PARTE SECONDA Il figlio di Suyodhana
– Signor Yanez, vedo un lume brillare laggiù, entro quell’apertura.
– L’ho veduto, Sambigliong.
– Che vi sia un praho ancorato nella rada?
– Io credo invece che si tratti di una scialuppa a vapore, di quelli che ha condotto qui Tremal-Naik e Darma.
– Che si vegli all’entrata della rada?
– È possibile, amico, – rispose tranquillamente il portoghese, gettando via la sigaretta che stava fumando.
– Potremo passare inosservati?
– Chi vuoi che si aspetti un colpo di mano da parte nostra? Redjang è troppo lontana da Labuan e poi scommetterei che nemmeno a Sarawak sanno che noi siamo già giunti. Chissà se la nostra dichiarazione di guerra al leopardo inglese e al nipote di James Brooke è giunta qui. E poi non siamo noi vestiti da cipai indostani? Forse che le truppe del rajah portano dei vestiti diversi dai nostri?
– Tuttavia, signor Yanez, preferirei che quella scialuppa o quel praho non si trovasse qui.
– Devono dormire della grossa a bordo, mio caro Sambigliong, e noi li sorprenderemo.
– Come! Assaliremo quei marinai? – chiese Sambigliong.
– Non amo lasciarmi alle spalle dei nemici che potrebbero molestarci nella ritirata. Ci sbarazzeremo il terreno senza che la Perla di Labuan venga in nostro aiuto e avvicinandosi alla costa urti contro qualche scogliera. Suppongo che non saranno in molti su quella scialuppa o praho che sia e noi siamo lesti di mano. Non fate uso delle armi da fuoco: solo i parangs ed i kriss devono lavorare. Mi avete capito?
– Sì, signor Yanez, – risposero parecchie voci.
– Avanti adunque e silenzio.
Questa conversazione avveniva su una grossa scialuppa, manovrata da sei paia di remi e montata da quattordici persone che indossavano il pittoresco costume dei cipai sarawakini: giacca di panno rosso, calzoni bianchi di tela, turbantino in testa pure bianco e scarpe colla punta rialzata.
Dodici avevano la pelle di colore molto oscuro, che li faceva rassomigliare a malesi o per lo meno a dayaki: e gli altri due invece erano di razza caucasica ed indossavano la divisa di ufficiali.
Erano tutti uomini robusti, alti e muscolosi e tenevano presso i loro rispettivi banchi delle lunghe carabine di fabbrica indiana, delle pesanti sciabole colla lama molto larga e dei pugnali a lama serpeggiante, i famosi, e terribili kriss malesi.
La scialuppa, che manovrava silenziosamente e velocemente, sotto la direzione di Yanez che stava a poppa, alla barra del timone, muoveva verso una profonda baia che s’apriva sulla costa occidentale dell’isola del Borneo, in quella porzione che è bagnata dalle acque del grande golfo di Sarawak.
Quantunque la notte fosse oscurissima, essendo le stelle coperte da un velo di vapori che la brezza di ponente spingeva verso la costa, la scialuppa s’avanzava senza mai esitare, scivolando fra le scogliere corallifere che aprivano vagamente a babordo ed a tribordo e contro cui rompevasi la risacca con dei muggiti prolungati.
Si dirigeva verso un piccolo punto luminoso che si scorgeva in fondo alla rada e che ora s’alzava ed ora s’abbassava, come se subisse delle scosse improvvise.
Si era già molto inoltrata entro quel profondo squarcio della costa, quando l’uomo bianco che stava seduto presso Yanez, un bel giovane di venticinque o vent’otto anni, di forme massicce, con una barbetta tagliata all’americana e che indossava la divisa di luogotenente, chiese:
– Capitano Yanez, se ci interrogano, che cosa diremo?
– Che andiamo a portare viveri al fortino di Macrae, – rispose il portoghese, che aveva accesa una seconda sigaretta. – Forse che la nostra scialuppa non è carica d’ogni ben di Dio?
– E appena saremo bordo contro bordo daremo addosso?
– Sì, signor Horward. Noi pirati non esitiamo mai e andiamo sempre a fondo. Se sarà una scialuppa a vapore, v’incaricherete voi di metterla subito sotto pressione, così ci rimorchierete subito al largo dopo fatto il colpo.
– Avete fiducia che riesca?
– Piena, completa, signor Horward. Fra due ore Tremal-Naik e Darma saranno a bordo del Re del Mare, ve lo dico io.
– Siete ammirabili voi altri, signor Yanez.
– Siamo abituati a correre tutti i rischi, – rispose il portoghese. – D’altronde anche voi americani avete nelle vene del buon sangue.
– Oh!
Una voce che era partita dal praho o dalla scialuppa, poichè l’oscurità non permetteva ancora di ben distinguere che cosa fosse, aveva gridato:
– Chi vive?…
– Amici che vanno a rifornire di viveri il forte di Macrae, – rispose Yanez.
– Abbiamo l’ordine di proibire lo sbarco a tutti fino all’alba.
– Chi ha dato quest’ordine?
– Il capitano Moreland, che si trova nel fortino in attesa che la sua nave si sia rifornita di carbone.
