Da due giorni, la squadra dei filibustieri aveva lasciate le acque di Maracaybo, navigando di conserva per essere pronta a dare battaglia alle tre fregate spagnole, che dovevano battere quel mare e che non avevano ancora preso parte al combattimento, quando la sera del terzo, mentre si trovava a una cinquantina di miglia dall’isola d’Oruba, s’alzò improvvisamente sull’orizzonte una nuvola nerissima, che non prometteva nulla di buono,.
L’atmosfera già da qualche ora aveva acquistata una trasparenza straordinaria, segno infallibile d’un prossimo uragano, ed il mare, quantunque apparisse tranquillo, esalava un odore strano, come se le acque si fossero improvvisamente corrotte.
Era la stagione degli uragani e dei tremendi maremoti, o razzi di mare, prodotti dai furiosi venti di ponente e che di frequente sconvolgono le Antille, grandi e piccole, causando disastri immensi.
Al sentire quell’odore caratteristico e al vedere il sole tramontare più rosso del solito, una certa inquietudine si era impadronita di tutti gli equipaggi della squadra che conoscevano per prova la violenza delle tempeste del mar dei Caraibi e dell’immenso golfo del Messico.
«Si prepara di certo una brutta notte» disse Carmaux a Wan Stiller, che guardava attentamente le prime stelle alzarsi sull’orizzonte, e che apparivano più grandi del consueto.
«Cattivo odore» rispose l’amburghese, fiutando a più riprese l’aria.
«Odor di bufera, compare.»
«Il capitano Morgan ha avuta una buona idea di farci passare su questa fregata. È molto più solida della sua Folgore , che ha il cassero sconquassato e l’alberatura danneggiata.»
«Si direbbe che presentiva la bufera» disse Carmaux.
«Abbiamo però una mina nella stiva.»
«Una mina?»
«I prigionieri spagnoli, che potrebbero approfittare della tempesta per giuocarci qualche brutto tiro.
«Se io fossi stato il capitano, li avrei sbarcati assieme agli altri. Già temo che non caverà da essi grossi riscatti.»
«Vi sono fra loro dei pezzi grossi, amico Carmaux.»
«Il capitano Valera forse?»
«Ah!»
«Che hai, amburghese?»
«Hai mai chiesto a costui come è riuscito ad imbarcarsi sulla squadra spagnola, mentre noi l’avevamo lasciato nei sotterranei del convento? Non hai trovato strana la sua presenza su questa nave?»
«Infatti, è vero» disse Carmaux, che era stato colpito dalla riflessione dell’amburghese. «Perché quell’uomo invece di mettersi in salvo si è unito alla squadra? Che si trovasse sulla fregata anche il governatore?…»
«Di cui era l’anima dannata e l’amico intimo, come disse don Raffaele» aggiunse Wan Stiller. «Vorrei vederci un po’ chiaro in questa faccenda.»
«Ed io non meno di te, amburghese» disse Carmaux.
«E il diavolo ce lo ha mandato qui, dove si trova la figlia del Corsaro Nero!»
«Teniamolo d’occhio, compare. Il nemico peggiore per la signora di Ventimiglia, dopo il conte di Medina, è quello.»
Uno scricchiolìo si era fatto udire in alto. Le vele di pappafico e di contrapappafico giravano, sbattendo fortemente, sotto le prime raffiche.
Morgan era comparso in quel momento sul ponte, con Pierre le Picard e la signorina di Ventimiglia.
«Tempesta» disse volgendosi verso la fanciulla, che guardava verso ponente, dove la nuvola s’alzava rapidissima, tinta dagli ultimi riflessi del tramonto. «Non avrete paura, signora?»
«Sono la figlia d’un uomo di mare» rispose Jolanda, con voce tranquilla.
«Per quanto violenta sia, noi potremo reggere alle onde e alla furia dei venti» disse Morgan. «Sono le piccole navi della squadra che si troveranno a mal partito e non potranno seguirci. Pierre le Picard, prendi tutte le disposizioni necessarie per far fronte all’uragano. Non lasciamoci sorprendere. Temo qualche razzo di mare.»
