La dichiarazione di guerra

La flottiglia della Tigre della Malesia, pur fuggendo dinanzi al nemico, si batteva furiosamente, rispondendo vigorosamente coi quattro pezzi da caccia postati sulla tolda della Marianna e le grosse spingarde dei prahos.

Si componeva di otto velieri, muniti di vele immense e montati da equipaggi numerosi, ma solo quello montato dalla Tigre, che era ancora più grosso di quello che Yanez aveva perduto sul Kabatuan, era in grado di tenere, almeno per qualche tempo, testa agli avversari. Gli altri non erano che dei semplici navigli malesi, un po’ più grossi dei prahos comuni, senza bilancieri e forniti invece di ponte e di murate piuttosto alte per meglio proteggere i fucilieri.

La squadra nemica, che doveva prima aver cacciate le tigri di Mompracem dalla loro isola, era di molto più forte e anche meglio armata, componendosi di due piccoli incrociatori che battevano bandiera inglese, di quattro cannoniere e di un brigantino di tonnellaggio quasi eguale a quello della Marianna.

Tuttavia quelle diverse navi non osavano abbordare i velieri di Sandokan ed avevano molto da fare a tener testa alle formidabili scariche di moschetteria dei pirati, ai pezzi da caccia ed ai colpi di mitraglia dei prahos che spazzavano, come uragani micidiali, i loro ponti.

La comparsa improvvisa della magnifica e poderosa nave americana, aveva interrotto per un momento la pugna e sospeso il combattimento, ignorando tanto gli inseguiti quanto gli inseguitori a quale nazione appartenesse, non essendo stata innalzata alcuna bandiera sull’asta di poppa, nè al pomo della mezzana.

Una voce formidabile che s’alzò dal ponte di comando della nave, avvertì le tigri di Mompracem che avevano un formidabile protettore.

– Viva Sandokan! Hurrà per Mompracem.

Poi seguì il comando:

– Fuoco di bordata sugli inglesi!

I setti pezzi di babordo della nave americana, tutti i pezzi di grosso calibro, e di lunga portata, avvamparono quasi nell’istesso tempo, con un rimbombo spaventevole che si ripercosse fino in fondo alla stiva, facendo tremare perfino i puntali, e quella tempesta di proiettili rovinò addosso ad uno dei piccoli incrociatori demattandolo d’un colpo solo, squarciandogli il fianco di tribordo e facendogli scoppiare le caldaie. Un uragano di fuoco e di fumo irruppe tosto dalla sala delle macchine, seguìto da un fragore formidabile che pareva prodotto dallo scoppio delle casse di munizioni e di barili di polvere.

La nave, arrestata di botto, si piegò sul fianco ferito, mentre l’equipaggio si gettava in acqua, urlando.

– Ebbene, signor de Gomera, – disse l’americano che gli stava presso, sulla plancia di comando. – Che cosa ne pensate delle vostre artiglierie?

– Ve lo dirò più tardi, – rispose il portoghese. – Gettiamoci fra i prahos e le cannoniere e diamo battaglia. Artiglieri! Fuoco di tribordo! Giù il brigantino!

Una seconda scarica seguì quel comando, mentre i prahos delle tigri di Mompracem si riparavano dietro la nave americana, scaricando le loro grosse spingarde.

Il brigantino, che si era portato innanzi per proteggere coi suoi pezzi da caccia l’altro incrociatore, prese una tale fiancata che tutte le sue murate si sfasciarono, mentre l’albero maestro, spaccato due piedi sopra la tolda, precipitava attraverso la prora con orrendo fracasso, sfondando parte del castello ed ammazzando o storpiando una mezza dozzina di gabbieri.

Urla formidabili si levarono dai ponti dei prahos della Tigre della Malesia, frammisti a poderose scariche di mitraglia. I pirati di Mompracem si prendevano la loro rivincita e mercè l’aiuto di quella nave potente, sul cui picco era stata subito spiegata la bandiera dell’antico scorridore del mare, tutta rossa con tre teste di tigre, infliggevano a loro volta agli assalitori vittoriosi una dura lezione.

Le cannoniere, vistesi impotenti a sostenere il fuoco contro un così terribile avversario, che possedeva delle artiglierie di una potenza e di un calibro quasi sconosciuto in quell’epoca, raccolti in furia i marinai dell’incrociatore e gettata una gomena al brigantino che si trovava nell’impossibilità di rimettersi alla vela, batterono rapidamente in ritirata in direzione di Mompracem, salutati da un’ultima scarica fatta dai pezzi da caccia della Marianna e dalle spingarde dei prahos.

Intanto un uomo era disceso sulla piattaforma della scala della nave americana, che era stata subito abbassata e si era slanciato sulla coperta cadendo fra le braccia aperte di Yanez.

