IL SEGRETARIO DEL MARCHESE DI MONTELIMAR

CAPITOLO XII

 

 IL SEGRETARIO DEL MARCHESE DI MONTELIMAR

 

 Il galeone, fermato in piena volata, non poteva ormai piú sfuggire all’attacco della fregata.

 Gli spagnuoli, passato il primo momento di terrore, si erano messi subito all’opera per sgombrare la nave dall’albero che poteva impacciare le loro mosse nel momento dell’abbordaggio.

 Lo avevano colpito con le scuri e con le seghe, mentre gli uomini addetti ai pezzi delle batterie aprivano un fuoco d’inferno, con la speranza di tener lontana la nave corsara.

 La Folgore a sua volta aveva cominciato a rispondere con gran vigore e non solamente con i suoi pezzi.

 I bucanieri erano saliti in coperta e, trovandosi il galeone a buon tiro, non facevano risparmio di proiettili, prendendo di mira soprattutto i piloti e gli ufficiali del ponte di comando.

 La distanza spariva rapidamente, poiché la fregata precipitava la corsa per impedire agli spagnuoli di riorganizzarsi.

 Le cannonate si susseguivano alle cannonate, ora in alto per spezzare le alberature, e ora in basso, quasi a livello dell’acqua, per rovinare la carena.

 Gli uomini incaricati di chiudere i fori aperti dalle palle con dei grossi tappi di legno, che venivano ribattuti febbrilmente, non restavano inoperosi e cadevano in buon numero sui banchi.

 Anche in coperta la strage era grande, specialmente sul galeone che non aveva pezzi da caccia sul cassero e i cui archibugieri non potevano competere, per esattezza di tiro, coi formidabili bucanieri.

 Non erano trascorsi dieci minuti, quando la Folgore , che procedeva tutta avvolta in un’immensa nuvolaglia di fumo, fu addosso al galeone.

 Il luogotenente, che aveva presa la ribolla del timone, abbordò il legno nemico a poppa, imbrogliando il bompresso fra le sartie ed i paterazzi dell’artimone, mentre i gabbieri di prora lanciavano rapidamente numerosi parabordi per attenuare l’urto.

 Non per tanto la scossa fu tale, che le due navi s’inclinarono spaventosamente a babordo l’una ed a tribordo l’altra.

 La voce del figlio del Corsaro Rosso echeggiò come uno squillo di tromba:

 – A me i bucanieri! Sul ponte gli uomini delle batterie!

 Si era precipitato verso il castello di prua, seguito dal guascone, il quale faceva fare alla sua draghinassa dei terribili mulinelli, da Mendoza che brandiva una scure e dai bucanieri, i quali avevano allora ricaricati i loro archibugi.

 Trenta o quaranta spagnuoli, fra fucilieri e marinai, avevano invaso il cassero per contrastare ferocemente il passo agli assalitori, urlando a squarciagola:

 – Morte ai corsari! Cacciamoli in acqua!

 Il conte di Ventimiglia, il guascone e Mendoza furono i primi, correndo sul bompresso, a piombare sul vascello spagnuolo, scaricando le pistole, e a saltare sul cassero.

 Proprio in quel momento la fregata, che non era ancora stata saldata al galeone con i grappini d’arrembaggio, sospinta dal vento indietreggiò, lasciando soli i tre valorosi uomini.

 Il momento era tragico, perché i bucanieri non potevano a loro volta montare all’abbordaggio, dovendo superare, con un salto, una mezza dozzina di metri, cosa assolutamente impossibile anche a quegli intrepidi cacciatori per quanto agili fossero.

 Un urlo si era alzato sulla fregata.

 – Salviamo il conte!

 Gli spagnuoli, armati di spadoni, di scuri e di alabarde, si erano precipitati verso i tre coraggiosi, sicuri di vincerli facilmente. Ma avevano trovato dei formidabili spadaccini.

