L’agonia dell’incrociatore, agonia terribile e spaventevole era cominciata.
Il mostro fumante esauriva vanamente le sue ultime forze tentando ancora, con gli ultimi tiri delle sue artiglierie, di colpire a morte il suo formidabile avversario che lo aveva vinto.
Quella splendida nave che rappresentava forse l’unità più forte della squadra del rajah di Sarawak, non era più che un ammasso di rovine, che le fiamme ormai a poco poco divoravano, mentre l’acqua lo invadeva per trascinarlo nei profondi abissi del mare.
I suoi fianchi, squarciati dalle granate e dagli obici perforanti della poderosa nave americana, parevano un crivello; le sue murate ed i suoi alberi non vi erano più; le sue batterie non offrivano più alcun rifugio agli ultimi superstiti.
Vampe gigantesche irrompevano furiosamente attraverso i boccaporti spalancati e gli squarci della coperta, con cupi fragori, allungandosi smisuratamente e lanciando in aria nembi di scintille e nuvoloni di fumo, i quali formavano al di sopra della nave come un immenso ombrello.
L’incrociatore affondava lentamente, cappeggiando, nondimeno i suoi artiglieri non cessavano di sparare cogli ultimi pezzi rimasti ancora in batteria, mentre i suoi fucilieri mantenevano ancora, quantunque ridotti a meno della metà, un fuoco vivissimo colle carabine, balzando come tigri attraverso la coperta fiammeggiante ed incoraggiandosi con degli urrà selvaggi.
Nonostante il fuoco della nave affondante, fuoco d’altronde male diretto per l’agitazione dei tiratori, la scialuppa a vapore e le tre baleniere del Re del Mare erano state subito calate in acqua, per raccogliere gli ultimi superstiti nel momento in cui la nave sarebbe mancata sotto i loro piedi.
Yanez aveva assunto il comando della barcaccia che era stata equipaggiata con quattordici rematori, mancando il tempo di accendere il forno; Sambigliong comandava invece le altre.
Darma e Surama che erano salite in coperta, vedendo le vampe avvolgere la disgraziata nave, gridavano:
– Salvateli! Salvateli, signor Yanez! Affondano!
Le quattro scialuppe avevano preso rapidamente il largo, muovendo verso l’incrociatore. I pochi uomini che ancora montavano la nave, vedendo che i loro avversarii muovevano in loro soccorso, avevano cessato il fuoco e cominciavano a gettarsi in acqua per sfuggire alle fiamme e per evitare il pericolo di saltare in aria.
La barcaccia fu la prima ad approdare l’incrociatore. Yanez, non curante del fumo e della pioggia di scintille, salì rapidamente la scala che era abbassata e si slanciò verso il ponte di comando insieme ad una mezza dozzina di malesi.
Cercava di salvare sir Moreland, innanzi a tutto, se le granate del Re del Mare lo avevano risparmiato.
Stavano aprendosi il passo fra i rottami e i cadaveri che ingombravano la coperta, quando avvenne una esplosione a prora che li scaraventò tutti in mare.
Il colpo fu così forte che Yanez, che era stato proiettato presso una della baleniere, svenne. Fortunamente i malesi l’avevano veduto piombare in acqua ed ebbero il tempo di ripescarlo quasi subito e di trarlo sulla barcaccia che si era accostata.
L’incrociatore, sventrato a prora, calava rapidamente, Sambigliong e gli uomini delle scialuppe che erano subito saliti a bordo, ridiscendevano precipitosamente, portando dei feriti che avevano sottratti con grandi pericoli ai turbini di fuoco.
La nave calava. Le sue murate ben presto scomparvero e le onde invasero bruscamente la coperta spazzandola dal cassero alla ruota di prora e soffocando d’un sol colpo le fiamme.
La barcaccia e le baleniere fuggivano a tutta forza di remi mentre intorno alla nave s’allargava un gorgo gigantesco.
La bandiera di Sarawak mostrò ancora per un momento, ai raggi del sole, i suoi colori, poi s’inabissò.
Tutto era finito! L’incrociatore scendeva, fra i muggiti del vortice gigante, negli abissi del golfo.
Le quattro scialuppe, sfuggite a tempo all’attrazione del gorgo scavato dalla nave, superata una gigantesca muraglia liquida che si estendeva con mille fragori sul mare, tornavano frettolosamente verso il Re del Mare che fumava a cinquecento metri dal luogo del disastro.
La superficie del golfo era ingombra di rottami e di cadaveri.
Casse, barili, pezzi di fasciame e di tramezzate ondeggiavano in tutte le direzioni.
Sambigliong si era subito occupato del portoghese, mentre altri s’affaccendavano intorno ad un giovane ufficiale che era stato salvato nel momento in cui la nave stava per scomparire e che sembrava fosse stato gravemente ferito, avendo la giubba inzuppata di sangue.
Yanez fortunatamente non aveva riportata alcuna lesione nello scoppio. Più che altro era rimasto stordito dall’improvvisa volata e dal frastuono prodotto dall’esplosione.