«Che cos’è?» chiese Jolanda.
«È un’onda mostruosa che si solleva improvvisamente, nell’epoca delle grandi maree, ed alla quale difficilmente le navi possono resistere. Fra il luglio e l’ottobre si ripete ogni anno due o tre volte e cagiona sempre danni immensi, specialmente sulle spiagge delle isole. Talvolta quel cavallone s’alza, quando il mare è quasi tranquillo, s’avvicina alle coste così lento che niuno crederebbe potesse causare incomodo alcuno. Quando però giunge a quattro o cinquecento passi, s’alza fulmineo, come sollevato da una forza misteriosa e piomba così tremendo, che spazza via città e borgate e trascina le navi, ancorate nelle rade, attraverso le campagne dove le lascia in secco. Qualche volta invece compare durante gli uragani e allora è più tremendo.»
Un rombo formidabile, che si ripercosse lungamente nel seno della nuvola nera e che parve lo scoppio simultaneo d’una mezza dozzina di grossi pezzi d’artiglieria, interruppe la loro conversazione.
Quasi subito si udirono per l’aria dei lunghi fischi stridenti, come se mille correnti s’incrociassero, provenienti da varie direzioni, e l’alberatura della fregata fu scossa dalla cima degli alberetti ai travi inferiori.
Fra i fragori delle prime ondate, i fischi del vento e le note stridule dei mastri e dei contro-mastri, si udì la voce di Carmaux a gridare:
«Attenti alle gabbie e che la fortuna ci protegga!»
Il mare montava a vista d’occhio, mentre la nuvola nera copriva tutta la vôlta celeste, con rapidità fantastica, intercettando la luce degli astri.
Sulle acque del mar dei Caraibi era piombata una profonda oscurità, che i due grossi fanali di poppa della fregata non riuscivano a rompere.
Da ponente, i fischi continuavano a succedersi, seguìti da raffiche sempre più impetuose, che facevano crepitare le vele. Le onde vi facevano eco, muggendo sordamente.
«Sai che cosa mi ricorda questa notte?» chiese Carmaux, che stava alla ribolla, essendo uno dei migliori piloti della squadra filibustiera.
«Lo indovino» rispose l’amburghese, che lo aiutava in quella gravosa manovra. «La notte in cui il Corsaro Nero abbandonava fra le onde, sola, su una scialuppa, la madre della signora Jolanda, la figlia di quel maledetto duca.»
«Sì, amburghese» rispose Carmaux, con voce commossa. «Anche allora il mare montava e la tempesta ci minacciava. Chi avrebbe detto che un giorno, il Corsaro avrebbe ritrovata la fanciulla che pur tanto aveva amata, regina d’una tribù di antropofaghi caraibi e che l’avrebbe sposata?»
«E come piangeva quella notte il Corsaro!…»
Un muggito spaventevole, che si fece udire al largo, soffocò le ultime parole dell’amburghese.
«È il razzo di mare che si forma» disse Carmaux. «Che cosa accadrà delle piccole navi della squadra? Badiamo che non ci piombi di traverso.»
La fregata teneva testa alle onde, che già l’assalivano con furore e la scuotevano poderosamente, non ostante la sua mole relativamente enorme.
I gabbieri avevano già ammainato tutte le vele basse, non conservando che le gabbie ed i fiocchi, pure l’alberatura subiva ancora scosse violentissime, quando le raffiche la investivano.
Le altre navi cominciavano già a disperdersi. Si vedevano i loro fanali brillare in varie direzioni, alcuni verso il sud, altri verso levante, come se fuggissero dinanzi all’uragano. Morgan d’altronde, a mezzo di razzi, aveva loro segnalato di rifugiarsi dove meglio credevano, ben comprendendo che non avrebbero potuto seguirlo nella sua rotta.
A mezzanotte tutte erano scomparse. Certo avevano cercato di rifugiarsi verso le numerose isole che coprono le spiagge venezuelane, dove potevano trovare ottime rade.