 Il signor di Ventimiglia, per nulla atterrito da quell’incidente, aveva impegnato risolutamente la lotta, in attesa che i bucanieri e i filibustieri accorressero in suo aiuto.

 Degno nipote del Corsaro Nero, il piú famoso spadaccino del golfo del Messico, si era avventurato contro i nemici con impeto feroce, impegnando un terribile combattimento.

 Il guascone, come se volesse dimostrare che se i figli della sua terra erano ricchi di spacconate erano anche robusti di braccio e pieni di coraggio, l’aveva seguito, menando colpi furiosi di draghinassa ed urlando come un indemoniato:

 – Largo ai guasconi!

 Mendoza vibrava invece tremendi colpi di scure, spaccando elmetti e corazze e troncando spade e alabarde.

 Sembravano tre diavoli scatenati.

 Fischiava la spada del conte e scrosciavano formidabilmente la draghinassa del guascone e la scure del basco.

 La lotta però di tre contro cento, poiché dai boccaporti del galeone salivano con furia artiglieri e marinai, non avrebbe potuto durare a lungo senza i bucanieri.

 Vedendo il conte in pericolo, quei meravigliosi bersaglieri avevano aperto un superbo fuoco di fila, prendendo di fianco gli spagnuoli, mentre i gabbieri delle coffe scaraventavano delle granate che usavano allora lanciare colle mani, senza badare al pericolo di vedersele scoppiare sotto gli occhi.

 I marinai della fregata non perdevano intanto il loro tempo. Con rapidità prodigiosa avevano gettati i grappini d’arrembaggio attraverso le griselle e le sartie del galeone, per riunire le due navi in uno stretto ed altrettanto pericoloso abbraccio.

 Già il conte ed i suoi due compagni stavano per cedere dinanzi agli spagnuoli i quali li assalivano a colpi d’alabarda, di spade e di scuri, quando i bucanieri saltarono sul cassero del galeone, senza attendere che il contatto fosse avvenuto fra le due grosse navi.

 Una scarica terribile, che produsse una vera strage, costrinse gli assalitori a ripiegarsi fra il trinchetto e l’albero d’artimone, dove era stata rapidamente innalzata una barricata con botti, cordami, pennoni di ricambio e pezzi d’artiglieria fuori d’uso, che ormai non servivano che per zavorra.

 Tutta la difesa del galeone doveva concentrarsi in quel luogo.

 Il figlio del Corsaro Rosso, uscito incolume da quella prima lotta, riorganizzò rapidamente i suoi bucanieri, i quali avevano lasciati i loro archibugi per impugnare delle corte e pesanti sciabole d’abbordaggio e mosse arditamente all’attacco, mentre i filibustieri balzavano a loro volta sul cassero del galeone, mandando urla feroci.

 Il conte aveva fatto subito impeto contro la barricata, ma aveva dovuto retrocedere dinanzi all’accanita resistenza dell’equipaggio spagnuolo, il quale si difendeva specialmente a colpi di alabarde, armi assai pericolose, contro le quali le spade e le sciabole non avevano sempre buon giuoco.

 Non si era però scoraggiato di quel primo scacco.

 Aspettò che i suoi fìlibustieri si raccogliessero, e poi per la seconda volta montò all’assalto, mentre i due pezzi da caccia mitragliavano il castello di prora del galeone, dove si erano annidati una ventina di archibugieri, i quali mantenevano un fuoco vivissimo e anche micidialissimo.

 Mentre i bucanieri e i filibustieri impegnavano la lotta col loro solito slancio, gli artiglieri delle due navi si scambiavano colpi di pistola attraverso i sabordi delle batterie e perfino qualche colpo di cannone, provocando delle gigantesche fiammate che potevano causare qualche terribile incendio.