Ed infatti alla prima sorsata di ginepro fattagli inghiottire dal dayako, tornò subito in sè e aprì gli occhi.
– Come vi sentite, signor Yanez? – gli chiese Sambigliong con apprensione.
– Sono tutto scombussolato e pesto, ma mi pare che nulla vi sia di rotto, – rispose il portoghese, sforzandosi a sorridere. – E la nave?
– Affondata.
– E sir Moreland?
– È qui, nella baleniera. L’abbiamo salvato per miracolo.
Yanez si alzò senza aver bisogno dell’aiuto del dayako.
Il giovane comandante dell’incrociatore giaceva sul fondo della barcaccia, col petto denudato, il volto pallidissimo e chiazzato di sangue e gli occhi chiusi.
– Morto! – esclamò.
– No, rassicuratevi, ma la ferita che ha riportato al fianco deve essere grave.
– Chi l’ha colpito? – chiese Yanez con ansietà. – Tu, Sambigliong?
– Io! No, signor Yanez, è l’esplosione che lo ha ridotto in quello stato. Qualche frammento di granata gli ha aperto il fianco.
– Presto! A bordo!
– Ci siamo già, signor Yanez.
Le quattro scialuppe avevano abbordato il Re del Mare presso la scala, la quale era stata già abbassata.
Fu lasciato il posto alla barcaccia.
Due uomini presero delicatamente il comandante dell’incrociatore sempre svenuto e colle dovute precauzioni salirono la scala, seguìti da Yanez e da quattordici marinai dell’incrociatore, i soli superstiti strappati alle onde.
Sandokan, che aveva assistito impassibile alla distruzione della nave avversaria, li attendeva sulla cima della scala.
Vedendo il capitano ed i marinai del rajah, levò il turbante, dicendo con voce grave:
– Onore ai valorosi.
Poi strinse silenziosamente la mano a Yanez.
Darma che si trovava a qualche passo insieme a Surama, pallidissima, profondamente commossa dall’orribile scena svoltasi sotto i suoi occhi, si era avanzata verso i marinai che trasportavano il disgraziato comandante.
– Egli è morto, è vero? – chiese con voce rotta.
– No, – rispose Yanez. – Pare però che la ferita sia grave.
– Oh, mio Dio! – esclamò la giovane.
– Silenzio, – disse Sandokan. – Fate largo al valore sfortunato. Si porti il comandante nella mia cabina.
Con un gesto che non ammetteva replica, arrestò Darma e Surama, poi seguì i marinai nel quadro, insieme a Yanez e a Tremal-Naik.
Il medico di bordo, un americano che, come i macchinisti e i quartiermastri cannonieri, aveva accettato l’offerta fattagli da Sandokan di rimanere a bordo fino alla fine della campagna, era subito accorso.
– Venite, signor Held, – gli aveva detto Sandokan. – Il comandante dell’incrociatore pare assai aggravato.
– Farò il possibile per salvarlo, signore, – aveva risposto l’americano.
– Conto su di voi.
Entrarono nella cabina, dove sir Moreland era già stato deposto sul ricco letto del pirata.
– Aspettate i miei ordini nel corridoio, – disse Sandokan ai due marinai, – e che gli infermieri si tengano pronti.
Il medico aveva denudato interamente sir Moreland. Non aveva che una sola ferita, quella al fianco, ma era orribile.
Il proiettile che lo aveva colpito, qualche frammento di granata di certo, aveva lacerate le carni per una lunghezza di venti centimetri, scavando una specie di solco. Il sangue scorreva a fiotti dalla laceratura, minacciando di dissanguare rapidamente il ferito.
– Che cosa ne dite, signor Held? – chiese Yanez, fissandolo come se avesse voluto indovinargli il pensiero.
– La ferita è più dolorosa che grave, – rispose il medico. – Ha perduto molto sangue, però questo inglese è robusto.
– Non potreste garantirmi la sua guarigione?
– La vita di quest’uomo non corre alcun pericolo, ve l’assicuro.
Sandokan stette un momento silenzioso, guardando lo smorto viso dell’inglese, poi disse come parlando fra sè:
– Meglio così: quest’uomo potrebbe un giorno esserci utile.
Stava per uscire, quando un profondo sospiro, seguìto da un rauco gemito, sfuggì dalle labbra scolorite dell’inglese.
Il dottore aveva messe le mani sulla ferita per riunire le due labbra ed a quel contatto il comandante dell’incrociatore aveva trasalito, poi aperto gli occhi.
Girò all’intorno uno sguardo semi-spento, arrestandolo prima sul dottore, poi su Yanez, che stavagli dall’altra parte del letto.
Le sue labbra si schiusero, poi mormorò con un filo di voce:
– Voi!…
– Non parlate, sir Moreland, – disse il portoghese. – Il dottore ve lo proibisce.
