L’INSEGUIMENTO

CAPITOLO III

 

 L’INSEGUIMENTO

 

 Per piú di un’ora i tre cavalieri galopparono furiosamente sulla via che conduceva verso la costa del Pacifico, guardandosi di frequente alle spalle, per paura di veder comparire dei soldati; poi si gettarono attraverso le foreste le quali coprivano le aspre colline dell’istmo, e che dovevano prolungarsi fino al Chagres.

 – Ora possiamo concedere un po’ di riposo a queste brave bestie, disse il guascone, il quale fumava l’ultimo sigaro regalatogli dal fiammingo. – Non è prudente abusare troppo delle loro forze.

 – Temete sempre un inseguimento, don Barrejo? – chiese Mendoza.

 – A quest’ora quel taverniere del malanno avrà chiacchierato ed il governatore, mio amico, avrà lanciato dietro le nostre tracce una scorta d’onore, coll’incarico di prenderci pel colletto e ricondurci a Pueblo-Viejo.

 – Lo chiamate ancora il vostro amico! – esclamò il fiammingo. Non vi perdonerebbe di certo di averlo cosí abilmente giuocato, se ricadeste nelle sue mani. L’avevo detto io che voi siete un parente del diavolo.

 – La trovata è stata splendida, – disse Mendoza, ridendo.

 – Io credevo di andare a penzolare al di sotto d’un grosso ramo con una cravatta di canape al collo.

 – Ed invece vi ho dato un cavallo e anche delle armi.

 – Che noi certo non restituiremo al signor governatore, – disse il fiammingo.

 – Gli uomini onesti sono rari in America, – sentenziò gravemente don Barrejo. – E poi qui la riconoscenza è un mito, e S. E. potrebbe ricompensare la nostra onestà con della corda, e di quella io non ne ho mai voluto sapere, anzi mi ha sempre inspirato un profondo disgusto.

 – Ah!… Burlone!…

 – Parlo sul serio, signor Mendoza.

 – Il fatto è che abbiamo avuto una fortuna straordinaria.

 – Guai se gli avventurieri non avessero sempre una buona stella che li proteggesse!

 – Sarà ben lieto il conte di vederci giungere al campo, ben montati e anche con una recluta.

 – E soprattutto sarà lieto delle notizie che gli portiamo, – aggiunse il guascone. Ormai sa dove si trova il marchese e non indugerà ad andarlo a trovare. Io non dubito che assalirà Pueblo-Viejo, quantunque non abbia con sé molte forze.

 – So che ha mandato un corriere all’isola San Giovanni, per avere dei rinforzi. È probabile che a quest’ora qualche partita di filibustieri sia già giunta al suo campo. Nessuno può negare aiuti al figlio del Corsaro Rosso.

 – E poi non ci siamo noi? – disse il guascone. – Noi tre siamo capaci di dare la scalata ad un campanile difeso da una bombarda.

 – Senza scendere da cavallo, – aggiunse il fiammingo.

 – Precisamente.

 Avevano messi i cavalli al passo e stavano salendo una collina coperta da rade palme e da gruppi di cespugli, dietro la quale doveva scorrere il Chagres, l’unico fiume che solchi l’istmo di Panama e che è nondimeno d’una certa importanza.

 Stavano già, sempre chiacchierando, per raggiungere la cima per scendere poi attraverso un ampio vallone, quando arrestarono bruscamente i cavalli, guardandosi l’un l’altro con una certa ansietà.

 – Che sia il fiume che produce questo fragore? – chiese il guascone, dopo d’aver ascoltato qualche istante.

 – A me pare il galoppo di parecchi cavalli, – rispose Mendoza.

 – Che cosa ne dite voi, fiammingo?

 – Che ci si dà la caccia, – rispose l’avventuriero.

 – Che abbiano già scoperte le nostre tracce? – si chiese don Barrejo. – Lesti, raggiungiamo la cima e vediamo chi avrà ragione.

 Allentarono le briglie e strinsero le ginocchia, non avendo speroni. I tre andalusi si misero al trotto, quantunque la collina fosse molto ripida ed in pochi minuti raggiunsero la cima, fermandosi dinanzi ad un ampio vallone cosparso di cespugli e di macigni e che scendeva verso il Chagres.