 Dinanzi alla barricata si combatteva frattanto con pari furore. Gli spagnuoli opponevano una resistenza disperata e non cedevano il campo, quantunque i bucanieri avessero ripreso i loro archibugi, molto piú utili delle sciabole in quel momento, e li fucilassero quasi a bruciapelo, e i gabbieri non cessassero di scagliare granate.

 Il figlio del Corsaro Rosso, spalleggiato dal guascone, per ben tre volte era montato sulla barricata e per altrettante volte aveva dovuto ridiscenderne per non cadere sotto i colpi di picca e d’alabarda.

 – Amici! – gridò volgendosi un istante verso i filibustieri, i quali parevano esitanti – un ultimo sforzo e il galeone è nostro!

 Per la quarta volta l’equipaggio della fregata montò all’assalto con rabbia feroce, menando disperatamente le mani e sparando colpi di pistola, e dopo un sanguinoso corpo a corpo s’impadroní della barricata, non senza aver subito perdite considerevoli.

 Gli spagnuoli, che non erano riusciti a tener testa a quella carica irresistibile, erano ripiegati in massa verso il castello di prora, Forse con l’intenzione di tentare l’ultima resistenza.

 Il signor di Ventimiglia, che stava ritto sulla barricata, alzò la spada lorda di sangue, gridando:

 – La resa o la strage: scegliete!

 Gli spagnuoli erano rimasti silenziosi, impugnando sempre rabbiosamente le armi. Certo, il desiderio di ritentare la lotta non mancava in quei valorosi: ma dopo essersi contati e di aver constatato che le loro perdite erano troppo enormi e le loro forze troppo scarse per riconquistare il terreno perduto, si decisero a gettare le armi sul ponte.

 Il capitano del galeone, un vecchio dalla lunga barba bianca, che si era sempre battuto in prima fila col coraggio d’un leone, scese la scala del castello di prora, e avanzò solo verso la barricata, dietro la quale stavano i bucanieri con gli archibugi spianati.

 – Che cosa intendete fare di noi? – chiese guardando il conte con ira. – Gettarci in mare, forse?

 Il signor di Ventimiglia fece col capo un gesto negativo, poi muovendogli incontro col cappello in mano, rispose:

 – Il figlio del Corsaro Rosso, conte di Ventimiglia e signore di Roccabruna e di Valpenta, è abituato a stimare il valore sventurato, signore.

 – Il figlio del Corsaro Rosso! – esclamò il capitano del galeone. – Il nipote del famoso Corsaro Nero! Da un gentiluomo il mio equipaggio non avrà nulla da temere. Signor conte, vi saluto! Che cosa desiderate?

 – Che mi venga consegnata una persona che si trova a bordo della vostra nave e che mi è necessaria – rispose il signor di Ventimiglia.

 – Chi?

 – Il segretario del marchese di Montelimar.

 Un grido si alzò fra l’equipaggio, poi un uomo sui quarant’anni, di media statura, con barba e baffi neri e due occhi assai penetranti, si aprí il passo fra i marinai, e scese rapidamente la scala.

 – Domandate di me? – chiese avanzando verso il ponte.

 – Sí, signor Barquisimeto – rispose il corsaro.

 – Che cosa volete?

 – Che passiate sulla mia fregata.

 – Prigioniero?

 – Pensate forse che io abbia assalito il galeone per il capriccio di saccheggiarlo o di fare strage del suo equipaggio?

 – E degli altri che cosa ne farete?

 – Sono liberi! – rispose il signor di Ventimiglia.

 – Che cosa dite?

 – Che sono liberi, vi ripeto.

 – E tutto questo furioso combattimento è avvenuto per fare di me un prigioniero? – chiese il segretario del marchese di Montelimar con stupore.

 – Precisamente.

 – Ma che cosa volete da me?

 – In questo momento non posso dirvelo. Passate sulla mia fregata e il galeone, se sarà ancora in grado di continuare il suo viaggio, se ne vada pure.

 – Senza saccheggio? – chiese il capitano della nave, facendosi a sua volta innanzi.