La fregata però non aveva ancora deviato dalla sua rotta, e proseguiva verso il settentrione per raggiungere, se non la Tortue, almeno la Giamaica, dove non poteva correre pericolo alcuno, essendo colonia inglese ed aperta alle navi filibustiere che avevano ottenuto patenti di corsa contro gli spagnoli.
Il mare diventava sempre più spaventoso e le raffiche aumentavano di violenza. Il vento di ponente si scatenava, acquistando la forza prodigiosa che suole raggiungere nelle grandi tempeste, allorquando riesce a spostare perfino i grossi cannoni da trentadue delle batterie esposte alla sua furia.
Tuoni assordanti rimbombavano in seno alla nube nera, con un crescendo terribile, coprendo sovente la voce dei mastri e dei contro-mastri, mentre lampi abbaglianti si succedevano senza posa.
Morgan, quantunque prevedesse che la bufera avrebbe ben presto raggiunta la massima violenza, mostrava una calma ed una tranquillità d’animo ammirabile. Se era un formidabile uomo di guerra, era pure uno dei più valenti marinai dell’epoca.
Ritto sul ponte di comando, col portavoce in mano, impartiva gli ordini senza che si sentisse nel suo accento alcuna vibrazione che dimostrasse la menoma apprensione.
Jolanda, che si era rifiutata di scendere nella sua cabina, stava presso di lui, aggrappata alle traverse dal ponte, sfidando intrepidamente gli spruzzi delle onde che giungevano talvolta fino a quel punto elevatissimo della fregata, e guardando con curiosità, esente da qualsiasi timore, i baratri che si formavano fra i cavalloni ed entro i quali la grossa nave affondava con mille paurosi scricchiolii.
«Non avete paura?» le chiedeva sovente Morgan.
«Sono la figlia d’un uomo di mare» rispondeva ella, sorridendo. «Su questi mari mio padre ha sfidato gli uragani. Perché non debbo sfidarli anch’io?»
Verso le due del mattino, un clamore assordante s’alzò in mezzo alle onde. Pareva che migliaia e migliaia di persone urlassero tutte insieme e che invocassero soccorso.
Morgan era diventato un po’ pallido, e la sua fronte si era aggrottata.
«Che cos’è?» chiese Jolanda.
«Il razzo di mare che si forma» rispose il filibustiere.
A un tratto, parve che il cielo s’incendiasse da levante a ponente. Alla notte tenebrosa successe una vera notte di fuoco.
Le onde parevano avvampare, come se nel loro seno si fossero aperti centinaia di vulcani sottomarini.
I lampi si succedevano ai lampi, e così vividi e intensi, che i marinai si sentivano abbacinati. Una vera pioggia di folgori cadeva sul mare e se ne vedevano perfino di quelle a due ed anche a tre branche.
L’equipaggio della fregata guardava con terrore quello spettacolo, cogli occhi socchiusi. Anche Jolanda, per la prima volta, sembrava scossa.
«Signor Morgan!…» esclamava. «Che cosa succede?»
«Attraversiamo una meteora di fuoco, signora. Scendete nel quadro!… Scendete!…»
In quel momento si udì una voce a gridare:
«Lassù, sul mostravento del maestro!…»
Tutti apersero gli occhi, guardando sulla cima dell’alberatura.
Una sfera, non più grossa di un arancio, che pareva incandescente e proiettava una luce azzurrognola, girava intorno al mostravento del contrapappafico, come se cercasse di posarsi sulla punta della banderuola.([4])
D’improvviso, scoppiò con una detonazione secca, che parve prodotta dal frangersi d’una granata, poi una lingua di fuoco serpeggiò lungo l’albero, avvolgendo le sartìe ed i paterazzi e raggiunse la gran gabbia, spandendo all’intorno un acuto odore di zolfo.
Un urlo di spavento si era alzato fra i filibustieri della fregata.
«Al fuoco!… Al fuoco!…»
La gran gabbia si era incendiata e le fiamme, alimentate dal vento, si erano allungate verso la vela latina dell’albero di trinchetto.
Morgan stava per slanciarsi giù dal ponte di comando, seco trascinando la figlia del Corsaro, quando udì Pierre le Picard a urlare:
«Anche la latina ha preso fuoco ed il razzo di mare romba al largo!…»
Morgan soffocò a stento una imprecazione, per non allarmare la fanciulla. Non poté però trattenere un grido di furore.
