CAPITOLO XIV
LA PRESA DI GUAYAQUIL
Mentre il marchese conduceva prigionieri a Guayaquil il conte di Ventimiglia, il basco ed il fiammingo, don Barrejo fuggiva a gran galoppo verso Panama, inseguito da una mezza dozzina di cavalleggieri spagnuoli.
Il guascone accortosi subito che gli davano la caccia, si era gettato in mezzo alle piantagioni, coll’intenzione di raggiungere un altro gruppo di colline che si profilavano verso il settentrione dove sperava di trovare un momentaneo rifugio.
Aveva avuto la fortuna di scegliere un cavallo robustissimo ed insieme agilissimo, e contava di stancare molto presto i suoi inseguitori.
Dopo essere sfuggito miracolosamente a tre o quattro colpi d’archibugio, era riuscito a guadagnare la base della collina con un vantaggio di almeno quattrocento metri.
– Coraggio, mio morello! – gridò il guascone. – Quando giungerà il buon momento fucileremo anche noi quelli che ti fanno tanto sudare. Non domando da te che uno sforzo supremo per attraversare questa collina. Piú tardi ritorneremo sulla strada.
L’andaluso, quasi lo avesse compreso, mandò un lungo nitrito e si slanciò animosamente su per l’altura, mentre i cavalleggieri spagnuoli urlavano a squarciagola.
– Ferma!… Ferma!.
– Sí, aspettatemi un po’, – rispose il guascone, il quale aizzava senza posa il cavallo. – Io spero di farvi correre senza riuscire a prendermi.
Il morello andaluso che doveva essere veramente un corridore straordinario, salí sempre al galoppo la collina, superò la piccola spianata e scese velocemente il versante opposto.
I cavalleggieri spagnuoli che erano pure splendidamente montati, non si fermarono dinanzi all’ostacolo e salirono a loro volta, a corsa sfrenata, la collina, gridando sempre:
– Arrenditi, furfante!…
– Se non foste in sei vi farei vedere io come sono furfanti i guasconi del mar di Biscaglia, – brontolava don Barrejo, rosso di collera. – Questo insulto vi costerà caro. Aspettate che sia giunto al piano e vedrete che fuoco di fila aprirò su di voi.
L’andaluso, trattenuto saldamente dal guascone, scendeva sempre di gran corsa la collina, mentre gli spagnuoli, i quali avevano raggiunto il piccolo altipiano, si preparavano a seguirlo animosamente.
Ad un tratto una bestemmia sfuggí al guascone.
Aveva scorto un lunghissimo crepaccio, largo non meno di quattro metri, il quale tagliava la collina da una estremità all’altra.
– Tonnerre!…- gridò. – Salterà il mio morello? Fortunatamente non è completamente stanco.
Rallentò la corsa, poi quando giunse presso la spaccatura, raccolse strettamente le briglie ed allargò le gambe, gridando:
– Hip! Morello mio!
Il cavallo si rizzò sulle zampe posteriori, mandò un sonoro nitrito, poi spiccò il salto, un salto veramente straordinario, degno d’un corsiere irlandese.
Il crepaccio era stato varcato!…
Il guascone accarezzò la brava bestia, balzò a terra, la condusse dietro ad una macchia di piante che crescevano un po’ in parte, levò l’archibugio e tolse dalle fonde le due pistole d’arcione, dicendo:
– Ora vedremo!
I sei cavalieri, rossi di collera, scendevano la collina a precipizio, colla spada in pugno, pronti anche loro a tentare il salto.
Il guascone si era gettato a terra, nascondendosi dietro ad un macigno ed aveva spianato l’archibugio.
Un cavalleggiero che precedeva i compagni d’una decina di metri giunse dinanzi all’ostacolo ed allargò le gambe, mandando un grido.
Il guascone fece fuoco alla distanza di venti passi.
La detonazione fu seguita da un nitrito e da una esclamazione angosciosa.
– Valgame dios !
Cavallo e cavaliere erano precipitati dentro la spaccatura, fiaccandosi entrambi il collo.
Il guascone, gettato l’archibugio ancora fumante, era balzato in piedi, impugnando le due grosse pistole d’arcione.
Una palla gli fischiò agli orecchi portandogli via netto il lobo sinistro. Un mezzo millimetro piú innanzi e don Barrejo era finito.
Un altro cavaliere giungeva, pronto a varcare l’ostacolo.
Il guascone lasciò partire i due colpi delle sue pistole e anche quello precipitò nella fenditura insieme al suo animale, sfracellandosi sul fondo roccioso.