Era di statura piuttosto alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima, d’aspetto fiero ed energico, colla pelle assai abbronzata, gli occhi nerissimi che pareva avessero dentro un fuoco e la capigliatura folta, ricciuta e nera come l’ala d’un corvo, che cadevagli sulle spalle. La barba invece, appariva un po’ brizzolata mentre sulla fronte si disegnavano alcune rughe che non dovevano essere precoci.

Vestiva all’orientale, con una casacca di seta azzurra a ricami d’oro e maniche ampie, stretta alla cintura da un’alta fascia di seta rossa sorreggente una splendida scimitarra e due pistole dalle canne lunghissime e arabescate ed i calci ad intarsi d’avorio e d’argento; aveva calzoni larghi, alti stivali di pelle gialla a punta rialzata e sul capo un turbantino di seta bianca con un pennacchio fermato da un diamante grosso quasi come una noce.

Una bellissima fanciulla, che indossava un costume di donna indiana, lo seguiva.

– Sandokan! – aveva esclamato Yanez, stringendoselo al petto. – Tu, battuto! E anche tu, mia Surama!

Un lampo ardente balenò negli sguardi del comandante della squadriglia dei velieri, mentre il suo viso assumeva una terribile espressione d’odio e nel medesimo tempo di dolore.

– Sì, battuto per la seconda volta e ancora dal medesimo nemico, – disse poi con voce sorda. – Cacciato da Mompracem!

– Non l’avrei certo lasciata per far piacere a loro, Yanez.

– Tutto perduto?

– Hanno distrutto tutto, quei cani. I villaggi sono in fiamme, la popolazione è stata massacrata senza risparmiare nè le donne, nè i fanciulli, colla ferocia ben nota degli inglesi quando si sentono più forti e si trovano dinanzi a delle genti di colore. Anche la nostra casa non sussiste più.

– Ma perchè questo assalto improvviso?

Sandokan, invece di rispondere aveva volto lo sguardo in giro, guardando la tolda della magnifica nave che si copriva di marinai americani.

– Dove hai trovato questo incrociatore? – chiese poscia. – Che

cos’hai fatto in questi giorni? E Tremal-Naik? E Darma? E la Marianna? E chi sono questi uomini bianchi che prendono le difese delle tigri di Mompracem?

– Sono avvenute delle cose gravissime, fratellino mio, dopo la mia partenza pel Kabatuan, – rispose Yanez. – Ma prima che ti racconti ciò, dimmi dove ti recavi ora.

– In cerca di te, innanzitutto, poi di un nuovo asilo. Non mancano le isole al nord del Borneo dove potersi posare e prepararsi alla vendetta, – disse Sandokan. – La Tigre della Malesia farà udire ancora il suo ruggito sulle spiagge di Labuan e anche su quelle di Sarawak.

Yanez fece un segno al capitano che stava fermo a pochi passi, in attesa di ricevere gli ordini del nuovo proprietario della nave, poi, dopo averlo presentato a Sandokan, gli chiese:

– Dov’è che desiderereste sbarcare, capitano?

– Possibilmente a Labuan, dove mi sarà più facile trovare imbarchi per Pontianak e poi ho due uomini laggiù che potrebbero darvi delle preziose informazioni, signor de Gomera.

Rimarranno a vostra disposizione fino a che ne avrete bisogno, tutto il personale di macchina che ha accettato le vostre proposte e due quartiermastri artiglieri onde istruire i vostri malesi nel servizio dei pezzi. Sarei ben lieto di rimanere in vostra compagnia e prendere parte alla campagna, che non ne dubito, inizierete contro quei signori dalle bandiere rosse inquartate.

– Avanzatevi lentamente su Labuan in modo da potervi giungere di notte. I prahos potranno seguirci senza difficoltà, essendo il vento fresco, – ordinò Yanez.

Poi, passato un braccio sotto il destro di Sandokan, lo trasse verso poppa e scesero entrambi nel quadro, seguìti dalla giovane indiana.

In quel momento le cannoniere, il brigantino e l’incrociatore scomparivano fra le nebbie dell’orizzonte.

– Narrami che cosa è successo a Mompracem, innanzitutto, – disse Yanez, mentre sturava una bottiglia di whisky e fissava sorridendo Surama. – Perchè ti sono piombati addosso? Kammamuri che era giunto alla fattoria di Tremal-Naik mi aveva già narrato che il governatore di Labuan desiderava prenderti l’isola.

– Sì, e col pretesto che la mia presenza costituiva un continuo pericolo per quella colonia ed incoraggiava i pirati bornesi, – rispose Sandokan. – Non credevo però che spingesse le cose tanto oltre verso di noi, che abbiamo reso all’Inghilterra un così grande servigio sbarazzando l’India dalla setta dei thugs. Invece quattro giorni or sono un messo inglese mi recò l’ordine di sgombrare l’isola entro quarantott’ore, sotto la minaccia di cacciarmivi colla forza.

