Carmaux, che pareva in preda ad una vivissima agitazione, stette qualche istante silenzioso guardando il piantatore, poi disse:
«L’odio fra il Corsaro Nero ed il duca di Wan Guld risale circa a venticinque anni fa e non ebbe principio in America, bensì nelle Fiandre. I signori di Ventimiglia erano allora in quattro fratelli e combattevano fra le truppe dei duchi di Savoia, alleati della Francia, contro la Spagna. Belli tutti, valorosi, audaci, godevano fama d’essere i più nobili gentiluomini del Piemonte. Un giorno essi vennero assediati in una rocca fiamminga da un numero strabocchevole di spagnoli, assieme al loro reggimento che era comandato dal duca di Wan Guld. Resistevano tenacemente da alcune settimane, combattendo come leoni, quando una notte il nemico entrava nella rocca a tradimento e se ne impossessava, dopo d’aver ucciso uno dei quattro fratelli che era accorso a contrastargli il passo. Un uomo aveva venduta la rocca ed aveva aperte le porte: quel miserabile era il duca di Wan Guld.»
«Avevo udito a parlare vagamente di quella storia» disse don Raffaele. «Continuate.»
«Il duca, per sfuggire all’ira dei signori di Ventimiglia, aveva chiesto al governo spagnolo un posto nelle colonie dell’America ed era stato nominato governatore di questa città.»
«Era il prezzo del tradimento» disse l’amburghese, picchiando il pugno sulla tavola.
«Il duca» proseguì Carmaux, «credeva di essere stato dimenticato dai signori di Ventimiglia, ma s’ingannava. Non erano ancora trascorsi sei mesi da che aveva assunto il suo posto, quando comparvero alla Tortue tre navi, montate dai tre fratelli piemontesi. Erano il Corsaro Nero, il Verde ed il Rosso, i quali avevano giurato di non lasciar più pace al traditore e di vendicare il fratello assassinato nella rocca.»
«Conosco il seguito» disse don Raffaele. «Dopo varie vicende, il duca riusciva a catturare ed impiccare il Corsaro Verde e poi il Rosso, mentre il Nero, senza saperlo, s’innamorava della figlia del suo mortale nemico, che egli credeva fosse una principessa fiamminga.»
«Sì, è così» rispose Carmaux. «E quando il Corsaro Nero, che aveva giurato, sui cadaveri dei fratelli, di sterminare senza misericordia tutti coloro che portavano il nome del traditore, seppe che la fanciulla che amava era la figlia del duca, pur piangendo, l’abbandonò sola fra le onde in una scialuppa, quando la tempesta stava per scoppiare sul golfo del Messico. Dio però vegliava sulla fanciulla e la scialuppa, invece di venire assorbita dai gorghi, andava a naufragare sulle coste meridionali della Florida, abitate da una tribù di Caraibi, i quali, sedotti dalla bellezza meravigliosa della naufraga, invece di divorarla la proclamarono la loro regina.»
«Ed il Corsaro uccise il duca, è vero?» chiese don Raffaele.
«No, perché venuti all’abbordaggio alcuni mesi dopo, appunto nelle acque della Florida, il vecchio traditore, piuttosto di cadere vivo nelle mani del suo nemico, dava fuoco alle polveri inabissandosi colla propria nave fra i baratri del Golfo del Messico.»
«Il Corsaro era già a bordo di quella nave?»
«Sì, e anche noi» disse Carmaux, «avevamo già espugnato il vascello del duca, quando l’esplosione ci scaraventò in mare assieme al Corsaro. Salvatici su alcuni rottami, per una fortunata combinazione, due giorni dopo approdavamo sulle coste della Florida, dove venivamo fatti prigionieri dai sudditi della duchessa, la regina dei Caraibi. Se non ci mangiarono fu perché la figlia di Wan Guld ci aveva riconosciuti a tempo e perché non si era spenta ancora in lei l’affezione profonda che nutriva per il Corsaro.»
«E non si vendicò?» chiese don Raffaele.
«Tutt’altro, perché una sera s’imbarcarono insieme su una scialuppa e per molti anni non si seppe più nulla di loro. Più tardi un filibustiere italiano ci narrò come il Corsaro e la giovane duchessa erano stati raccolti al largo da una nave inglese in rotta per l’Europa e condotti in Piemonte, dove si erano sposati.