Gli altri quattro, spaventati, volsero i loro destrieri e risalirono la collina a corsa sfrenata, credendo in buona fede di aver da fare con uno di quei terribili filibustieri ritenuti ormai da tutti come esseri invincibili perché protetti dal diavolo.
Il guascone attese che raggiungessero la cima della collina, andò a prendere il suo cavallo, rimontò in sella e riprese al piccolo trotto la marcia attraverso le piantagioni, promettendosi di riguadagnare piú tardi la strada che conduceva a Panama.
– Per ora mi lasceranno tranquillo, – disse. – Se vorranno riprendere l’inseguimento giungeranno troppo tardi. Andiamo a cercare al piú presto Grogner e Raveneau de Lussan. Guayaquil li tenterà e poi si tratta di salvare il figlio del Corsaro Rosso e tutti i filibustieri prenderanno le armi. Marchese di Montelimar, non hai ancora vinta la tua partita, per la morte del diavolo.
Forzò il cavallo ad allungare il passo e dopo d’aver ricaricate le sue armi accese un sigaro, l’ultimo che possedeva, sicurissimo di non venire disturbato ormai piú da nessuno.
Il sole stava per scomparire quando entrò in Panama, avviandosi verso la fonda della bella castigliana.
Vi era della gente quella sera, per lo piú facchini e barcaiuolí, essendo quella un’osteria di secondo ordine.
Fece un cenno all’ostessa e andò a sedersi in un piccolo camerino che era libero.
La castigliana, dopo d’aver portato da bere a parecchi avventori, lo raggiunse, portando un paio di bottiglie.
– Perché siete ancora qui, caballero? – chiese la bella donna, senza nascondere il suo stupore. – Che cosa è avvenuto dei vostri compagni?
– Presi, – rispose don Barrejo, sturando premurosamente una bottiglia. – Ho fatto sei leghe sempre a galoppo sfrenato e muoio di sete.
– Presi! – esclamò la bella castigliana, con dolore. – Anche il conte?
– Anche lui, – rispose il guascone, picchiando sulla tavola un pugno terribile. – La faccenda però non è ancora finita. Mi occorre solamente una scialuppa, dovesse costarmi cinque dobloni.
– Vi sono qui dei marinai che ne posseggono, caballero.
– Cercate di farmene vendere una, purché sia fornita d’una vela, e ve ne sarò riconoscente, Panchita. Si tratta di salvare il conte.
– Aspettate la mia risposta – rispose l’ostessa.
Il guascone si mise a divorare un po’ di carne fredda che la bella castigliana aveva portata insieme alle bottiglie, borbottando e brontolando dopo ogni bicchiere che vuotava.
Anche la seconda bottiglia fu vuotata, prima che l’ostessa ricomparisse.
– Dunque? – chiese il guascone, il quale aveva riacceso il suo pezzo di sigaro.
– La scialuppa è vostra, – rispose Panchita. – Un pescatore ha consentito a vendervela.
– Dove si trova?
– Presso la bocca del porto.
– Quanto?
– Non occupatevene, caballero, – rispose Panchita, guardandolo cogli occhi ridenti.
– Siete una brava donna, – disse il guascone, accarezzandole il mento. – Se sfuggo alla morte, parola di guascone, farò di voi una signora de Lussac, se accettate la mia mano.
– E perché no? – rispose la bella vedova. – Un de vale un titolo di nobiltà.
– Ed i de Lussac sono vecchi nobili della Guascogna. Addio mia bella, ho troppa fretta in questo momento, ma che Dio mi punisca se non vi rivedrò. Dov’è quel pescatore?
– Venite, mio gentiluomo, – rispose l’ostessa.
Un giovane marinaio stava appoggiato alla porta d’ingresso, tenendo la casacca sulle spalle.
– Ecco il signore che ha acquistato la vostra barca, – gli disse Panchita. – Il conto è saldato.
Il pescatore guardò attentamente il guascone, poi, soddisfatto di quell’esame, si calcò bene in testa il suo cappellaccio chi paglia, dicendo:
– Seguitemi, señor: troverete la scialuppa pronta.
Don Barrejo scambiò coll’ostessa un rapido sguardo e uscí dietro al pescatore.
Soffiava un forte vento quella sera dalle parti dell’Oceano e al largo rombava il tuono. Tuttavia non vi era alcun indizio che scoppiasse lí per lí qualche uragano, quantunque non fosse cosa rara sotto quei climi ardentissimi.