«È la maledizione che piomba su noi!»
Riacquistando però prontamente il suo sangue freddo, aiutò Jolanda a scendere la scala, che le onde volta a volta attraversavano.
«Signora» le disse con voce un po’ commossa, guardandola negli occhi. «Morgan non è uomo da lasciarsi abbattere; abbiate fiducia in me.»
«Non ho paura» rispose Jolanda. «So che uomo siete.»
«Lasciate il ponte, signora. Siamo fra le onde ed il fuoco, ed i pericoli non si possono sempre prevedere.»
«Vi obbedisco, capitano Morgan.»
«Wan Stiller, a te la signora!…» gridò il filibustiere, vedendo passare l’amburghese con dei buglioli in mano.
Guardò la fanciulla che si allontanava, stretta al braccio del filibustiere, sempre tranquilla, come se nessun pericolo la minacciasse, poi si slanciò attraverso la tolda, dove regnava una viva confusione, gridando con voce stentorea:
«Alle pompe!…»
La fregata si era messa alla cappa, colle sue vele della mezzana, per fuggire dinanzi all’uragano che la investiva con forza terribile, trascinandola verso levante. L’albero maestro ed il trinchetto erano entrambi in fiamme.
I paterazzi, le sartìe, le manovre correnti, i pennoni e le coffe bruciavano come fiammiferi, essendo imbevuti di catrame e le vele lasciavano cadere sulla coperta lembi di tela accesa e scintille in gran numero.
L’alberatura poteva considerarsi come perduta, pericolo gravissimo in mezzo ad una bufera, che poteva durare molte ore. Senza le vele la nave era priva d’ogni stabilità.
Al comando di Morgan, i corsari avevano messe in opera la pompa di prora e quella di poppa, ma la manovra era tutt’altro che facile, colle onde che ad ogni istante invadevano la coperta, minacciando di spazzare via gli uomini, che si erano collocati alle traverse.
I getti, d’altronde, non potevano avere grande efficacia in alto. Gli attrezzi, anche bagnati, bruciavano egualmente e, lasciando cadere ad ogni istante od un pezzo di pennone infiammato, od un lembo di tela ardente, od un paterazzo, esponevano gli uomini ad un continuo pericolo.
Per di più, essendo il vento instabile, vi era la probabilità che anche l’albero di mezzana prendesse fuoco.
Tuttavia quei fieri uomini, abituati da lunga pezza a tutti i pericoli, lottavano disperatamente. Alcuni avevano già assalito i due alberi colle scuri, per farli cadere in mare, quando Morgan, vedendo che non bastavano, diede l’ordine di chiamare in coperta i prigionieri spagnoli, che si trovavano racchiusi nella stiva e che, vedendo quei bagliori sinistri, urlavano spaventosamente.
Erano una trentina, fra cui il capitano Valera e don Raffaele.
Udendo però quel comando, Carmaux aveva fatto un salto.
«Ecco un’imprudenza che noi possiamo pagare cara» aveva detto a Wan Stiller, che lo aveva raggiunto. «Dei nemici in coperta, quando il fuoco è a bordo!… Compare, apri gli occhi!…»
«Credo che tu abbia torto» rispose l’amburghese. «La loro pelle vale la nostra e ci terranno a salvarla.»
«Gli altri sì, ma ve n’è uno che sarebbe ben lieto di mandarci tutti in fondo al mare. Apri gli occhi, compare.»
«Di chi sospetti?»
«Del capitano Valera.»
Un urlo scoppiato a prora li fece rabbrividire.
«Largo!… Cade il maestro!…»
Una turba di gente passò a corsa sfrenata fra di loro, spingendoli verso le murate. Erano gli uomini delle pompe, che si salvavano sul cassero, non ostante le grida ed i sagrati di Pierre le Picard e di Morgan.
Nel medesimo istante si udirono i gabbieri del bompresso ad urlare:
«Bada, pilota!… Il razzo monta!…»
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