«La loro felicità, come forse avrete saputo anche voi, fu breve. Dieci mesi dopo, la duchessa moriva dando alla luce una bambina e l’anno seguente il Corsaro, che non poteva rassegnarsi alla perdita della sua compagna, si faceva uccidere sulle Alpi, combattendo contro i francesi che avevano invasa la Savoia e che minacciavano il Piemonte.»
«Sì, è così» disse don Raffaele. «Il governatore di Maracaybo era stato esattamente informato.»
«Perché s’interessava tanto del Corsaro?» chiese Carmaux con sorpresa.
«Perché aveva ricevuto da suo padre una terribile missione.»
«Quale?»
«Di vendicarlo.»
«Ma chi era dunque suo padre?»
«Il duca di Wan Guld.»
Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Carmaux e di Wan Stiller. Entrambi erano balzati in piedi, in preda ad una vivissima agitazione.
«Il duca ha lasciato un figlio!» avevano esclamato.
«Sì, un figlio avuto da una marchesa messicana ed a cui fu imposto il nome di conte di Medina e Torres; non potendo assumere quello del padre.»
«Ed è lui il governatore di Maracaybo?» chiese Carmaux.
«Sì, fu lui a far prigioniera Jolanda di Ventimiglia, la figlia del Corsaro Nero.» disse il piantatore «Dai suoi agenti, che aveva mandati in Italia per spiare il Corsaro e, possibilmente, anche per ucciderlo, ciò che sarebbe certo a quest’ora avvenuto, egli seppe che la giovane si era imbarcata su una nave olandese in rotta per l’America, onde entrare in possesso dei beni immensi lasciati dal duca».
«Mandò due navi poderose furono mandate a sorvegliare i passi delle Antille, coll’incarico di catturare il veliero olandese, temendo il conte di Medina che la figlia del Corsaro si recasse prima alla Tortue a chiedere l’appoggio dei filibustieri, per riavere i beni che il governo spagnolo, dietro istigazione del governatore di Maracaybo, aveva sequestrati.»
«E perché li aveva sequestrati?»
«Per vendicarsi del male che aveva fatto il Corsaro Nero alle colonie spagnole» disse don Raffaele.
«E chi amministra quei beni?» chiese Carmaux.
«Il bastardo del duca, il quale finirà poi per trattenerseli; e quei possessi, se non lo sapete, valgono una decina di milioni.»
«E non li ha mai reclamati la duchessa di Wan Guld, la moglie del Corsaro?»
«Certo, ma senza risultato.»
«Per cento milioni di aringhe salate!» esclamò Carmaux. «Ora comprendo, un po’ meglio di prima, perché quel briccone di governatore ci teneva a fermare la figlia del Corsaro ed averla nelle sue mani. Mio caro don Raffaele, ecco una bella occasione per salvare la vostra pelle e anche le vostre sostanze. M’impegno io di farvele rispettare dai miei camerati, ma bisogna che voi ci fate trovare la fanciulla. «Se il governatore non l’ha condotta con sé…»
«Di questo son certo» disse il piantatore.
«Allora deve essere ancora qui. Dove? A voi il dircelo.»
Don Raffaele era rimasto silenzioso, colla fronte stretta fra le mani, come se pensasse profondamente. Ad un tratto si alzò dicendo:
«Sì, non può essere stata affidata che al capitano Valera.»
«Chi è costui?» chiese Carmaux.
«Un intimo amico del conte di Medina e un po’ anche la sua anima dannata.»
«Dove abita?»
«Nel convento dei Carmelitani.»
«Non sarà fuggito?»
«Si sarà invece nascosto nei sotterranei che sono immensi e che si dice comunichino colla laguna.»
«Che uomo è?»
«Un valoroso, capace di difendere a lungo la preda affidatagli.»
«Non perdiamo tempo» disse Carmaux. «Se i sotterranei comunicano col lago, quel furfante potrebbe questa sera prendere il largo colla fanciulla.»
«Avvertiamo il capitano» disse Wan Stiller.
«E prendete con voi degli altri uomini» disse don Raffaele.
«Siamo già in troppi noi due» rispose Carmaux. «Sappiamo maneggiare la spada come veri gentiluomini, è vero Wan Stiller?»