 Di lassú i tre avventurieri potevano dominare un immenso tratto di paese, era quindi facile per loro scoprire dei cavalieri.

 – Non vedo che il fiume, – disse il guascone.

 – E questo lo udite? – chiese il basco, curvando rapidamente il capo.

 Un colpo d’archibugio era rimbombato ed una palla era passata su di loro, fischiando sinistramente.

 – Ci assassinano a tradimento! – urlò il guascone.

 In quel momento una mezza dozzina d’uomini, montati anch’essi su bellissimi cavalli, si mostrò sul margine d’un palmeto.

 Erano cavalleggieri spagnuoli, mandati certamente dietro ai tre audaci avventurieri dal marchese di Montelimar.

 – Al galoppo! – gridò il guascone, nel mentre una seconda detonazione rintronava.

 – Non mi aspettavo una simile sorpresa, – brontolò Mendoza. – Dovevano aspettare che noi fossimo giunti almeno in vista del campo.

 I tre andalusi si erano lanciati nel vallone, saltando agilmente i cespugli ed i massi, senza che i cavalieri avessero bisogno di aizzarli.

 Il terreno era tutt’altro che favorevole per una corsa furiosa, essendo cosparso d’ostacoli e anche di crepacci, tuttavia i tre avventurierí che sapevano d’aver sotto dei saltatori meravigliosi e resistentissimi, erano certi di tenere gli assalitori a grande distanza.

 Gli spagnuoli, superata la cima, si erano a loro volta slanciati nel vallone, urlando e sparando, di quando in quando, un colpo d’archibugio, piú per intimorire i fuggiaschi che colla speranza di colpirli.

 Se sudavano gli andalusi dei tre avventurieri, non faticavano meno quelli degli spagnuoli: i quali forse non erano migliori di quelli del governatore.

 La corsa diventava sempre piú furiosa e anche sempre piú pericolosa. Il basco, il guascone ed il fiammingo, tutti buoni cavalieri per loro fortuna, poiché il marinaio, prima di diventare filibustiere, aveva servito in un reggimento di cavalleria, avevano un gran da fare per evitare gli ostacoli.

 Ogni dieci o quindici passi erano costretti a trattenere bruscamente i cavalli e ad allargare le gambe per permettere loro di varcare dei profondi crepacci.

 – Tenete bene strette le briglie – gridava di quando in quando don Barrejo, il quale era sempre il primo. – Chi cade è un uomo perduto!… Reggete bene i cavalli!

 Gli spagnuoli facevano sforzi prodigiosi per guadagnare via e giungere a tiro d’archibugio, essendo rimasti indietro durante l’ultima salita del colle.

 Spronavano senza misericordia e gridavano a squarciagola, per aizzare sempre piú i loro magri cavalli, senza riuscire però a guadagnare un metro sui fuggiaschi.

 La corsa durava da una buona mezz’ora, sempre attraverso a quell’aspro e selvaggio vallone il quale pareva che non dovesse finire mai, quando il guascone mandò un urlo di rabbia.

 – Che cosa avete, don Barrejo? – chiese Mendoza, spaventato. Cede, il vostro andaluso?

 – C’è che la via è tagliata, – rispose il guascone.

 – Non è possibile!… Siamo passati per di qua sette giorni or sono.

 – Ed ora non si può passare piú, sangue di Belzebú!… Alto, amici!… Fermate i cavalli prima che si spezzino il cranio.

 Erano giunti ad una svolta della valle e dinanzi a loro si ergeva una roccia colossale, la quale ostruiva completamente il passaggio. Dietro era franata una quantità enorme di terra e di massi i quali avevano formato una specie di collinetta.

 – Siamo presi, – disse il fiammingo.

 – No, signore, – rispose il guascone, il quale non si perdeva mai d’animo. – Avete un archibugio appeso alla sella e delle pistole, nelle fonde. Prendiamo posizione e difendiamoci.

 – Di dove passiamo? – chiese Mendoza. Non vedete che la roccia è tagliata a picco?

 – Fate coricare i cavalli e nascondiamoci dietro i loro corpi. Badate di non alzare la testa. Presto: gli spagnuoli giungono!