Il pescatore seguí il guascone fino sulle calate dell’avamporto e si fermò di fronte all’ultima gettata, dicendo:
– Ecco la scialuppa, caballero. È completamente armata.
Il guascone gli gettò nelle mani una piastra, balzò nell’imbarcazione, issò la vela e dopo d’aver augurata al pescatore la buona notte, si diresse verso la bocca del porto.
Uscendo da Panama, le caravelle incaricate di vigilare, non dovevano dargli alcun fastidio.
Erano le imbarcazioni che venivano dal di fuori che potevano fermarlo, temendo sempre una improvvisa irruzione dei filibustieri già da tanto tempo minacciata.
Il guascone che non era un cattivo marinaio, essendo nato sulle sponde del mar di Biscaglia, piantò la vela a seconda del vento, legò la scotta e si mise al timone, puntando verso l’isola di Taroga presso la quale contava di giungere prima dell’alba.
Quantunque soffiasse un vento abbastanza fresco, l’Oceano fortunatamente si manteneva tranquillo.
La scialuppa, abilmente guidata, scivolava leggiera e velocissima, seguendo le coste dell’istmo a meno di cinquanta passi.
A mezzanotte il guascone mise la prora risolutamente al largo, sicurissimo di trovarsi ormai all’altezza dell’isola di Taroga.
Tutta la notte lottò contro le onde, che a poco a poco erano diventate grosse ed ai primi albori, come aveva già previsto, entrava nella piccola baia dove si trovava ancorata la flottiglia dei filibustieri, composta di due dozzine d’imbarcazioni, avendo perduto il vascello durante una notte tempestosa.
Era però sempre sufficiente per trasportare sul continente i trecento e cinquanta uomini che rimanevano ancora sotto gli ordini di Raveneau de Lussan e di Grogner.
Il guascone, che era ormai conosciutissimo fra quei formidabili ladroni di mare, fu accolto come un vecchio camerata e condotto immediatamente nella tenda occupata dai due capi della filibusteria.
– Il signor de Lussac, un guascone autentico a cui dobbiamo la resa di Nuova Granata! – esclamò Raveneau, vedendolo entrare.
Da dove venite voi, mio gentiluomo?…
– Dal mare, – rispose don Barrejo, – e porto cattive notizie.
– Del conte forse? – chiese Grogner, scattando.
– È stato preso, signori.
– Da chi? Parlate subito! – esclamarono ad una voce i due filibustieri.
– Dal marchese di Montelimar che voi avete lasciato scappare.
– Me lo immaginavo! – gridò Raveneau de Lussan, gettando in aria la sedia che gli stava dinanzi. Quando mi hanno avvertito che, approfittando d’una nostra baldoria e d’una notte oscurissima, aveva preso il largo, avevo subito pensato al conte di Ventimiglia, è vero Grogner?
– Sí, me ne avevi parlato. Dove lo hanno condotto, signor de Lussac? In qualunque luogo si trovi, parola di filibustiere, noi andremo a liberarlo. Gli spagnuoli non lo appiccheranno come hanno impiccato suo padre, dovessi bruciare Panama fino alla sua ultima casa.
– A Guayaquil l’hanno portato, – rispose il guascone.
– A Guayaquil! – esclamò Raveneau de Lussan. – Se discutevamo ieri sera di fare una scorreria verso quella città che si dice contenga delle ricchezze incalcolabili!… Questa è una vera fortuna, signor de Lussac!… Tutti i nostri uomini hanno già approvata questa impresa.
Grogner levò dal taschino uno splendido orologio d’oro, frutto certamente di qualche saccheggio, poi disse:
– Sono appena le sette: alle nove possiamo essere sul continente e prima del tramonto dinanzi a Guayaquil. Dieci leghe sono per noi una semplice passeggiata. Vado ad avvertire i nostri uomini che si parte senza un minuto di ritardo.
Non erano trascorsi cinque minuti che i filibustieri lasciavano l’isola, montati sulla loro flottiglia di piroghe e di scialuppe.
Alle nove, come aveva previsto Grogner, i trecentocinquanta filibustieri, poiché non erano di piú, approdavano sulla spiaggia dell’istmo di Panama, a sole dieci miglia da quest’ultima città.
Sommerse le imbarcazioni affinché gli spagnuoli non potessero accorgersi della loro nuova impresa, s’avviarono sotto i grandi boschi guidati da un prigioniero pratico del paese, a cui avevano promessa la libertà o la morte nel caso che li avesse traditi.
Quantunque i filibustieri fossero uomini di mare erano pure bravissimi camminatori, essendo stati per la maggior parte prima bucanieri. Dieci lunghe leghe non era quindi una tale distanza da spaventarli.