 Il conte lo guardò per qualche istante, sorridendo della sua sorpresa, poi chiese:

 – A quanto stimate le ricchezze contenute nel vostro galeone, capitano?

 – A mille e cinquecento piastre.

 – Non portate verghe d’oro?

 – Nessuna.

 – Pagherò al mio equipaggio le piastre che avrebbe potuto conquistare nel saccheggio della vostra nave – dichiarò il conte.

 – E lo stendardo di Spagna?

 – Sventolerà sempre sull’asta di poppa – rispose il conte. – Il grande stendardo di Spagna non si abbassa per ora dinanzi agli sguardi del figlio del Corsaro Rosso, o meglio, del conte di Ventimiglia… Signori, siete liberi! A me però il segretario del marchese di Montelimar!

 Il vecchio capitano del galeone, che non aveva ancora lasciato cadere la spada, fece atto di gettarla a terra, ma il conte con un rapido gesto lo fermò dicendogli:

 – Conservatela per altre battaglie piú fortunate, signore: io non sono, come tanti filibustieri, un nemico giurato della vostra razza. A me basta compiere la mia missione e niente piú.

 – Quale?

 – È un segreto che non posso confidare a voi. Signor Barquisimeto, volete seguirmi o no? Dalla vostra risposta dipende la salvezza del galeone.

 Il segretario del marchese di Montelimar ebbe una breve esitazione, poi disse:

 – Piuttosto che la bandiera della mia patria scenda dall’albero, eccomi, signor conte. Affido però la mia vita alla vostra lealtà.

 Il signor di Ventimiglia non rispose.

 Il segretario fece alcuni passi innanzi.

 – Eccomi, signor conte, – disse.

 – A bordo, amici – rispose il corsaro.

 I filibustieri e i bucanieri lasciarono la barricata e si ritrassero lentamente a bordo della fregata, ma tenendo sempre, per precauzione, gli archibugi puntati contro gli spagnuoli.

 Il segretario del marchese di Montelimar, quantunque pallidissimo, li aveva seguiti. Quando il figlio del Corsaro Rosso lo vide attraversare il bompresso e mettere i piedi sul castello di prora della Folgore , gridò con voce tonante:

 – Ritirate i grappini d’arrembaggio e contrabbracciate le vele!

 La manovra fu eseguita in un momento dai corsari di servizio sulla tolda, mentre i cannonieri, temendo una sorpresa, si precipitavano nelle batterie.

 Il conte, ritto sulla prora altissima della fregata, si levò nuovamente il cappello e, dopo aver alzato la spada, l’abbassò gridando ai suoi corsari:

 – Salutate i colori della vecchia Spagna! È il nipote del Corsaro Nero e del Corsaro Verde che ve l’ordina! Salutate i valorosi!

 Mentre la fregata indietreggiava lentamente, essendo ormai stati tolti i grappini di arrembaggio, i bucanieri fecero una scarica di archibugi, sparando in alto, con non poco stupore degli spagnuoli, i quali erano rimasti raccolti sul castello di prora del galeone.

 Gli hidalghi,da veri cavalieri andalusi, non furono da meno dei filibustieri, di quei terribili uomini che avevano giurato la distruzione completa di tutte le colonie spagnuole, colla scusa di vendicare gl’indiani, e non a torto, dei tanti delitti efferati commessi dai primi conquistadores, e spararono anch’essi in alto, gridando:

 – Buon viaggio al figlio del Corsaro Rosso!

 La fregata, ormai libera, veleggiava lungo la poppa del galeone.

 Le due bandiere, quella del conte di Ventimiglia e il grande stendardo di Spagna, scesero per tre volte fino sul cassero e per altrettante si alzarono, poi le due navi si separarono.

 La fregata aveva ripresa la sua rotta verso ponente, mentre il galeone, che era uscito dalla lotta assai maltrattato, metteva la prora verso la costa di San Domingo per cercare un rifugio in qualche porto.