 In un lampo balzarono di sella, levarono gli archibugi e le pistole, poi fecero coricare i cavalli sull’orlo d’un crepaccio.

 I sei cavalleggieri giungevano a gran galoppo, rossi di collera, colle spade in pugno.

 Vedendo i tre cavalli stesi a terra, fermarono i propri e ringuainarono le spade, staccando invece dalle selle gli archibugi.

 Si erano fermati a soli duecento passi dai fuggiaschi, quindi avevano subito indovinato il motivo di quella improvvisa sosta.

 Il capo squadrone che li comandava s’avanzò solo, per vedere dove si nascondevano i tre avventurieri, i quali si guardavano bene dal mostrarsi.

 – Olà! – gridò, vedendo brillare la canna d’un archibugio dietro uno dei tre andalusi. – Siete presi, a quanto pare. Spero che non avrete nessuna voglia d’impegnare la lotta con noi, che siamo piú numerosi e anche ben risoluti a ricondurvi da S. E. il governatore di Pueblo-Viejo. Vi arrendete sí o no?

 – Il signor conte d’Alcalà non si arrende mai e si batte invece sempre! – gridò il guascone, mostrandosi.

 – Ah!… Ah!… Siete voi quello che si era spacciato per l’amico di S. E. il governatore!…

 – In persona, caballeros.

 – Non ne dubitavo. Dunque vi arrendete?

 – Il conte d’Alcalà non ha mai risposto di sí a questa domanda. Però si potrebbe forse intenderci, senza sprecare inutilmente della polvere e delle palle e massacrarci a vicenda.

 – Che cosa volete dire, señor?

 – Che con un po’ di dobloni si potrebbe accomodare questa faccenda.

 Il capo squadrone fece un gesto di collera.

 – I soldati spagnuoli non si vendono, bandito! – gridò. – E poi S. E. il governatore pagherà la vostra cattura a un prezzo ben piú caro.

 – Si capisce che non vi hanno detto che io sono diretto a Panama, dove vado a raccogliere una eredità di cento mila dobloni. Invece di attaccare briga con noi, serviteci di scorta e vi pagherò tutti da vero principe, – disse il guascone.

 – Preferisco fucilarvi sul posto, señor.

 – Vi faccio un’altra proposta allora.

 – Sembra che vi piaccia troppo di chiacchierare, bandito.

 – No: sono conte d’Alcalà, signore d’Aramejo, de Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos.

 – E grande di Spagna, lo sappiamo, – disse il capo squadrone ironicamente.

 – Sí, anche grande di Spagna, – rispose il guascone, sempre calmo.

 – Finitela!…

 – Vi propongo un duello.

 – A chi?

 – A voi, caballero.

 – Siete pazzo?

 – Niente affatto, perché vi offro delle splendide condizioni. Se voi mi ucciderete, vi do la mia parola d’onore che i miei due compagni si arrenderanno, se io avrò la fortuna di fare invece la pelle a voi, ci lascierete andare tranquillamente.

 – Dopo morto?…

 – Ci lascieranno andare i vostri cavalleggieri.

 – Preferisco fucilarvi, se non vi arrendete.

 – Provatevi, dunque!… Vi avverto però che ho con me un terribile filibustiere che non sbaglia mai il bersaglio. Figuratevi che a duecento metri spacca una nocciuola e spegne con una palla la fiamma d’una torcia.

 – Spaccone!… Va’ a raccontarlo a tuo nonno, se l’hai ancora vivo.

 – È morto vent’anni fa.

 Il capo squadrone, che doveva averne fin sopra i capelli di quella chiacchierata, volse le spalle e raggiunse i suoi uomini, i quali erano nel frattempo balzati a terra, nascondendosi dietro ai loro cavalli.

 – Signor basco, – disse il guascone, volgendosi verso Mendoza.

 Io non sono un cattivo archibugiere, e spero pure che il fiammingo non sia uomo da sprecare inutilmente del piombo, però conto specialmente su di voi. M avete detto di essere stato bucaniere, prima di diventare filibustiere.

 – Credo d’aver ammazzato un migliaio di bufali nelle foreste di San Domingo e di Cuba.