Ed infatti il sole non era ancora tramontato, quando giunsero a poche miglia dalla città.
La loro marcia non era però passata inosservata. Gli indiani, che abitavano le immense foreste dell’istmo, non avevano tardato ad accorgersi del passaggio di quella forte colonna di uomini e si erano affrettati ad avvertire il governatore della città dell’uragano che stava per scoppiare.
Un corpo di settecento spagnuoli uscí frettolosamente per dare battaglia ai terribili ladroni dell’Oceano Pacifico; ma, come sempre, la paura che ispiravano i filibustieri ebbe maggior successo delle armi.
Scambiate appena poche fucilate, gli spagnuoli voltarono le spalle e andarono a chiudersi nei tre forti che difendevano la città e che come abbiamo detto si ritenevano inespugnabili.
Le stelle cominciavano ad apparire in cielo, quando i filibustieri, divisi in due colonne, si presentarono dinanzi alla città, ben risoluti non solo ad espugnarla, bensí anche a saccheggiarla sapendo che ricchezze immense conteneva.
Impossessarsi di quella città non era però impresa facile poiché la difendevano tre forti, contenenti ognuno una guarnigione di cinquanta uomini e armati d’un buon numero di cannoni, mentre i filibustieri non possedevano nemmeno una spingarda.
Pure gli assalitori non si scoraggiavano affatto e, mentre gli abitanti salvavano buona parte delle loro ricchezze caricandole su degli schifi che tenevano sul fiume, tentarono animosamente l’assalto ai forti.
Si erano divisi in tre colonne per impedire alle guarnigioni di portarsi vicendevolmente aiuto: una la comandava Grogner, la seconda Raveneau de Lussan e la terza il guascone.
I forti si difendevano però gagliardamente, rispondendo alle archibugiate dei filibustieri con colpi di cannone. Pareva che gli spagnuoli fossero decisi a farsi seppellire sotto le rovine, anziché arrendersi a quegli odiati ladroni di mare.
Tutta la notte fu un battagliare furioso. Invano i filibustieri si erano slanciati piú volte all’assalto ed invano avevano appoggiato piú volte le scale per superare le merlature.
Ad ogni intimazione di resa gli spagnuoli avevano sempre risposto con un fuoco infernale, quantunque poco efficace.
Al mattino i tre forti non erano ancora presi, mentre invece la popolazione, approfittando dell’oscurità, aveva evacuata la città, salvandosi nelle vicine boscaglie colle ricchezze che non avevano potuto salvare sugli schifi.
Già i filibustieri cominciavano a dubitare della buona riuscita dell’impresa, quando verso le otto del mattino si sparse la voce che Grogner era stato ferito mortalmente e che stava per spirare.
A quell’annunzio un grido solo uscí dai petti dei filibustieri.
– Vendichiamo il nostro capo.
Battagliavano furiosamente da dieci ore. La fame e la sete li tormentava; pure, saldi come pezzi d’acciaio, noncuranti delle cannonate degli spagnuoli, quei valorosi mossero, forse per la decima volta, all’assalto dei forti.
Appoggiate le scale, non ostante l’intensità del fuoco nemico, montano con impeto irrefrenabile, scavalcando le merlature, inchiodano sui loro pezzi gli artiglieri ed impegnano una lotta disperata contro le guarnigioni.
Avevano dato l’attacco solamente a due forti, riservandosi di impadronirsi piú tardi del terzo, che era il meglio armato e difeso dal marchese di Montelimar, uomo che, come abbiamo detto altrove, godeva grande fama come uomo di guerra.
Se la istoria dei filibustieri narrata da Raveneau de Lussan e da altri corsari inglesi e francesi non fosse lí a provare l’eroismo di quei terribili ladroni dell’Oceano Pacifico, si potrebbe porre in dubbio l’esito di quella formidabile impresa.
Trecento erano i filibustieri, poiché in quelle dieci ore di combattimento avevano perduto una cinquantina di persone e mille gli spagnuoli e muniti di grosse artiglierie eppure i primi non tardarono ad avere ragione sui secondi di tanto piú numerosi.
Dopo un combattimento sanguinosissimo, le due guarnigioni spagnuole furono fatte a pezzi e solamente poche centinaia di spagnuoli riuscirono a salvarsi nelle foreste dopo d’aver gettate le armi.
Resisteva però sempre il forte difeso dal marchese, nel quale erano stati rinchiusi il conte di Ventimiglia, Mendoza, il fiammingo e la figlia del Gran Cacico del Darien.
