’Olonese, di Wan Horn, di Laurent, di Grammont e di altri celebri filibustieri, rovinarono le nostre colonie e misero a ferro ed a fuoco tutte le nostre città marinaresche del Golfo del Messico.
– E gli spagnuoli hanno appiccato mio padre, è vero?
Il marchese era diventato pallidissimo ed aveva avuto un sussulto troppo tardi represso.
– È vero? – ripeté il conte.
– Non posso negarlo.
– Se vostro padre fosse stato appiccato e voi un giorno foste riuscito ad avere nelle vostre mani colui che ha pronunciata la terribile sentenza, che cosa avreste fatto?
– Mio padre era un grande di Spagna e non già un filibustiere, – rispose il marchese di Montelimar.
– Ed il mio non era un ladrone di mare, – proruppe il conte. – I Ventimiglia non hanno intascato in America né un doblone, né una piastra.
– Li intascavano però i filibustieri che li accompagnavano, – ribatté il marchese, con violenza. – Per noi vostro padre non era altro che un corsaro pericolosissimo, che devastava le nostre colonie e rovinava le nostre città e noi avevamo tutto il diritto di punirlo.
– Come un volgare ladrone, è vero? – disse il conte, ironicamente.
Il marchese non rispose.
Il signor di Ventimiglia fece tre o quattro passi dinanzi allo scrittoio, poi, fermandosi bruscamente dinanzi all’ex governatore di Maracaibo, il quale lo seguiva con uno sguardo inquieto, disse:
– Di questa faccenda riparleremo piú tardi, signor marchese. Mi premeva avervi nelle mie mani per un’altra cosa.
– Dite.
– Mio padre, che era rimasto vedovo prima d’imbarcarsi per l’America insieme ai suoi fratelli, ha sposato qui la figlia di Hara, il grande Cacico del Darien, che gli diede una figlia. Quando mio padre, rimasto per la seconda volta vedovo, fu preso dai vostri compatriotti e condotto prigioniero a Maracaibo, aveva con sé quella bambina. Che cosa ne è successo? Voi dovete saperlo.
– Io!…
– Eh, signor marchese, non cercate d’ingannarmi. Quella piccola meticcia, che è mia sorella, è stata raccolta da voi, io lo so. A Pueblo-Viejo d’altronde mi hanno confermata la notizia ed il vostro segretario, il cavaliere di Barquisimeto, messo da me alle strette, non ha potuto negarlo.
– È nelle vostre mani il mio segretario? – gridò il marchese.
– Vi era: non essendomi ormai piú di nessuna utilità l’ho lasciato andare. Seccano troppo a noi i prigionieri.
– Ed ha tradito il segreto!…
– O parlare o morire, signor marchese, – disse il conte. – Egli, dinanzi al dilemma, ha preferito aprire la bocca.
Il marchese aveva fatto un gesto di collera e si era alzato impetuosamente, gettando sul figlio del Corsaro Rosso uno sguardo feroce.
– Che cosa volete dunque, voi? – chiese, coi denti stretti.
– Mia sorella.
– È per questo che siete venuto in America?
– Sí.
– E se mi rifiutassi di restituirvela?
– Vivaddio! – gridò il conte. – Non avrei riguardi per l’uomo che ha pronunciata la sentenza che condannava mio padre alla forca!…
– Vostra sorella non è qui.
– Non è qui?…
– No.
– Dove l’avete mandata, dunque? A Panama.
– Mille demoni! – gridò il conte, esasperato. – Qui non era sicura.
– Voi sapevate dunque che io la cercavo?
– Io sapevo che una partita di filibustieri s’avanzava verso questa città e, temendo che nell’assalto uccidessero quella fanciulla, mi sono affrettato a mandarla a Panama.
– Perché tanti riguardi verso la figlia d’un filibustiere?
– L’ho allevata come fosse mia, – rispose il marchese. – Giacché gli altri hanno parlato, vi avranno anche detto che vostra sorella venne sempre trattata nella mia casa come una gentildonna e non già come una schiava, quantunque meticcia.