 – Smontatemi dunque quei soldati. Quando non avranno piú cavalli, se ne andranno di certo. A voi il primo colpo.

 Il filibustiere che si era steso nel crepaccio per mettersi completamente al coperto dalle palle, si rizzò sulle ginocchia, tenendosi sempre riparato dietro all’andaluso che gli stava dinanzi, e puntò risolutamente l’archibugio.

 I cavalleggieri stavano in quel momento rimontando a cavallo, per tentare una carica disperata a colpi di spada e di pistola.

 Mendoza mirò l’animale che montava il capo squadrone, un bellissimo destriero tutto bianco, e fece subito fuoco.

 Un urlo di collera, seguito da una salva di bestemmie, accompagnò lo sparo.

 Il cavallo bianco era caduto, sbalzando di sella il capo squadrone. Colpito in direzione del cuore aveva fatto, prima di stramazzare, uno scarto cosí fulmineo, rizzandosi poscia sulle zampe di dietro, da non lasciate il tempo al suo padrone di abbandonate le staffe e di saltare da una parte.

 I cinque cavalleggieri, vedendo il loro capo a terra, caricarono ventre a terra, quantunque la discesa che conduceva verso la frana fosse coperta di massi enormi staccatisi dalla colossale roccia piombata dall’alto.

 – A noi, fiammingo – gridò il guascone.

 Due spari rimbombarono, uno dietro l’altro, destando l’eco della vallata, seguiti da due sonori nitriti e da due altre imprecazioni.

 Altri due cavalli erano caduti in mezzo alle roccie, trascinando con loro i cavalieri.

 Gli altri tre si erano fermati, facendo un fulmineo volteggio, poi erano fuggiti verso lo svolto del vallone, presso cui si trovava il caposquadrone, piú furibondo che mai.

 – Se siamo terribili spadaccini, siamo pure formidabili archibugieri, – disse don Barrejo. – Signor fiammingo, siete veramente un uomo prezioso, malgrado la vostra immensa barba.

 – Non sono forse io del Brabante? – disse il fiammingo, con solenne gravità.

 – Per le centomila code del diavolo, io non avevo saputo, prima d’oggi, che i brabantini fossero anche abilissimi archibugieri!…

 – E questo non è nulla!…

 – Allora siamo sicuri di smontare tutti!

 I due cavalieri che erano stati scavalcati, approfittando dei crepacci e delle rocce, si erano rapidamente allontanati, strisciando come serpenti ed abbandonando i loro cavalli moribondi.

 I loro compagni, trovandosi nell’impossibilità di riprendere la carica e per paura di venire a loro volta smontati, si erano trincerati dietro una roccia, sparando alcuni colpi d’archibugio.

 Non dovevano essere cattivi bersaglieri, poiché al terzo sparo il bel l’andaluso del fiammingo si rizzò di colpo, mandando un lungo nitrito, sferrò alcuni calci e poi cadde di quarto, tre metri piú innanzi della spaccatura.

 – Ecco una vera disgrazia, – disse il guascone. – Quell’animale valeva almeno duecento piastre e non potrò piú rimandarlo a S. E. il marchese di Montelimar. È vero che non avevo proprio quest’intenzione. Le sue scuderie sono piú ben fornite delle mie, diamine. Ohé, signor Mendoza, dormite sui vostri allori?

 – Aspettate un po’ e vedrete che cosa sanno fare i filibustieri. Cerco di gettare a terra un uomo ed un cavallo insieme.

 – E quel cavalleggiero cerca di spaccare la mia testa, – rispose il guascone, gettandosi precipitosamente a terra, mentre il suo feltro, forato da una palla, balzava lontano parecchi passi. – Questa è una vera battaglia!…

 – I guasconi sono sempre stati battaglieri, quindi non vi dispiacerà, – disse il fiammingo, colla sua solita calma.

 – Preferiscono sempre però un corpo a corpo, a colpi di spada.

 – Fate per ora un corpo a corpo a palle di piombo.

 – Sono troppo traditrici, perché ammazzano senza nemmeno dire: ohé, guardatevi che vi mando a visitare l’altro mondo.

 – Già, è un brutto affare.