Infuriavano tremendamente le artiglierie del fortissimo baluardo, battendo in breccia le due fortezze ormai conquistate e le case della città. Gli archibugieri, numerosi e scelti, facevano del loro meglio per aiutare gli artiglieri, battendo le spianate e le scarpate, con una grandine di palle.
Alle undici, malgrado i continui tentativi dei filibustieri, la fortezza resisteva ancora.
Raveneau de Lussan, che aveva assunto il comando dei filibustieri, essendo ormai Grogner un moribondo, fece chiamare il guascone.
– Signor de Lussac, – gli disse, – noi finiremo di certo per venire a capo di questa dura impresa, poiché i miei uomini non faranno un passo indietro. Siccome però sono pochi e non abbiamo alcun mezzo per surrogare quelli che cadono, vorrei farvi una proposta.
– Parlate, signor de Lussan, – rispose il guascone. – Volete che vada a minare qualche angolo del forte?
– Mi dispiacerebbe troppo perdere un valoroso come voi. Il conte di Ventimiglia non mi perdonerebbe mai di avervi sacrificato.
– Che cosa posso fare dunque?
– Andare dal marchese di Montelimar ed intimargli la resa, promettendo salva la vita a lui ed alla guarnigione.
– Io non credo che accetti: è un testardo ed un uomo di guerra.
Un lampo d’ira passò negli occhi del gentiluomo.
– Se rifiuterà non lasceremo vivo un sol uomo, – disse.
– Vediamo se si può combinare questo affare senza mandare tante persone a tenere compagnia a compare Belzebú, – rispose il guascone, dopo aver pensato qualche istante. – Che ci consegni il conte, la figlia del grande Cacico del Darien, i miei due amici, e poi vada pure a tenere compagnia a quell’ottimo Consigliere dell’Udienza Reale di Panama.
Fu dato l’ordine ai filibustieri ed ai bucanieri di sospendere il fuoco, fu issata su una picca una camicia bianca trovata in una casa e don Barrejo mosse animosamente verso la fortezza.
Anche gli spagnuoli, i quali non desideravano affatto irritare troppo quei formidabili scorridori del Pacifico, avevano deposte le miccie e fatti ritirare gli archibugieri che occupavano le merlature.
Don Barrejo, il quale portava la picca, si fermò dinanzi al fossato del forte, piantando l’asta su un ammasso di terra.
Un ufficiale si era curvato fra due merli gridando:
– Che cosa volete? Sbrigatevi perché non vi accordiamo che una tregua di cinque soli minuti. Appena trascorsi riapriremo il fuoco.
– Chiedo di parlare al marchese di Montelimar, – rispose il guascone. – Nel medesimo tempo vi avverto che se qualcuno di voi farà fuoco su di me, vi passeremo dal primo all’ultimo, a fil di spada.
Un istante dopo il marchese di Montelimar compariva sul terrazzo d’una lunetta, tenendo la spada snudata sotto un braccio.
– Chi vi manda? – chiese, rivolgendosi al guascone il quale stava sempre accanto a quella strana e ridicola bandiera.
– Raveneau de Lussan, capo dei filibustieri dell’Oceano Pacifico, – rispose don Barrejo.
– E Grogner?
– Il signor Grogner in questo momento è occupato a fumare la sua pipa e perciò ha rinunziato fino a questa sera al comando.
Il marchese aggrottò la fronte poi, dopo d’aver guardato attentamente il guascone, disse:
– Ah! Siete uno dei tre spadaccini del conte di Ventimiglia.
– Non vi siete ingannato, Eccellenza. Venivo anzi anche a chiedere notizie di quel valoroso gentiluomo.
– È sotto la mia protezione. Che cosa volete dunque? Sbrigatevi: i miei uomini sono impazienti di combattere.
– Vengo ad intimarvi la resa.
– A chi?
– A voi.
– Non sapete dunque che ho cinquecento uomini e ventidue pezzi d’artiglieria e tante munizioni da radere al suolo la città intera?
– E non avete veduto Eccellenza che abbiamo già espugnato due delle tre fortezze che erano pure difese da cinquecento uomini ciascuna e da una quarantina di cannoni? Tutti noi lo abbiamo veduto. Vi arrendete sí o no? Raveneau de Lussan vi promette salva la vita, a condizione che consegnate immediatamente il conte di Ventimiglia, i suoi avventurieri e la figlia del Gran Cacico del Darien. Anche io vi accordo cinque minuti per avere la risposta: dopo daremo l’assalto e come abbiamo preso i due forti, vi assicuro Eccellenza che prenderemo anche questo.