Scrissi allora al governatore che l’isola da vent’anni era stata occupata da me e che per diritto mi apparteneva e che la Tigre della Malesia era tale uomo da difenderla a lungo; quand’ecco che ieri sera, senza alcuna dichiarazione di guerra, mi vedo piombare addosso la squadra che tu hai trattata così bene, mentre un’altra, composta di piccoli velieri, sbarcava sulle rive occidentali quattro compagnie di cipai con quattro batterie di artiglieria.

– Canaglie! – esclamò Yanez, indignato. – Ci hanno considerati come fossimo ancora dei pirati!

– Peggio, come degli antropofagi, – disse Sandokan, con voce fremente. – A mezzanotte i villaggi sorpresi erano in fiamme ed i loro abitanti massacrati con inaudita ferocia, mentre la squadra apriva un fuoco terribile contro le nostre trincee della piccola baia, distruggendomi buona parte dei prahos.

Quantunque preso fra due fuochi, fra i pezzi delle navi e le batterie dei cipai, ho resistito disperatamente fino all’alba, respingendo più di quattordici attacchi; poi, quando vidi che ogni resistenza era inutile, mi sono imbarcato cogli avanzi delle mie bande ed a colpi di cannone mi sono aperto il passo fra gli incrociatori e le cannoniere, riuscendo a fuggire in tempo.

– Ed ora che cosa intendi fare?

La Tigre della Malesia alzò la destra agitandola come se impugnasse qualche arma e si preparasse a vibrare un colpo mortale, poi, contraendo le labbra come la belva di cui portava il nome, disse con uno scoppio d’ira spaventevole:

– Che cosa penso di fare? Come vent’anni or sono ho fatto tremare Labuan, tornerò a spargere il terrore su tutte le sue coste. Dichiaro la guerra all’Inghilterra ed a Sarawak insieme.

– Od al figlio di Suyodhana?

Sandokan aveva fatto un soprassalto.

– Che cosa hai detto, Yanez? – gridò, guardandolo con profonda sorpresa.

– Che l’uomo che ha sollevati i dayaki del Kabatuan, che ha fatto muovere il governatore di Labuan e quello di Sarawak per cacciarci da Mompracem è il figlio della Tigre dell’India che tu hai uccisa a Delhi.

Sandokan era rimasto muto: pareva che quella inaspettata rivelazione lo avesse fulminato.

– Aveva un figlio, il capo degli strangolatori indiani! – esclamò finalmente.

– E molto abile e molto risoluto e deciso a vendicare la morte di suo padre, – aggiunse Yanez. – Noi abbiamo perduta già la nostra isola, tutte le fattorie di Tremal-Naik sono state distrutte e quel caro amico e Darma si trovano in sua mano.

– Te li hanno rapiti! – gridò Sandokan.

– Dopo un combattimento terribile che sarebbe terminato colla morte di tutti, senza l’arrivo provvidenziale di questa nave.

Sandokan si era messo a girare pel salotto cogli scatti d’una belva rinchiusa in una gabbia, la fronte burrascosamente aggrottata e le mani raggrinzite sul petto.

– Narrami tutto, – disse ad un tratto, fermandosi dinanzi al portoghese e vuotando d’un fiato solo una tazza di whisky.

Yanez, più brevemente che potè, raccontò le diverse avventure toccategli dopo la partenza da Mompracem e che già noi conosciamo.

Sandokan le aveva ascoltate in silenzio, senza interromperlo.

– Ah! Questa nave è nostra? – disse quando Yanez ebbe finito. – Sta bene: faremo guerra all’Inghilterra, a Sarawak, al figlio di Suyodhana, a tutti!

– E dei nostri prahos che cosa ne farai? Non potrebbero seguire questa nave che fila come un pesce veliero. Vorresti affondarli?

– Li manderemo nella baia d’Ambong. Colà abbiamo degli amici e terranno in consegna i nostri velieri fino al nostro ritorno, mantenendo un equipaggio solo sulla Marianna.

Che ci seguirà?

– Potremmo averne bisogno più tardi.

Lasciarono il quadro e salirono in coperta, dove Kammamuri, il prode maharatto, e Sambigliong li attendevano.

La nave filava a piccolo vapore verso oriente, seguìta a breve distanza dalla Marianna di Sandokan e dai prahos, i quali avevano il vento in favore.

In lontananza si profilavano debolmente le alture di Labuan, indorate dagli ultimi raggi del sole, prossimo ormai al tramonto.