 – Centomila fulmini del mar di Biscaglia! – esclamò il guascone, quando le due navi furono lontane un tre o quattrocento metri. – Questi si chiamano combattimenti!… e con tanta fatica, sí e no ho guadagnato il doblone che quel basco fortunato ancora mi deve. Se io fossi stato al posto del signor di Ventimiglia, non avrei lasciata nemmeno una piastra a quel galeone del malanno. Venti morti per avere un misero segretario!… Quello non valeva nemmeno una carica per la pipa!

 Si era voltato verso Mendoza il quale, non meno avaro di lui, stava contando i dobloni che il conte, da uomo di parola, gli aveva subito versati, mentre il luogotenente faceva distribuire all’equipaggio le mille e cinquecento piastre che avrebbe potuto ricavare dal saccheggio del galeone.

 – Ohé, compare, – gli disse. – Siete stato pagato, mi pare.

 – Il conte è un galantuomo, – rispose Mendoza. – Una vera parola d’oro. Parla e cola oro!

 – Non ho mai avuto bisogno di occhiali io!… Un guascone colle lenti sarebbe ridicolo.

 – E cosí?

 – Dimenticate, compare, quel doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar. Era Alicante o Xeres?

 – Xeres.

 – I baschi sarebbero meno gentiluomini dei guasconi? Vivaddio! Era Alicante!… Di vini spagnuoli io me ne intendo.

 – I baschi sono galantuomini, – rispose gravemente Mendoza, ridendo. – Riconosco il mio torto, ma pel momento voi, don Barrejo, non avrete quel doblone, perché avendolo scommesso in una cantina dovremo berlo in un’altra cantina. Vi pare? Fuori del mar di Biscaglia!

 – Non ho mai trovato un compare cosí furbo! – gridò don Barrejo. – Credevo che i guasconi fossero i piú furbi dell’orbe terracqueo ed ora m’accorgo che i baschi sono…

 – Che cosa? – chiese Mendoza, ridendo.

 – Fiori di canaglie!

 – Volete provocarmi, don Barrejo? Lo sappiamo già che i guasconi sono spadaccini e anche attaccabrighe.

 – E i baschi?

 – Testardi.

 – Una parola molto sonora e che non dice nulla, – disse il guascone.

 – Perdinci!… Vuol dire che quando un basco ha detto una cosa, vivo o morto, sarà sempre quella.

 – Ah!… Ho capito!… Come quella di bere il doblone.

 – Ecco i guasconi che ridiventano furbi.

 – Che il diavolo vi porti all’inferno, – disse l’avventuriero, ridendo. – Me l’avete ben giuocato quel doblone.

 – State sicuro: andremo a berlo in qualche cantina dell’America centrale.

 Mentre i due compari discutevano sul doblone e la fregata riprendeva la sua corsa verso ponente, riparando alla meglio i danni subiti durante quell’accanito combattimento, il signor di Ventimiglia aveva pregato cortesemente il segretario del marchese di Montelimar di seguirlo nel salotto del quadro.

 – Sedetevi, cavaliere, – disse il conte, quand’ebbe chiusa la porta, indicandogli una sedia. – Abbiamo molto da discorrere fra noi.

 – Ciò mi stupisce molto, – rispose il segretario del marchese, il quale appariva assai pallido e molto inquieto. – È la prima volta che io vi vedo, signore.

 – Ne sono convinto, perché solamente da qualche mese mi trovo nelle acque del Golfo del Messico.

 – Per quale motivo?

 – Per cercare voi, prima di tutto, – rispose il conte, sedendosi di fronte al segretario.

 – Sono dunque un uomo cosí prezioso?

 – L’avete veduto or ora. Per avervi nelle mie mani, ho messo in pericolo la mia fregata e anche la vita mia e quella del mio valoroso equipaggio. Sapete già chi sono?