– Lasciate che mi consigli coi miei ufficiali, – rispose il marchese.
Il guascone prese un sigaro, lo accese servendosi d’un pezzo di miccia che fumava sul margine del fossato e si sedette accanto alla bandiera bianca.
I filibustieri intanto, non ben certi che il marchese di Montelimar si decidesse per la resa, si preparavano, sotto la direzione di Raveneau de Lussan, ad un furioso assalto.
Avevano messi in prima fila cinquanta uomini muniti di granate da lanciarsi a mano e dietro un centinaio di bucanieri per sterminare innanzi a tutto gli artiglieri.
Gli altri tenevano pronte le scale, prese nelle chiese, per montare all’assalto.
La risposta del marchese di Montelimar non si fece attendere.
– Dite al signor Raveneau, – disse al guascone, – che finché mi rimarrà un uomo ed una carica di polvere io difenderò la fortezza. Andatevene o vi farò fucilare.
– Mi ricorderò di questa bella offerta, – rispose il guascone, riprendendo la picca. – Spero di rivedervi presto, signor marchese.
Attraversò la spianata senza troppo affrettarsi, malgrado la minaccia del comandante spagnuolo ed avvertí Raveneau della risposta avuta.
– Come abbiamo espugnate le altre due, prenderemo d’assalto anche questa, – rispose il gentiluomo francese.
Fu dato l’ordine di muovere all’attacco.
I filibustieri, impazienti di finirla e di saccheggiare la città prima che gli abitanti portassero via tutte le cose preziose, si slanciarono all’assalto, non ostante il terribile cannoneggiamento degli spagnuoli.
Con una corsa fulminea si posero al riparo sotto gli angoli morti della fortezza, rendendo cosí nullo il tiro delle artiglierie e la prima schiera cominciò a scagliare una grandine di granate attraverso le merlature mentre i bucanieri fucilavano gli archibugieri nemici dei ridotti, delle terrazze e delle lunette.
Messi in rotta gli artiglieri, i quali non potevano resistere allo scoppio simultaneo di tante granate, i filibustieri appoggiarono le scale e montarono all’assalto.
Gli spagnuoli li aspettavano sul piazzale del forte, guidati dal marchese di Montelimar.
In un baleno i formidabili uomini del mare scalano la fortezza, superano le merlature e si scagliano contro gli alabardieri, impugnando le pistole e le corte ma larghe sciabole d’abbordaggio.
Il guascone, giunto uno dei primi, s’avventa contro il marchese, e mentre intorno a lui ferve ferocissima la mischia, lo investe con una grandine di colpi di spada, urlando:
– Arrendetevi o vi uccido!
Il marchese, fattosi un po’ di largo, affronta coraggiosamente il guascone. Buona lama anche lui si difende disperatamente, opponendo una resistenza che stupisce il terribile spadaccino.
Investito con foga estrema, indietreggia fino sul terrazzo d’una lunetta, mentre i filibustieri uccidono rabbiosamente quelli che rifiutano di deporre le armi.
– Signor marchese, – disse il guascone, dopo d’aver scambiato una ventina di stoccate, tutte abilmente parate dal gentiluomo spagnuolo. – Questo non può durare molto. Io sono molto piú giovane di voi e poi sono una lama guascone. Arrendetevi o mi vedrò obbligato a uccidervi e ciò, francamente, mi spiacerebbe. La piazza ormai è presa ed ogni resistenza inutile. Gettate la spada e restituitemi il conte, i miei compagni e la figlia del Gran Cacico.
Il marchese fece un passo indietro tergendosi colla sinistra il sudore che gli imperlava la fronte e gettò un rapido sguardo intorno.
I suoi uomini, dopo d’aver opposta una fierissima resistenza, s’arrendevano a gruppi ed i filibustieri rovesciavano le artiglierie nei fossati dopo averle inchiodate per renderle inservibili.
– È la fine, – disse, con voce triste.
Poi rimettendosi, riprese a mezza voce:
– Può essere una partita rimandata.
Gettò la spada nel momento in cui Raveneau de Lussan, seguito da una mezza dozzina di filibustieri accorreva in aiuto del guascone.
– Il signor marchese si è arreso, – disse don Barrejo, – e si è arreso ad un de Lussac. Signor de Lussan, non vi è piú nulla da fare qui: questo gentiluomo è sotto la protezione dei guasconi.