 Un colpo d’archibugio aveva interrotto il loro discorso. Il filibustiere aveva fatto fuoco e, come aveva promesso, aveva ammazzato un altro cavallo e l’uomo che gli stava dietro.

 – Signor Mendoza, – disse l’incorreggibile chiacchierone. Voi siete un tiratore veramente tremendo.

 – Come il fiammingo è un brabantino, io sono un filibustiere, rispose Mendoza.

 – Avete ancora delle munizioni?

 – Tre colpi soli: S. E. il governatore ci ha forniti poco bene.

 – Forse presentiva che noi li avremmo adoperati contro i suoi armigeri, – rispose il guascone.

 Una scarica in quel momento partí ed un altro cavallo del governatore, dopo d’aver spiccato un salto, cadde fulminato.

 – È il mio, – disse il guascone, bestemmiando. – Non valeva la pena di regalarci dei cavalli cosí splendidi, per farli poi massacrare dai suoi cavalleggieri.

 – Se ci avesse dati dei muli sfiniti, sarebbe stata la medesima cosa.

 – Signor fiammingo, guardate troppo il vostro archibugio. Sono tutti cosí lenti i brabantini quando devono sparare?

 – Anch’io aspetto la mia occasione, – rispose l’avventuriero.

 – Tiriamo insieme dunque: scommetto un doblone, da bersi alla taverna d’ El Moro, che io abbatterò un cavallo e due uomini.

 – Bum! – fece Mendoza. – Altro che bucaniere!…

 – Accettato, – rispose il fiammingo.

 Fecero fuoco contemporaneamente e fu il brabantino che gettò giú un altro cavallo.

 – Per centomila code del diavolo! – esclamò don Barrejo. – Si vede che i guasconi non sanno tirare che gran colpi di spada. Signor fiammingo, terrò in serbo il doblone per berlo alla vostra salute. Corpo di Belzebú!… Ecco che la faccenda diventa proprio seria.

 Gli spagnuoli, furibondi di essere tenuti in iscacco da quei tre terribili avventurieri, sparavano senza posa, tenendosi coricati dietro le sporgenze del terreno.

 Rispondevano colpo per colpo alle archibugiate del basco, del fiammingo e del guascone, cercando di avanzarsi.

 Non avevano però fortuna. Sia che un certo panico si fosse manifestato fra di loro; sia che i loro archibugi avessero una portata assai minore, le loro palle passavano sopra le teste degli avventurieri, senza causare alcun danno.

 Il guascone ed i suoi compagni, ben nascosti dietro ai cavalli, dei quali due non davano piú segno di vita, resistevano con tenacia ammirabile.

 Ma dopo un quarto d’ora si trovarono tutti tre senza munizioni. Non avevano che le pistole e le spade.

 – Ladro d’un governatore! – borbottò don Barrejo. – Poteva essere piú generoso. Non ha badato a darmi dei cavalli di valore ed ha economizzato sulle munizioni. Ora verrà il buono.

 Poi, volgendosi verso i suoi due compagni, disse:

 – Non usate le pistole che all’ultimo momento e tenetevi pronti a caricare colle spade.

 – lo non ne ho, – disse il fiammingo.

 – Caricherete colla sella del vostro cavallo, – disse il guascone.

 Gli spagnuoli non avevano cessato di avanzarsi. Ben risoluti ad impadronirsi dei tre avventurieri, prendevano però le loro precauzioni, non ignorando ormai d’aver da fare con persone risolute e pronte a qualunque sbaraglio.

 Strisciavano fra i massi, cercando di non esporsi e scivolavano fra i crepacci. Anche essi dovevano aver lasciati gli archibugi presso i cavalli.

 Erano cosí pervenuti ad una distanza di una ventina di metri, quando si udirono in aria due sibili acuti.

 Tutti avevano alzata la testa.

 – Delle freccie! – aveva esclamato il guascone. – Benissimo!… Gli spagnuoli dinanzi e gl’indiani in alto. Si stava meglio a Pueblo-Viejo.

 Sette od otto uomini dalla pelle ramigna, quasi interamente nudi, colle teste adorne di piume variopinte e che tenevano in mano dei lunghi archi, erano comparsi fra le alte rocce del vallone.