– Infatti me lo hanno detto. Ed ora?
– Spetta a voi, signor di Ventimiglia, di andarvela a prendere.
– A Panama? Volete scherzare, marchese? I tempi di Morgan sono passati e nessuno oggidí oserebbe, nemmeno mio zio il Corsaro Nero, se fosse vivo, di tentare una simile impresa.
Un ironico sorriso sfiorò le labbra del marchese di Montelimar.
– Non so che cosa farci, signor conte, – disse poi.
– A chi l’avete affidata?
– A don Juan de Sasebo, mio amico e consigliere del vicereame.
– Mi avevano detto che prima la teneva un mayoral .
– Sí, quand’era piccina. Ora ha quindici anni e non deve frequentate che delle famiglie cospicue.
– E non posso averla in nessun modo?
– Sí, conducendomi con voi a Panama, perché ho dato ordine a don Juan di non consegnarla a chicchessia.
– Avete preso delle eccessive precauzioni.
– Io ormai la considero come mia figlia, signor conte.
– Eppure io non lascerò l’America senza averla, – disse il signor di Ventimiglia. – È mia sorella.
– Nessuno vi contrasterà questo diritto. Temo però, signor conte, – disse il marchese, con accento sempre ironico, – che a Panama non soffi aria buona per voi.
Lo vedremo. Intanto voi rimarrete mio prigioniero.
I prigionieri possono riscattarsi: fissate il prezzo.
Un Ventimiglia non ha bisogno né di cinquanta né di centomila piastre, signor di Montelimar. Per voi non vi è nessun prezzo.
Poi, volgendosi verso i tre avventurieri, i quali avevano assistito al colloquio, immobili e muti come statue, ma colle draghinasse in mano, pronti a qualunque sorpresa, disse loro:
– Affido a voi questo signore: è sotto la vostra sorveglianza.
Si toccò appena la tesa del suo ampio feltro e uscí, scendendo rapidamente la scala del castello.
Cominciava allora ad albeggiare e l’acquazzone era cessato. Le spianate del forte erano ingombre dì filibustieri occupati ad inchiodare i cannoni ed a saccheggiare le polveri, avendo estremo bisogno di munizioni.
Tusley, Grogner e Raveneau de Lussan stavano seduti su una balaustrata del forte, fumando e chiacchierando.
Vedendo comparire il conte, tutti si erano alzati.
– Dunque, signor conte? – chiese de Lussan, non senza una certa ansietà.
– Un’altra carta male giuocata, – rispose il signor di Ventimiglia. – Ho preso l’aquila e non ho potuto avere l’allodoletta.
– Vostra sorella?…
– Non è più qui.
– Per la morte di tutte le viti della Turenna! – gridò il francese. È un demonio quel marchese che indovina sempre i vostri progetti?
– Cosí pare, – rispose il conte.
– E prenderemo l’allodoletta?
– A Panama, se vorremo averla.
– Un affare serio, – disse Grogner, facendo una smorfia. – Panama non è Pueblo-Viejo, né Nuova Granata. Se fossimo in mille, la cosa potrebbe essere non difficile. Colle forze che disponiamo nessun filibustiere, nemmeno Morgan, oserebbe una simile impresa.
– Andiamo all’isola di Taroga, – disse Tusley, il quale fino allora era rimasto silenzioso. – Io so che una partita di filibustieri, montati su due fregate, dovevano giungervi da un momento all’altro, decisi a bloccare Panama. Se potremo trovarli, faremo tremare una volta ancora gli abitanti della città. Ciò che mi preoccupa è pel momento un’altra cosa.
– Parlate, signor Tusley, – disse il conte.
– Un prigioniero mi ha confessato or ora che grossi corpi di spagnuoli si sono messi in campagna, per tagliarci la ritirata verso l’Oceano Pacifico. Vi consiglierei quindi, nell’interesse comune, di sgombrare al piú presto Nuova Granata e di raggiungere la sponda. Ormai tutto quanto vi era da prendere si trova nelle nostre tasche.