– Aspetteremo l’alba presso di voi, – rispose Yanez.
Poi, volgendosi verso il macchinista americano ed a Sambigliong che gli stava presso, disse a mezza-voce:
– Non sapevo che vi fosse una nave in queste acque. Il capitano Moreland! Chi sarà costui?
– Qualche inglese ai servigi del rajah di Sarawak, senza dubbio, – rispose l’americano.
– Priveremo la nave del suo capo, – disse Sambigliong. – Lo faremo prigioniero assieme alla guarnigione del fortino.
– Adagio, mio caro, – disse Yanez. – Vi possono essere in quel fortino più uomini di quello che crediamo e noi dobbiamo giuocare d’astuzia. D’altronde nulla sospetteranno, ora che abbiamo fermata la scialuppa che era incaricata di approvvigionarlo.
– Una vera fortuna, signor Yanez, – disse l’americano.
– Non dico il contrario… Là, vedete se mi ero ingannato? È una scialuppa a vapore e non già un praho. Ragazzi, tenetevi pronti.
– Accosta! – gridò in quel momento una voce rauca, – o vi scarico addosso un po’ di mitraglia.
– E assassinereste dei camerati, – rispose Yanez. – Vi avverto intanto che io sono un ufficiale del rajah e non un dayako.
L’uomo che aveva formulata quella minaccia brontolò qualche parola che non giunse fino a Yanez. La scialuppa a vapore era ormai tanto vicina da distinguerla benissimo, essendo illuminata da un grosso fanale di marina appeso sulla cima del fumaiolo.
Era una barcaccia lunga una decina di metri, larga di fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e sembravano indiani dai turbantini che portavano in testa.
– Gettate una gomena, – disse Yanez, mentre i suoi malesi alzavano i remi e afferravano i parangs tenendoli nascosti sotto i banchi.
Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito afferrata da Sambigliong che era passato a prora.
– Pronti, – sussurrò Yanez ai suoi uomini. – Quando udrete il mio comando, balzate sopra il bordo.
Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso alla barcaccia. Yanez e l’americano in un momento passarono a bordo della seconda.
– Chi è che comanda qui? – chiese il portoghese, con voce imperiosa.
– Sono io, signore – rispose un indiano che portava sulle maniche i galloni di sergente, salutando. – Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di mitragliarvi ma il capitano Moreland ha dato ordini severissimi e non posso permettervi d’approdare.
– Dov’è il capitano?
– Nel fortino.
– E la sua nave?
– Alla foce del Redjang, dinnanzi la bocca settentrionale.
– I prigionieri sono sempre nel fortino?
– Quell’indiano e quella fanciulla?
– Sì, – disse Yanez.
– Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave del capitano avrà compiuta la sua provvista di carbone, li trasporterà a Sarawak.
– Che cosa si teme?
– Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem. Corre voce che si siano messi in mare contro l’Inghilterra e il rajah.
– Baie, – disse Yanez. – Sono tutti fuggiti al settentrione di Borneo. Quanti uomini hai qui?
– Otto, signor tenente.
– Arrenditi!
Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore, il portoghese con una mossa fulminea l’aveva afferrato colla destra per la gola, mentre colla sinistra gli aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva alla cintura.
Vedendo quell’atto, i dodici tigrotti che formavano l’equipaggio della scialuppa, avevano scavalcata rapidamente la murata scagliandosi contro gli altri indiani coi parangs alzati.
– Chi oppone resistenza è uomo morto! – tuonò Yanez.
Il sergente, che doveva essere un uomo di fegato, con una brusca mossa cercò di sottrarsi alla stretta del portoghese e di estrarre la sciabola, mentre gridava ai suoi uomini:
– Prendete le carabine!
L’americano Horward che gli si era posto dietro, fu pronto ad afferrarlo a mezzo corpo ed a farlo ruzzolare sul ponte con uno sgambetto dato a tempo.
Vedendo il loro sergente a cadere e che i pirati stavano per far uso dei parangs, l’equipaggio non osò muoversi.
– Sambigliong, lega il sergente e voi altri disarmate tutti e calateli sotto il ponte bene assicurati.
L’ordine fu subito eseguito senza che gli indiani opponessero resistenza.
– Ora, – continuò il portoghese, sedendosi presso il sergente che era stato legato solidamente alla murata, – se ti preme salvare la pelle, discorriamo un po’. Sarebbe inutile che tu ti ostinassi a tacere, conoscendo noi il modo di far urlare anche i muti. Quanti uomini vi sono nel fortino di Macrae?
– Cinquanta, compreso il capitano ed un tenente del rajah.
– Chi è quel sir Moreland?
– Si dice che prima fosse un tenente della marina anglo-indiana.
– Che cosa è venuto a far qui?
– Non lo so, signore; pare che siasi unito al rajah di Sarawak e che goda anche la protezione del governatore di Labuan. So che comanda una bella nave a vapore, formidabilmente armata.
– È un inglese dunque?
– Così si dice, – rispose il sergente, – quantunque sia di carnagione molto bruna.
– Che bandiera batte la sua nave?
– Quella del rajah di Sarawak.