 Non correvano però in aiuto né degli spagnuoli, né degli avventurieri, perché lanciavano i loro pericolosi dardi tanto contro gli uni che contro gli altri.

 Per essi l’uomo bianco rappresentava il nemico, a qualunque nazione appartenesse.

 – Don Barrejo, che cosa facciamo? – chiese Mendoza, il quale si era prontamente riparato dietro una sporgenza dell’enorme roccia, insieme al fiammingo.

 – Carichiamo gli spagnuoli, che sono per ora i piú pericolosi, rispose il guascone.

 I cavalleggieri, che si trovavano maggiormente esposti alla pioggia di dardi, non avanzavano piú, anzi balzavano a destra ed a sinistra per evitare d’essere colpiti.

 – Approfittiamone, amici, – disse il guascone.

 I tre avventurieri balzarono innanzi, scaricando un colpo di pistola ognuno, non volendo rimanere affatto senza munizioni, poi il guascone ed il basco caricarono colle loro draghinasse, urlando ferocemente.

 Gli spagnuoli che già si trovavano a mal partito in causa delle freccie e che avevano perduto un altro uomo, colpito in pieno petto da una palla di pistola, fuggirono precipitosamente su pel vallone, traendosi dietro i cavalli rimasti vivi.

 – Io spero di non rivederli piú, – disse il guascone, rifugiandosi precipitosamente dietro la roccia, per non prendersi qualche freccia attraverso il corpo.

 – Non sono però scappati gl’indiani, – disse il fiammingo.

 – Non sarà facile a loro di colpirci. Bisognerebbe che girassero il vallone e noi sappiamo quanto è lungo.

 – Mi pare che si siano divisi, – disse Mendoza. – Alcuni di loro inseguono i cavalleggieri: vedo infatti lassú volare dei dardi.

 – Cosí affretteranno la loro ritirata, signor basco.

 – E gli altri assedieranno noi, don Barrejo.

 – Aspetteremo la notte.

 – Ed intanto ci ammazzano l’ultimo andaluso! – gridò il fiammingo.

 Infatti l’ultimo andaluso, colpito da cinque o sei freccie, era caduto addosso agli altri due, nitrendo lamentosamente.

 – Ah!… furfanti!… – gridò il guascone. – Non ne avevano abbastanza della carne qui, senza ammazzarci anche quella povera bestia.

 – Ci impediscono di fuggire, – disse Mendoza.

 – Quante piastre perdute!…

 – Un migliaio per lo meno, don Barrejo.

 – Ci rifaremo al saccheggio di Pueblo-Viejo. Per bacco!… Mi viene una superba idea.

 – Dite.

 – Di far pagare questi tre cavalli a quel furfante di taverniere. Se riesco a scovarlo, lo farò urlare come una coyota .

 Mentre si scambiavano quelle parole, tranquilli come se fossero al sicuro dentro un castello, gl’indiani non cessavano di scagliare freccie e di mandare, di quando in quando, il loro acutissimo urlo di guerra.

 Sprecavano però inutilmente i loro dardi, poiché i tre avventurieri si guardavano bene dal lasciare l’angolo della roccia.

 – Suppongo che non avranno delle migliaia di freccie, – riprese il guascone, dopo un breve silenzio. – Ne hanno già scagliate parecchie dozzine. Ah!… Se avessi un po’ di polvere!…

 – Non abbiamo che tre cariche, – disse Mendoza.

 – E di pistola…

 – Tiro troppo breve.

 – Lo so, signor basco. Io continuo a tormentarmi il cervello per trovare un mezzo qualunque che ci permetta di andarcene, e non trovo nulla. Ciò m’inquieta.

 – Qui non corriamo alcun pericolo, – disse il fiammingo, il quale masticava l’ultimo pezzo del suo sigaro.

 – Non sono gl’indiani che m’inquietano, – rispose il guascone.

 – Il sole, forse?

 – Me ne infischio del caldo. Sono gli spagnuoli.

 – Se sono scappati!…

 – E se ritornassero con dei rinforzi e ci trovassero ancora qui?…

 – Che frittata! – esclamò Mendoza. – Fortunatamente Pueblo-Viejo non è tanto vicina ed i cavalleggieri sono quasi tutti smontati.