Raveneau si levò il cappello e salutò cortesemente il difensore del forte, dicendogli:
– Il signor de Lussac, un gentiluomo autentico, vi accorda salva la vita ed io non ve la prenderò, signor de Montelimar poiché i filibustieri sanno apprezzare il valore e voi ci avete dato or ora la prova di possederne molto. Voi però ci indicherete subito dove si trova il conte di Ventimiglia.
– Seguitemi, – rispose il marchese, togliendosi una chiave che teneva nella fascia azzurra.
S’avviò verso il fabbricato centrale del forte che era fiancheggiato da numerose casematte, aprí una porta, poi disse:
– Entrate: sono tutti là!
Un istante dopo il conte era nelle braccia di Raveneau de Lussan, mentre il guascone appioppava quattro sonori baci sulle gote di Mendoza e di don Ercole.
La figlia del Gran Cacico del Darien aveva subito seguito suo fratello, degnando appena d’uno sguardo il marchese di Montelimar, che fino a pochi giorni prima aveva rispettato come fosse suo padre.
– Signor conte, – disse il capo dei filibustieri, poiché era stato nominato tale dopo la morte di Grogner, – siete finalmente libero ed avete ottenuta vostra sorella. Che cosa possiamo ancora fare per voi?
– Darmi una guida che mi conduca attraverso l’istmo. Ho la mia fregata nelle acque del golfo del Messico e non ho che un solo desiderio.
– Quale?
– Di toccare al piú presto Cuba.
– E poi?
– Di tornarmene in Europa, nella mia Liguria. La mia missione è ormai finita, signor de Lussan.
– E del signor marchese di Montelimar che cosa dobbiamo fare? chiese il nuovo capo dei filibustieri.
– Dategli un cavallo e lasciate che ritorni a Panama.
De Lussan lo guardò con stupore.
– Avete detto? – chiese.
Il figlio del Corsaro Rosso gli si accostò e gli mormorò una parola agli orecchi.
– Ho capito, – rispose il gentiluomo francese, sorridendo. Se ne parlava già. Signor conte, andiamo a fare colazione con vostra sorella e col signor marchese. Ce la siamo guadagnata, ve l’assicuro.
Mentre Raveneau ed i suoi compagni cercavano asilo in una casa abbandonata, i filibustieri, diventati ormai padroni dell’ultimo forte, si abbandonavano ad un saccheggio furibondo.
Non possiamo però passare sotto silenzio la bizzarra singolarità di cui, in quella presa, i filibustieri francesi dettero spettacolo, poiché meglio d’ogni altra cosa dimostra l’indole strana di quella razza di ladroni.
Mentre i loro compagni inglesi correvano dietro agli abitanti rifugiatisi nei boschi colle loro ricchezze, facendone ben settecento prigionieri, i francesi si recavano nella cattedrale della città per cantarvi il Te-deum, credendo cosí di praticare le parti di buoni cattolici e di rispettare in tale modo la religione!…
Ingentissimo fu il bottino raccolto dai filibustieri, consistente per lo piú in una quantità straordinaria di perle e di smeraldi, in verghe d’argento ed in settantamila piastre.
Si aggiungano a ciò un cannone d’argento massiccio del valore di ventiduemila piastre ed un’aquila d’oro tempestata di smeraldi che pesava sessant’otto libbre, destinati in pia oblazione alla chiesa maggiore della città e presi agli schifi che scendevano il fiume.
Inoltre avevano preso oltre settecento prigionieri, anche il governatore della città e siccome non trovavano conveniente condurre con loro tante persone, tanto piú che sapevano essere usciti da Panama grossi corpi di truppe scelte per sterminarli prima che ritornassero verso l’Oceano Pacifico, mandarono un messo al Presidente dell’Udienza Reale affinché li riscattasse tutti contro la consegna d’un milione di piastre e di quattrocento sacchi di mais, essendo a corto di viveri.
Avevano iniziate le trattative e già non dubitavano di ricevere le une e gli altri, quando la terza notte dopo l’espugnazione dei forti s’alzò un furioso incendio, prossimo al luogo ove i filibustieri avevano accumulate le loro ricchezze ricavate dal saccheggio.
Però non fecero essi alcuna perdita, essendo prontamente accorsi a trarre in salvo le loro cose, meravigliosamente affrontando ogni pericolo; rivolsero poi i loro sforzi a salvare la disgraziata città che in piú parti avvampava; però un buon terzo andò distrutto insieme ad un grosso numero di abitanti.