«Siamo allievi del Corsaro Nero, la prima e la più famosa lama della Tortue» rispose l’amburghese.
«Su in cammino» disse Carmaux.
Vuotarono l’ultima bottiglia e uscirono.
Due filibustieri carichi di vasi di argento e di arredi sacri, che avevano probabilmente rubati in qualche chiesa vicina, passavano in quel momento dinanzi alla taverna.
«Ohe, camerati» gridò loro Carmaux. «Avvertite senza ritardo il capitano Morgan che siamo sulle tracce della figlia del Corsaro Nero e che non s’inquieti se tarderemo a tornare.»
«Buona fortuna, Carmaux» risposero i due corsari, allontanandosi velocemente.
«Guidateci don Raffaele e non dimenticatevi che la vostra vita sta nelle mani della signora di Ventimiglia.»
«Lo so» rispose il piantatore, con un sospiro che veniva proprio dal cuore, «e farò il possibile per salvarla.»
Si diresse verso una viuzza che doveva essere qualche scorciatoia, aperta fra una piantagione d’indaco e di canne da zucchero, facendo segno ai due filibustieri di seguirlo.
Dopo aver percorsi parecchi viottoli che separavano le ultime case della città dalle piantagioni e dalla laguna, don Raffaele si arrestò dinanzi ad un vecchio palazzo annerito dal tempo e che era sormontato da due torrette munite di campane.
«Il convento dei Carmelitani» disse.
«Sembra che sia stato lasciato dai suoi abitanti» disse Carmaux, che aveva osservato che la porta era aperta.
«Tutti sono fuggiti. Voi sapete che i corsari inglesi non risparmiano i nostri frati.»
«È vero» rispose Wan Stiller.
«Entriamo?» chiese il piantatore.
«Perbacco!» esclamò Carmaux. «Voglio vedere quel bravo capitano, se ci sarà ancora.»
«Sono certo che non è fuggito.»
Spinsero la porta ferrata che era socchiusa e si trovarono in una sala vastissima, in una specie di chiesa con alcuni altari e molte torce.
Quantunque i filibustieri di Morgan non fossero giunti fino là, vi regnava un gran disordine. Banchi e sedie erano stati gettati sossopra; gli altari erano stati frettolosamente spogliati di quanto avevano di più prezioso ed in terra si vedevano quadri d’immagini sacre e crocifissi.
«È vasto questo monastero?» chiese Carmaux.
«Assai» rispose don Raffaele. «Ritengo però inutile frugare le sale e le celle. Se il capitano si trova ancora qui, si sarà nascosto nei sotterranei.»
«Dove si trovano?»
Don Raffaele indicò un angolo della chiesa:
«Sotto quella pietra.»
«Che abbia dei compagni il vostro capitano?»
«Lo ignoro.»
«Ah! diavolo!» esclamò Carmaux. «Forse siamo stati imprudenti a non prendere con noi un rinforzo! Che cosa ne dici, amburghese?»
«Dico che siamo solidi e ben armati» rispose Wan Stiller, «e che non è questo il momento di rimandare l’impresa.»
«Tu parli come un libro stampato, compare. Giacché abbiamo cominciato, checché debba succedere, dobbiamo condurlo a termine.»
Raccolse da terra un grosso cero, subito imitato dall’amburghese, l’accese e si diresse verso l’angolo indicato dal piantatore.
«Spero, don Raffaele» disse, «che non ci attirerete in qualche agguato. Io andrò innanzi, ma il mio compagno vi terrà dietro colla spada in mano e vi avverto che quando vibra un colpo inchioda un uomo come uno scarafaggio.»
Il piantatore fece un cenno affermativo col capo e si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte.
Entro una specie di nicchia si vedeva una pietra circolare, fornita d’un anello di ferro, che pareva l’ingresso di una tomba. Ed infatti si vedevano delle lettere incise sulla lastra e anche uno stemma, che rappresentava due leoni rampanti su una fascia diagonale.
«Qui» disse il piantatore con voce soffocata.
Carmaux passò la canna dell’archibugio nell’anello e aiutato dall’amburghese levò e rovesciò la pietra.
Un tanfo di muffa e d’aria corrotta sfuggì dal foro, facendo indietreggiare i due corsari.