 – E quelli montati possono correre innanzi e tornare alla testa di qualche squadrone.

 – Ah diavolo! – brontolò Mendoza, grattandosi furiosamente la testa. – Voi mi avete messo una pulce terribile in un orecchio. È necessario prendere una risoluzione eroica. Credete che questa roccia sia proprio inaccessibile?

 – Io non l’ho ancora osservata attentamente, – rispose il guascone. – Si può provare.

 – Non ci colpiranno gl’indiani? – chiese il fiammingo.

 – Non credo, perché l’angolo della roccia si prolunga.

 – Tentiamo, – disse Mendoza, risolutamente. – State attenti alle freccie; non sono già molto pericolose in pieno giorno.

 Presero gli archibugi, armi troppo preziose, anche se pel momento scariche, per lasciarle agli altri, impugnarono le tre pistole cariche e scivolarono lungo la parete dell’enorme roccia, girandola verso l’opposta parte del vallone.

 Gl’indiani non potevano accorgersi di quella ritirata, impedendo la frana di osservare ciò che succedeva in basso.

 I tre avventurieri, procedendo cauti e nel piú profondo silenzio, riuscirono finalmente a raggiungere l’altro angolo, il quale si appoggiava contro la parete rocciosa del vallone.

 Per un caso assolutamente straordinario, l’enorme rupe, nel precipitare, si era per cosí dire smussata verso la base, lasciando un passaggio fra il proprio angolo e la parete che scendeva a picco.

 – L’ho sempre detto io, che tutti gli avventi hanno la loro stella! – esclamò il guascone, trionfante. – Un cavallo non potrebbe passare, ma un uomo sí. Prenderemo quei signori indiani alle spalle!…

 – Infatti noi abbiamo una fortuna veramente straordinaria, disse Mendoza. – Chi avrebbe potuto supporre che qui esistesse un passaggio?

 – Dentro, amici, – comandò don Barrejo. – Spicciamoci, giacché gl’indiani non si sono ancora accorti della nostra scomparsa. Odo sempre le freccie fischiare dall’altra parte della frana.

 Si curvò e si mise a strisciare sotto la rupe, seguito tosto da Mendoza e dal fiammingo.

 Quella specie di galleria si prolungava per una quindicina di metri, ingombra di terriccio e di macigni.

 I tre avventurieri l’attraversarono rapidamente e giunsero dietro la frana.

 – Laggiú mugge il Chagres, – disse il guascone. – Dobbiamo attaccare alle spalle gl’indiani o scappare?

 I«Veramente ad un guascone ripugna di mostrare i talloni al nemico.

 – Io direi di dare l’attacco, – rispose Mendoza. – Se si accorgono della nostra fuga non cesseranno di perseguitarci. Io so quanto sono testardi quei maledetti uomini rossi.

 – Voi meritereste di essere promosso generale.

 – Perché, don Barrejo?

 – Gli uomini si conoscono nei momenti difficili. Scappano almeno gl’indiani quando odono dei colpi di fuoco?

 – Come conigli.

 – Allora cerchiamo di sorprenderli. Che cosa dite voi, signor fiammingo?

 – Conosco anch’io quella gente che ha la pelle color rame e vi posso dire che è sempre meglio dare l’assalto.

 – Riusciremo noi a sorprenderli?

 – Basta arrampicarsi sulla roccia, – rispose Mendoza. – Qui è piú accessibile che dall’altra parte.

 – Noi siamo gente sempre straordinariamente fortunata, – disse il guascone. – Se gl’indiani non si accorgono della nostra scalata, faremo una carica a fondo. Compare Mendoza, insegnateci la via. Non siete piú giovane, questo è vero, però potete competere con un gatto selvaggio. Questi filibustieri sono veramente meravigliosi!…

 – Ora vi darò una prova di che cosa sono capaci i figli della Tortue, – rispose il basco. – Se non faccio fuggire gl’indiani, che un giaguaro mi divori.

 – Brutta scommessa, – disse il guascone, scuotendo la testa.