Infettatasi l’aria in causa dei numerosi cadaveri rimasti insepolti, e cominciando a patire molte malattie per tale cagione suscitatesi, inchiodati i cannoni delle fortezze che loro non erano affatto utili, quei terribili ladroni di mare s’avviarono verso l’Oceano Pacifico, conducendo con loro cinquanta ostaggi d’ambo i sessi, i quali dovevano rispondere del riscatto che doveva in parte essere loro pagato e veleggiarono verso l’isola di Puna dove rimasero un mese,
Fu un mese di baldoria e fu insieme un sorprendente spettacolo il vedere quei ruvidi avventurieri improvvisarsi gentiluomini, organizzare danze e banchetti che non avevano mai fine, avendo fra i prigionieri moltissimi suonatori di chitarre e di mandole e le piú belle donne di Guayaquil, le quali non vedevano nei loro rapitori piú i disturbatori della loro città e delle sostanze delle loro famiglie, bensí uomini per la maggior parte cortesi e rispettosi, cosicché ebbero quelle disgraziate un non ingrato compenso dei sofferti terrori e poterono godere di quella libertà che tra le domestiche mura, sotto i gelosi mariti, l’orgoglio e la severità spagnuola non concedeva alle donne.
L’amenità dell’isola dava d’altronde maggior risalto a quell’avventura né fuvvi mai prigionia, specialmente per le prigioniere, piú divertente.
Verso la fine del mese però quell’allegria fu gravemente turbata, in causa del mancato pagamento del riscatto.
Il presidente dell’Udienza Reale di Panama continuava a chiedere dilazioni, sinché i filibustieri insospettiti che, non difficoltà di trovare il denaro cagionasse quel ritardo, bensí la segreta mira di defraudarli e di prendere tempo per radunare forze sufficienti a combatterli, ricorsero ad una crudele risoluzione, malgrado le proteste di Raveneau de Lussan il quale, al pari di Grogner, abborriva le crudeltà.
Radunarono perciò gli ostaggi e li obbligarono a tirare a sorte, avendo ormai deciso che le teste di quattro di quei disgraziati dovessero essere consegnate all’ufficiale spagnuolo che era giunto per chiedere una nuova dilazione al pagamento.
Purtroppo quegli infelici dovettero sottomettersi alla dura sorte e le quattro teste furono date all’ufficiale, colla dichiarazione che se entro quattro giorni il pattuito riscatto non fosse stato saldato, altre ne sarebbero state mandate al Presidente dell’Udienza Reale di Panama.
I sospetti dei filibustieri non erano d’altronde senza fondamento, poiché il giorno seguente riuscivano a catturare un corriere che da Guayaquil andava a Lima, apportatore di lettere nelle quali era detto chiaramente come in aspettazione dei soccorsi attesi si sarebbe mandata qualche somma a Puna per tenere a bada i corsari, aggiungendo che l’esterminio di costoro stimavasi ben piú importante sacrificio che la perdita di cinquanta prigionieri.
Come abbiamo detto, fra gli ostaggi vi era il governatore di Guayaquil e siccome ci teneva a non perdere la testa, incaricò un frate che era della brigata, uomo tenuto in molta considerazione presso gli spagnuoli e lo mandò sul continente con pieni poteri perché accumulasse a tutti i costi quanto denaro occorreva per saldare il riscatto.
Nell’atto però che il frate partiva, giungeva all’isola uno schifo il quale portava ai filibustieri ventimila piastre in oro e venti sacchi di farina. L’ufficiale che lo montava chiedeva nel medesimo tempo una dilazione di altri tre giorni pel resto del riscatto.
I filibustieri non furono renitenti a concederla, dichiarando però che se gli spagnuoli avessero mancato alla promessa avrebbero fatta una nuova visita a Guayaquil e che l’avrebbero distrutta da capo a fondo.
La risposta che ne ebbero non poteva essere piú risoluta.
Un nuovo messo di chi amministrava le cose di Guayaquil giunse qualche giorno dopo, dicendo che per tutto ciò che rimaneva a pagarsi gli spagnuoli offrivano solamente ventiduemila piastre e che se i filibustieri volevano riattaccare la città vi erano cinquemila uomini agguerriti pronti a riceverli.
Nessuno può sorprendersi se a quella dichiarazione vi fu fra i corsari di Raveneau chi proponesse di tagliare all’istante la testa a tutti i prigionieri, le donne comprese. Si opposero molti altri, dicendo che una tale crudeltà nessun vantaggio avrebbe recato, perciò accettate le ventiduemila piastre e messi in libertà gli ostaggi, ripresero il mare per ritentare nuove e piú stupefacenti imprese.
Speak Your Mind