«Un rifugio punto profumato» disse Carmaux. «Possibile che quel capitano si sia rifugiato qui dentro?»
«Sì» disse il piantatore.
«Da chi lo avete saputo voi?»
«Dal governatore e dal padre superiore del monastero.»
«Sapete molte cose voi, don Raffaele. È stata una vera fortuna l’avervi incontrato quella sera del combattimento dei galli.»
«O una disgrazia?»
«Per voi forse, non certo per noi» disse Carmaux ridendo. «Orsù scendiamo.»
Una scaletta di pietra a chiocciola conduceva nei sotterranei del monastero. Carmaux snudò la spada, accese anche la torcia dell’amburghese, poi scese coraggiosamente, badando dove metteva il piede.
Don Raffaele lo seguiva brontolando; Wan Stiller veniva per ultimo col moschetto armato.
Dopo quindici gradini, i due filibustieri ed il piantatore si trovarono in una specie di cripta, sulle cui pareti, semi-murate, si vedevano dei feretri di pietra con degli stemmi e delle iscrizioni.
«Sono i sepolcri del monastero?» chiese Carmaux, facendo una smorfia.
«Sì» rispose don Raffaele.
«Il luogo è veramente poco allegro. Dove andiamo ora?»
«Entrate in quella galleria; conduce, ne sono certo, al rifugio del capitano Valera.»
«Sarà solo colla figlia del Corsaro Nero?»
«Io non posso saperlo, ve lo dissi già.»
«Andiamo, compare» disse Carmaux, volgendosi verso l’amburghese. «Non voglio che quest’uomo creda che noi abbiamo paura.»
Alzò la torcia per meglio vedere dove metteva i piedi e s’inoltrò risolutamente nel corridoio, tenendo la punta della spada diritta innanzi a sé. Anche in quel corridoio si vedevano numerose tombe e anche dei monumenti, rappresentanti per lo più dei cavalieri spagnoli con corazze, spade ed elmetti.
Dopo qualche minuto giunsero dinanzi ad un cancello di ferro semiarruginito, che non era chiuso.
Al di là si vedeva una seconda cripta e all’estremità, Carmaux e Wan Stiller scorsero, con viva gioia, una sottile striscia di luce che si proiettava dall’umido e nero pavimento del sotterraneo.
«Ci siamo» mormorò Carmaux, spegnendo rapidamente le due torce.
«Ho mantenuta la mia promessa?» chiese don Raffaele.
«Da gentiluomo» rispose Carmaux. «È ben là che noi troveremo la figlia del Corsaro Nero?»
«Ne son certo.»
«Le hanno scelta una ben brutta prigione.»
«Bisognava sottrarla alle vostre ricerche.»
«Compare Wan Stiller, preparati a battagliare» disse Carmaux. «Il capitano non si arrenderà senza lotta.»
«Di questo non ne dubito» disse don Raffaele. «È un valoroso.»
S’avvicinarono cautamente a quella striscia di luce e s’accorsero che sfuggiva al disotto di una porta.
Carmaux accostò un occhio alla toppa che era abbastanza larga e guardò attentamente, rattenendo il respiro.
Al di là, vi era una stanza piuttosto vasta, colle pareti coperte da tavoloni di legno e arredata semplicemente, non essendovi che alcuni scaffali e delle vecchie poltrone a bracciuoli in pelle di Cordova. Due uomini stavano seduti dinanzi ad una tavola che si trovava nel mezzo e parevano intenti a finire una partita agli scacchi.
Uno aveva l’aspetto d’un gentiluomo e indossava anche l’elegante costume dei ricchi spagnoli, l’altro sembrava un soldato, avendo indosso la corazza ed in testa un mezzo elmetto d’acciaio con una piuma.
«Non sono che due» disse Carmaux sottovoce, volgendosi verso l’amburghese.
«È aperta la porta?»
«Mi sembra.»
«Spingi ed entriamo. E le torce?»
«La stanza è illuminata e non ne avremo bisogno.»
«Avanti dunque.»
Carmaux spinse violentemente la porta, che non doveva essere stata assicurata internamente e s’inoltrò colla spada in pugno, dicendo con voce un po’ ironica: «Buona sera, signori!…»
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