 Il filibustiere osservò attentamente l’enorme frana, poi, avendo scoperto una specie di gradinata, si mise a salirla. Non era già una gradinata regolare, tuttavia il lupo di mare aveva dato arditamente l’assalto, ansioso di piombare alle spalle degl’indiani, i quali non cessavano di scagliare freccie nel vallone, per impedire la fuga agli assediati.

 Il guascone ed il fiammingo gli si erano messi dietro, pronti ad aiutarlo nella temeraria impresa.

 Puntando i piedi sulle sporgenze ed aggrappandosi agli sterpi, il lupo di mare raggiunse senza troppa fatica la cima e scivolò inosservato verso gli alberi che coprivano il margine del vallone.

 – Ecco il momento di mostrare a quel terribile guascone che anche i baschi valgono qualche cosa, – brontolò. – Che tutta la gloria spetti a lui, perché abita dall’altra parte del mar di Biscaglia, comincia un po’ a seccarmi. Canarios !… Anche noi siamo famosi per menare le mani e per uccidere, sia pure a colpi di navaja .

 Don Barrejo ed il flemmatico fiammingo lo avevano raggiunto, senza che le pelli-rosse se ne fossero accorte.

 – Signor Mendoza, – disse don Barrejo, – non sarebbe questo il momento di dare una prova della vostra abilità?

 – Che cosa volete dire? – chiese il filibustiere.

 – Abbiamo gl’indiani a soli venti passi da noi e ci voltano le spalle ed io ho udito vantare la straordinaria abilità dei baschi.

 – A giuocare di spada?

 – Le spade sono le armi dei guasconi, – disse don Barrejo. È il colpo della navaja che io vorrei vedere. Si risparmierebbe una carica di polvere.

 – Ho capito, – rispose il basco, sorridendo.

 – L’avete sempre la vostra navaja?

 – Preferirei lasciare la spada per la mia arma nazionale.

 – Fate un buon colpo dunque! Vedremo se la pelle degl’indiani è piú dura di quella degli uomini di razza bianca. Una cosí tremenda stoccata, data a distanza, potrebbe produrre un effetto straordinario.

 – Vi contenterò, – rispose Mendoza. – Sarà una palla risparmiata. Fermatevi qui e non fate rumore!

 GI’indiani si trovavano a trenta o quaranta passi, nascosti dietro gli enormi massi della frana. Credendo che gli avventurieri si trovassero sempre riparati dietro l’angolo dell’enorme roccia, non cessavano di lanciare delle freccie, senza guardarsi alle spalle.

 – Sotto, Mendoza, – disse il guascone.

 – Lasciate fare a me, – rispose il basco. – Tenetevi pronti a caricare a colpi di spada, se non volete consumare le nostre ultime munizioni. Silenzio!

 Si era allontanato, strisciando, dopo essersi sbarazzato dell’archibugio il quale non poteva essergli piú di nessuna utilità.

 Sulla mano allargata teneva la terribile navaja basca, colla punta rivolta verso il polso ed il manico al di fuori.

 Strisciava come un serpente, senza produrre il menomo rumore.

 Il guascone ed il fiammingo lo seguivano a breve distanza, tenendo pronte le pistole, pronti a portargli aiuto nel caso che il colpo fosse

 mancato.

 Ad un tratto Mendoza si fermò dietro il tronco d’una grossa palma.

 GI’indiani non erano che a dieci o dodici passi e gli volgevano le spalle, intenti a lanciare, senza interruzione, delle freccie.

 Si udí un leggiero sibilo e qualche cosa scintillò in alto.

 La navaja era stata lanciata, piantandosi fra le spalle d’un selvaggio e con tanta violenza da troncargli di colpo la colonna vertebrale.

 I suoi compagni, vedendolo cadere, avevano fatto tre o quattro salti innanzi, urlando spaventosamente.

 Il guascone sparò un colpo di pistola, poi caricò colla sua terribile draghinassa.

 Era una carica affatto inutile, perché i figli delle foreste, spaventati di vedersi dinanzi quei tre uomini bianchi, si erano precipitati sotto la vicina boscaglia, correndo come lepri.

 Quasi nel medesimo istante si udirono rimbombare nel vallone parecchi colpi d’archibugio.

 – Gli spagnuoli! – gridò il guascone, mentre il basco s’impadroniva della navaja . – Gambe, amici!

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