 – Il figlio del Corsaro Rosso.

 – Avete conosciuto mio padre?

 Il segretario del marchese di Montelimar diventò livido, ma non rispose.

 – Cavaliere, – disse il conte con voce un po’ aspra – non dimenticate che siete completamente in mia balia e che, se anche sono un gentiluomo, ho nelle vene il sangue dei formidabili corsari che devastarono le colonie spagnuole del grande Golfo. Rispondete alle mie domande.

 – Ebbene, sí, l’ho conosciuto – rispose il segretario del marchese.

 – Dove?

 – A Maracaibo.

 – Quando?

 – Il giorno antecedente al suo supplizio.

 Questa volta fu il conte che divenne pallidissimo, mentre un lampo d’ira illuminava i suoi occhi.

 – Sapevano d’impiccare un gentiluomo? – chiese con voce sorda, stringendo i denti.

 – Io credo di sí.

 – Chi pronunciò la sentenza di morte contro mio padre e contro tutti i suoi marinai sfuggiti al naufragio?

 – Non lo so.

 – È inutile che cerchiate d’ingannarmi! – disse il signor di Ventimiglia balzando in piedi. – È stato il marchese di Montelimar, vostro signore.

 – Perché chiedermelo allora? – disse il cavaliere.

 – Volevo essere sicuro della cosa.

 Il conte girò due o tre volte intorno alla tavola che occupava il centro del salotto; poi, fermandosi bruscamente dinanzi al segretario, il quale lo guardava con terrore, gli disse:

 – Mio padre ed i miei due zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero, erano venuti in America per vendicare la morte del loro fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca Wan Guld e non già per corseggiare, come fanno tutti gli altri filibustieri della Tortue. I Ventimiglia hanno ancora nel Piemonte terre e castelli, quanti forse non ne possiedono i vostri grandi di Spagna o i vostri conquistadores arricchitisi con le spoglie dei disgraziati cacichi del Messico o del Perú.

 – L’avevamo saputo dal nostro ambasciatore, accreditato presso la corte dei duchi di Savoia – rispose il segretario del marchese di Montelimar.

 Il conte fece un gesto con la destra, come per allontanare qualche lontano ricordo, poi riprese:

 – Torniamo al nostro discorso, cavaliere. Mio padre, prima di partire per l’America insieme con i suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il Corsaro Verde, aveva sposato una principessa del Brabante che morí dandomi alla luce. Io non so in quale epoca egli sposò qui la figlia del grande cacico Hara, re del Darien, dalla quale ebbe una figlia. Ne avete udito parlare?

 – Sí, vagamente.

 – Quando la nave di mio padre naufragò sulle coste di Maracaibo, quella bambina si trovava fra i superstiti, non è vero?

 – Chi ve lo disse?

 – Un giorno, frugando fra le carte di mio padre, appresi che io avevo una sorellina in America. Morgan, che è oggi il governatore di Giamaica e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, mi ha confermato, or non è molto, che la notizia era vera. Che cosa ne ha fatto il marchese di Montelimar di quella fanciulla? Parlate, cavaliere! Perché se un’infamia fosse stata commessa, guai al vostro signore! Un Ventimiglia non perdona!

 Il figlio del Corsaro Rosso, cosí parlando, era diventato terribile.

 I suoi lineamenti si erano alterati, assumendo una espressione selvaggia ed i suoi occhi mandavano lampi sinistri.

 – Mi avete capito, cavaliere? – gridò, battendo fortemente il pugno sul tavolino. – Che cosa ne avete fatto di mia sorella? Io sono venuto appositamente in America per cercarla, risoluto a mettere sottosopra il gran Golfo, pur di trovarla! Ho nelle mie vene, ve lo ripeto, il sangue di gente di guerra e di corsari e farò vedere ai vostri compatriotti, al balenar delle mie artiglierie, lo stemma dei Ventimiglia.