Alle nove di sera l’incrociatore s’arrestava a mezzo miglio dalla spiaggia, di fronte al luogo ove aveva sbarcato i due marinai potendo darsi che il segnale venisse fatto quella notte istessa.

Nessuno aveva acceso i fanali, nemmeno la poderosa nave onde non attirare l’attenzione delle cannoniere inglesi a guardia dell’isola.

Erano trascorse quattro ore, quando un razzo verde, s’alzò sulla cima d’una scogliera. Yanez, Sandokan, l’americano e la giovane indiana che stavano chiacchierando sulla plancia di comando, seduti su delle poltrone a dondolo, si erano bruscamente alzati.

– Il segnale dei miei uomini! – aveva esclamato lo yankee. Sapevo che erano due furbi quelli e che non avrebbero perduto il loro tempo nelle taverne di Victoria.

Ad un suo comando un marinaio lanciò un razzo rosso a cui i due americani risposero subito con un altro d’eguale colore.

Poco dopo una sottile linea oscura si staccava dalla scogliera, lasciandosi dietro una scia fosforescente. Il mare, saturo di nottiluche, luccicava sotto i colpi dei remi come se dei getti di zolfo fuso scorressero sotto la scialuppa.

Yanez aveva fatto abbassare la scala.

Dieci minuti dopo l’imbarcazione abbordava la grossa nave e i due americani salivano frettolosamente.

– Dunque? – chiesero ad una voce Yanez ed il comandante, con ansietà.

– Siamo riusciti al di là delle nostre speranze, signori, – rispose uno dei due.

– Sbrigati a spiegarti, Tom, – disse lo yankee. Sai dove sono state condotte quelle persone?

– Sì, capitano. L’ho saputo da un nostro compatriotta che montava quella scialuppa a vapore di cui vi ha parlato il signore, – disse, accennando a Yanez.

– Si è fermata a Labuan quella scialuppa? – chiese il portoghese.

– Solo pochi minuti per rinnovare la provvista di carbone e per sbarcare quel nostro compatriotta a cui una palla aveva spezzato un braccio, – rispose il marinaio. – Mi disse quell’uomo che a bordo vi era un indiano, una fanciulla e cinque malesi.

– E dove li hanno condotti?

– A Redjang, nel fortino di Sambulu.

– Nel sultanato di Sarawak! – esclamò Sandokan. – Allora è stato quel rajah che li ha fatti rapire?

– No, signore. Il nostro compatriotta ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare il Re del Mare ma che pare abbia l’appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah.

Non sa chi è costui? – chiese Yanez.

– Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma tuttavia ha assicurato che quell’uomo è potente e che è amico del rajah disse il marinaio.

Si volse verso il comandante americano:

– Volete sbarcare qui? – gli chiese.

– Preferirei piuttosto qui che su di un’altra costa.

– Non avrete dei fastidi da parte degli inglesi, dopo quello che avete fatto?

– Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D’altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualcos’altro. Non inquietatevi per me.

– V’incarichereste di affidare una lettera all’ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan?

– Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore.

– Vi avverto che si tratta d’una dichiarazione di guerra.

– Me l’ero immaginato, – rispose l’americano. – Mi guarderò dall’avvertire il governatore di averla impostata io.

– Yanez, – disse Sandokan, volgendosi all’amico, – preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all’equipaggio americano e fa’ preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore.

Quando tornò sul ponte, l’equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartiermastri cannonieri che avevano già firmato l’arruolamento, lo salutò con un formidabile:

– Hurrà alla Tigre della Malesia! Hurrà! Hipp! Hipp! Hipp!

Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi Tigrotti, lesse ad alta voce:

 

Noi Sandokan, soprannominato Tigre della Malesia, ex principe di Kini-Ballon e Yanez de Gemerà legittimi proprietarii dell’isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all’Inghilterra, al rajah di Sarawak ed all’uomo che è da loro protetto.

Da bordo del Re del Mare: 24 maggio 1868.

SANDOKAN E YANEZ DE GOMERA

 

Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili tigri di Mompracem.

– Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse!

– Signore, – disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra, – vi auguro di dare a quel prepotente di John Bull una dura lezione. Della potenza della nave che v’ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun’altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio.

– Parlate, – disse Sandokan. – La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d’un mese. Servitevi più che potete delle vele, perchè dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi.

– Avevo già pensato a questo, – rispose Sandokan.

– Mandate, quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawak onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo.

– In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gli inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre, – rispose Sandokan.

– Ed ora, signori, buona fortuna, – disse l’americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem.

Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala.

Il suo equipaggio aveva già preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati.

La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro fragoroso urrah.

Mezz’ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l’equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, fecero ritorno.

La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull’incrociatore.

– Ed ora, – disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, – andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti.

Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

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