Il comandante fece col capo un gesto negativo, poi raccogliendo tutte le sue forze, disse ancora e con voce più chiara quantunque spezzata:
– La… mia… spada… è rimasta… sulla… mia… nave…
– Non l’avrei accettata, signore, – disse Sandokan. – Mi rincresce solo che sia affondata colla nave, perchè non posso restituirvela. Voi siete un valoroso ed io vi stimo.
Il giovane con uno sforzo supremo alzò la destra porgendola al suo avversario, il quale gliela strinse delicatamente.
– I miei… uomini? – chiese ancora sir Moreland, mentre una rapida commozione gli alterava il viso.
– Ne abbiamo salvati… basta, non affaticatevi.
– Grazie… – mormorò il ferito.
Poi s’abbandonò richiudendo gli occhi: era nuovamente svenuto.
– A voi, dottore, – disse Sandokan.
– Non dubitate, signore, lo curerò come fosse vostro figlio. A me gli infermieri!
Mentre gli uomini richiesti entravano con disinfettanti, rotoli di cotone fenicato e numerose bottigliette, Sandokan rifece lentamente le scale, con Yanez e Tremal-Naik, rimontando in coperta.
Darma che li aspettava sulla porta del quadro, s’appressò al portoghese.
– Signor Yanez, – gli sussurrò, sforzandosi di rendere la sua voce ferma.
Il portoghese la guardò per qualche istante senza rispondere, poi sorrise e le strinse silenziosamente la mano.
– Lo salveranno? – chiese Darma con angoscia.
– Lo spero, – rispose Yanez. – T’interessa molto quel giovane, Darma?
– È un valoroso…
– Sì e qualche cosa di più anche.
– Se guarirà, lo terrete prigioniero?
– Vedremo che cosa deciderà Sandokan; ma è probabile.
Darma raggiunse Surama che si era un po’ scostata, mentre Yanez s’accostava a Sandokan che stava parlando animatamente con Tremal-Naik.
– Che cosa ti pare di quel giovane? – gli chiese.
– È quello che comandava il forte di Macrae?
– Sì, – risposero ad una voce Tremal-Naik e Yanez.
– Quell’uomo ha del fegato, – disse Sandokan. – È stata una vera fortuna per noi a catturarlo. Se il rajah avesse una mezza dozzina di quei comandanti ci darebbero troppo da fare. Quello non deve essere un inglese puro sangue. È troppo bruno.
– Mi ha detto che sua madre sola era inglese, – disse Tremal-Naik.
– Faceva parte della flotta anglo-indiana prima?
– Sì, come luogotenente, così mi disse una sera.
– Che cosa ne faremo di lui? – chiese Yanez.
– Lo terremo come ostaggio, – rispose Sandokan. – Un giorno potrebbe esserci utile. In quanto agli altri prigionieri li farai imbarcare su una scialuppa e li lascerei liberi di raggiungere la costa.
– Ed ora, dove volgerai le tue imprese? – chiese Tremal-Naik.
– Io e Yanez abbiamo già formato il nostro piano di guerra, – rispose Sandokan. – Nostro primo, anzi principale disegno, è quello di non lasciarci sorprendere dalle squadre di Sarawak e da quelle inglesi. È certo che cercheranno di riunirsi per schiacciarci d’un colpo solo; se troviamo il modo di aver sempre carbone a nostra disposizione, colla velocità di cui è dotato il Re del Mare potremo riderci del rajah e anche del governatore di Labuan.
– È appunto perciò che vi consiglierei, innanzi a tutto e prima che abbia luogo la riunione delle due squadre, di tentare un colpo contro i depositi di carbone che si trovano alla foce del Sarawak, – disse Tremal-Naik.
– È quel che tenteremo, – rispose Sandokan. – Andremo poi a distruggere quelli che gli inglesi hanno sull’isoletta di Mangalum. Privi dei loro rifornimenti, noi avremo buon gioco sugli uni e sugli altri e potremo gettarci sulle linee di navigazione e dare un colpo mortale ai commerci inglesi colla Cina e col Giappone. Approvate questa mia idea?
– Sì, – risposero ad una voce Yanez e Tremal-Naik.
– Ho però un altro progetto, – continuò Sandokan dopo un breve silenzio. – Di fare insorgere i dayaki di Sarawak. Tra di loro abbiamo dei vecchi amici, quelli che ci aiutarono a rovesciare James Brooke. Io vorrei mandare a loro un buon carico d’armi onde possano mettersi in campagna. Con noi in mare e quei terribili tagliatori di teste alle spalle, il rajah ed il suo alleato, il figlio di Suyodhana, non si troverebbero certo su un letto di rose.
– Supponi che il figlio del capo dei thugs si trovi col rajah? – chiese Tremal-Naik.
– Ne sono sicuro, – rispose Sandokan.
– E anch’io, – aggiunse Yanez.
– Avete dato un appuntamento alla Marianna? – chiese l’indiano.
– Ci aspetta al capo Tanjong-Datu con carico di carbone, di munizioni e di armi!
– Che vi sia di già?
– Lo suppongo.
– Allora andiamo a Sarawak, – concluse Tremal-Naik.
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