 – Calmatevi, signor conte – disse il segretario.

 – È morta o viva mia sorella?

 – È viva.

 – Me lo giurate?

 – Sul mio onore!

 – Con questa affermazione voi avete salvata la vita al vostro signore.

 – Volevate ucciderlo?

 – Sí, con un buon colpo di spada – rispose il conte. – Dove si trova mia sorella?

 – Non ve lo saprei dire, signor conte sul mio onore.

 – Che sia un onore dubbio? – chiese il signor di Ventimiglia, facendo un gesto di minaccia. – Dovrò andare dal vostro signore a chiedere notizie di mia sorella? Ditemelo.

 Il cavaliere impallidí, poi divenne rosso.

 – Signor conte, – disse, con voce fremente, – quando un hidalgo spagnuolo giura sul suo onore, non vi è gentiluomo di Europa che possa stargli di fronte, perché innanzi a tutto noi siamo cavalieri, ci abbia creato Filippo secondo o Carlo quinto. Se dubitate, io sono pronto ad incrociare la mia spada contro di voi. I gentiluomini della vecchia Castiglia muoiono, ma non si arrendono!… Mi avete capito, signor conte?

 Il signor di Ventimiglia lo aveva guardato con viva sorpresa. Per qualche istante strinse l’impugnatura della sua spada, poi disse:

 – No, cavaliere. Ho avuto torto a offendervi e da buon gentiluomo vi faccio le mie scuse. Voi dunque non sapete dove si trova mia sorella?

 – Io ho udito dire una sera dal marchese di Montelimar che l’aveva affidata ad un mayoral della costa del Pacifico. A Panama o dove? Questo non lo so; ve lo affermo solennemente, signor di Ventimiglia.

 – Ad un mayoral ? Che cos’è? Io non conosco perfettamente la vostra lingua.

 – Ad una specie d’intendente – rispose il cavaliere.

 – Che voi non conoscete?

 – No.

 – Sicché sarà necessario che io vada a scovare il vostro signore.

 – Se riuscirete a sapere dove si trova.

 – Lo so di già – rispose il conte.

 – È impossibile!

 – Allora vi dirò che il vostro signore si trova ora a Pueblo-Viejo. Il segretario del marchese ebbe uno scatto e fece un gesto d’ira.

 – Chi ve lo ha detto? – chiese con i denti stretti. – La marchesa Carmen di Montelimar, non è vero? Oh!… lo so che ha sempre odiato suo cognato, come so pure che ha favorito la vostra fuga da San Domingo.

 – V’ingannate, signore! – rispose il conte. – Lo avevo saputo prima da mio cugino Morgan.

 – L’uomo nefasto che ci ha rovinato Panama e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero.

 – Precisamente, signor Barquimiseto.

 Il segretario del marchese di Montelimar si morse le labbra a sangue.

 – E voi andate a trovare il mio signore? – chiese.

 – Vi ho detto che sono venuto in America per cercare prima di tutto mia sorella!

 – E poi?

 – Ah!… Il resto non vi riguarda, signore.

 – Ma s’indovina: voi siete venuto qui per vendicare vostro padre.

 – Io non ho ancora detto questo. Voi dunque non sapete dove si trova la nipote del grande cacico del Darien?

 – No, ve l’ho già detto, È stata affidata ad un mayoral e non ne so di piú.

 – Me lo dirà il marchese – disse il conte, alzandosi impetuosamente. – Vi avverto intanto che voi rimarrete mio prigioniero fino a che la mia missione non sarà finita; e due uomini vigileranno, giorno e notte, su di voi. Non contate quindi su di un possibile tentativo di fuga, poiché i miei filibustieri sono d’una fedeltà a tutta prova e non esiterebbero un solo istante ad uccidervi. D’altronde io farò quanto posso per rendervi meno pesante la prigionia, perché pranzerete alla mia tavola e sarete trattato con tutti i riguardi ai quali ha diritto un cavaliere spagnuolo. Addio, signore; potete andare a riposarvi nella cabina che sta di fronte a noi: siete mio ospite.