– Poca cosa però, – disse Raveneau. de Lussan. – Il saccheggio non ha fruttato che ottantamila piastre.
– Ne avremo delle altre durante la ritirata, – rispose Grogner. – Sul nostro cammino incendieremo paesi, villaggi e città e non le risparmieremo.
– Io sono pronto a partire, – disse il conte. – Non terrò per parte mia che un solo prigioniero: il marchese di Montelimar.
– E noi una trentina di pezzi grossi della città, che ci forniranno a suo tempo un rispettabile riscatto, – disse Grogner. – Ci saranno utilissimi se potremo fare una dimostrazione navale contro Panama. Signor de Lussan, date l’ordine della ritirata. È meglio che raggiungiamo le fitte foreste, prima che le cinquantine spagnuole, che devono già essere in marcia, ci piombino addosso.
Non era trascorsa una mezz’ora che i filibustieri, i quali non avevano perduto, in tanto battagliare, che soli dodici uomini, mentre avevano fatto una vera strage degli abitanti che difendevano le mura, si trovavano pronti a sgombrare la città.
Oltre i prigionieri, si erano impadroniti anche d’un cannone, per meglio difendersi dagli attacchi che già s’aspettavano durante la ritirata verso l’Oceano Pacifico.
Per meglio ingannare le truppe lanciate sulle loro tracce, avevano deciso di risalire verso il settentrione, anche perché il paese, piú fertile, poteva offrire maggiori risorse.
Alle otto del mattino, i quattro piccoli corpi, dopo d’aver fatto saltare un’altra ala della fortezza, lasciavano la città, rifugiandosi sotto le immense foreste che allora coprivano gran parte dell’America centrale e che non erano occupate che da rade tribú d’indiani sfuggiti miracolosamente alla dura schiavitú degli spagnuoli.
Da uomini abituati alle continue guerriglie, sentivano però il nemico.
Ed infatti, a dieci miglia da Nuova Granata, un corpo di duemila e cinquecento uomini, giunto da Panama, li assalta in rasa campagna, cercando di circondarli.
Pochi colpi di cannone, sparati dal pezzo che per loro fortuna avevano condotto da Granata, lo mettono in piena rotta!…
Due ore piú tardi, presso la piccola città di Leon, posta a poche leghe da Granata, tenta pure di arrestarli un corpo composto di cinquecento lance, ma con un attacco furioso, condotto particolarmente dal conte di Ventimiglia e da Raveneau de Lussan, lo volgono pure in fuga. E questa è storia verissima! …
È bensí vero che gli spagnuoli avevano una grande paura di quei ladroni di mare che, come abbiamo detto, ritenevano figli di Belzebú.
Non erano però finite le peripezie dei filibustieri. Gl’indiani, per ordine del governatore di Panama, bruciavano boscaglie e piantagioni, per affamarli e li assalivano a colpi di freccia in mezzo alle sterminate foreste.
Presso la cittaduzza di Ginandejo, gli spagnuoli, raccolti in uno stretto passaggio, tendono un agguato e mandano alcuni abitanti incontro ai filibustieri per invitarli a recarsi nelle loro fattorie a ristorarsi, promettendo viveri e vino in abbondanza.
L’agguato però non ha anche questa volta nessun successo. I filibustieri, furiosi per tale tradimento, tagliano a pezzi le cinquantine spagnuole, saccheggiano la città e poi la incendiano, per punire gli abitanti di essersi prestati a preparare l’agguato.
Dopo quattordici giorni di marce continue, di combattimenti incessanti, i filibustieri giungevano finalmente, laceri, affamati, essendo tutto stato bruciato dinanzi a loro, sulle rive dell’Oceano Pacifico, di fronte all’isola di Taroga, sulla quale speravano trovare altri compagni venuti dall’Atlantico.
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