– Quale distanza corre da qui al fortino?
– Appena un miglio.
– Tu avrai salva la vita e dieci sterline di regalo. Signor Horward, voi rimarrete qui con due dei nostri e nel frattempo accenderete la macchina. Ne avremo bisogno fra alcune ore. Gli altri s’imbarchino con me.
Poi, rivolgendosi nuovamente al sergente:
– Si trova su un’altura il fortino, è vero?
– Di fronte a noi, – rispose l’indiano. – È la sola altura che vi sia su questa costa.
– Benissimo: voi rimarrete prigionieri fino al nostro ritorno e, se rimarrete tranquilli, vi lasceremo poi liberi. Signor Horward buona notte e buona guardia.
– Buona fortuna, capitano Yanez, – rispose l’americano.
Il portoghese ridiscese nella scialuppa con Sambigliong e nove uomini, lasciandone due all’americano e diede il segnale della partenza.
L’imbarcazione si staccò dalla barcaccia e filò verso la spiaggia che si trovava a tre o quattrocento passi e contro cui rompevasi, con cupo fragore, la risacca, risalendo per un buon tratto la spiaggia.
Gli undici uomini sbarcarono senza alcun inconveniente, tirarono in secco la scialuppa, poi deposero i parangs, armandosi invece delle carabine e caricandosi di ampie ceste che parevano piuttosto pesanti.
– Siete pronti? – chiese Yanez.
– Sì, capitano, – risposero tutti.
– Lasciate parlare me solo e tenetevi pronti a tutto.
– Saremo muti.
– Avanti, miei prodi. Le tigri di Mompracem non temono i mammalucchi del rajah di Sarawak.
Essendosi in quel frattempo diradato un po’ il velo nebbioso che nascondeva le stelle, Yanez aveva subito scorta l’altura su cui trovavasi il fortino, essendo il paese circostante tutto piano. Il drappello si mise in marcia nel più profondo silenzio. Yanez rischiarava la via con una grossa lanterna, che aveva tolta dalla scialuppa e che dovevasi scorgere a una grande distanza fra l’oscurità della notte.
Scoperto al di là delle dune una specie di sentiero che serpeggiava fra delle piantagioni d’indaco e che pareva si dirigesse verso l’altura, gli undici uomini vi s’inoltrarono camminando in fila indiana.
Non avevano scelto male la direzione, perchè venti minuti dopo si trovavano alla base della minuscola collina, alta appena duecento metri, sulla cui cima scorgevasi confusamente una specie di torricella con intorno delle case e delle cinte.
– Se non dormono o non sono ciechi devono aver scorta la mia lampada, – disse Yanez. – Mio caro signor Moreland, vedrai come ti giuocheranno le tigri di Mompracem! Poi Sandokan si occuperà della tua nave, giacchè ne hai una.
Un sentieruzzo che s’innalzava a zig-zag conduceva al fortino.
Yanez, dopo d’aver accordato ai suoi uomini un momento di riposo, essendo quelle ampie ceste assai pesanti, cominciò a salire, tenendo la sciabola sguainata.
Il drappello era giunto già a metà costa, quando da uno spalto del fortino si udì una voce a gridare:
– Chi va là?
– Il tenente Farshon con cipai di Sarawak che portano viveri pel fortino e ordini pel capitano Moreland.
– Attendete.
Si udirono delle voci, poi si videro parecchi lumi brillare sulle palizzate e finalmente tre uomini che parevano dayaki, quantunque indossassero il costume indiano e armati di carabine, mossero incontro al drappello. Uno di essi portava una torcia.
– Da dove venite, signor tenente? – chiese uno dei tre.
– Da Kohong, – rispose Yanez. – È ancora sveglio il capitano Moreland?
– Ha finito or ora di cenare assieme ai prigionieri.
– Si mangia molto tardi a Macrae.
– Il capitano è tornato dopo il tramonto, questa sera.
– Conducetemi subito da lui; ho delle gravi notizie da comunicargli.
– Seguitemi, signor tenente.
Yanez gli si mise dietro, mormorando fra i denti:
– Ecco una cosa che non avevo prevista. Se Tremal-Naik o Darma, vedendomi comparire improvvisamente, mandassero un grido di sorpresa? Mio caro Yanez sta’ in guardia. La carta che stai giuocando è terribile.
Il drappello varcò un ponte levatoio, attraversò due cinte e un vasto cortile e giunse dinanzi ad un fabbricato piuttosto vasto, costruito in muratura e sormontato da una torricella. Dalle finestre del pianterreno uscivano due sprazzi di luce, essendo le imposte ancora aperte.
– Venite, tenente: il capitano è là, – disse uno dei tre dayaki. – Devo dare ricovero ai vostri uomini?
– No, per ora: lasciateli qui nel cortile.
Ringuainò la sciabola, si assicurò le pistole dentro la fascia, scambiò con Sambigliong un rapido cenno e affettando una grande calma entrò in una saletta illuminata da una lanterna cinese, di carta oliata, dove dinanzi ad una tavola riccamente imbandita si trovavano tre persone: un capitano di marina, Tremal-Naik e Darma.
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