 Ciò detto il conte uscí dal salotto e salí in coperta dove l’attendevano con viva impazienza il suo luogotenente, Mendoza e il terribile guascone.

 – Dunque? – chiese il signor Verra.

 – Ho finalmente la certezza che mia sorella è viva – rispose il signor di Ventimiglia. – Voi non potete immaginare quale desiderio abbia io di vedere quella fanciulla color cioccolata o rame finissimo. Farà furore alla corte dei duchi di Savoja, i quali già non ignorano la storia dei tre formidabili corsari.

 Poi, volgendosi verso Mendoza, gli domandò:

 – Tu che sei uno dei piú vecchi filibustieri e che hai combattuto con mio padre e con i miei zii, credi che io possa da solo condurre a fine una tale impresa?

 – No, signor conte – rispose il marinaio, tirandosi la barba.

 Non si ripete due volte la fortuna di Morgan, e gli spagnuoli sono formidabili nell’America centrale. Chi rifiuterà però un aiuto al figlio del Corsaro Rosso, al nipote dei corsari Verde e Nero? Forse che i piú famosi filibustieri non operano di là dell’istmo? David, Pusley e Grogner sono là! Andiamo a trovarli, e nessuno di loro si rifiuterà di mettere le sue navi, i suoi uomini, le sue spade e i suoi pezzi a disposizione d’un conte di Ventimiglia.

 – Potremo noi trovarli?

 – Io so di positivo che, dopo la loro disastrosa crociera verso lo stretto di Magellano, hanno conquistato l’isola di San Giovanni e che là meditano chi sa quali formidabili imprese ai danni della Spagna!

 – San Giovanni, hai detto?

 – Sí, una piccola terra che dista appena cinque leghe dal continente. Andiamo a trovare quei leoni, signor conte, e faremo cadere il marchese di Montelimar e anche un’altra volta Panama. Il filibustiere non ha mai avuto paura e lo troverete sempre pronto a qualsiasi cimento.

 – Sono i moderni guasconi. – disse don Barrejo. – Che gente meravigliosa!…

 Il conte stette un momento immerso nei suoi pensieri, poi disse:

 – Credo anch’io che non si possa fare diversamente. L’aiuto di quei terribili filibustieri mi è necessario per lottare col marchese di Montelimar. Ma sei proprio certo, Mendoza, che si trovino sulle coste del Pacifico? Morgan mi aveva detto che erano partiti verso il sud, per aggirare la Terra del Fuoco e tornare nel Golfo da quella parte.

 – È vero, signor conte; ma la loro impresa è fallita e sono tornati verso il settentrione ancora in buon numero. Si dice che abbiano con loro non meno di ottocento uomini e che si propongono di mettere a sacco tutta l’America centrale.

 – Eh, con una simile forza non mi stupirei! So quanto valgono quegli uomini. E dove lasceremo noi la fregata?

 – La rimanderemo alla Tortue, signore – disse il luogotenente. Voi sapete bene che mai gli spagnuoli oserebbero assalire la rocca dei filibustieri. Volete affidare a me l’incarico? Lasciatemi una trentina di uomini ed io m’impegno di sfuggire alle crociere dei galeoni e delle caravelle spagnuole.

 – E poi, non avete vostro cugino? – chiese Mendoza. – La Giamaica ha porti sicuri, ed il signor Morgan è un uomo da difendere la vostra fregata contro tutti gli attacchi.

 – E sarà meglio! – disse il signor di Ventimiglia. – Signor Verra, date la rotta ai vostri piloti e andiamo a scovare, prima di tutto, il marchese di Montelimar a Pueblo-Viejo. Se non mi dirà dove si trova mia sorella, guai a lui!… Sarò implacabile come mio zio, il Corsaro Nero!

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