Il rapimento del piantatore

Mentre venivano portati due altri galli, durando quei combattimenti delle notti intere talvolta, Carmaux, Wan Stiller ed il grasso don Raffaele, seduti intorno ad un tavolo collocato in un angolo della sala, trincavano allegramente, come vecchi amici, dell’eccellente Xeres a due piastre la bottiglia.

 Lo spagnolo, messo in buon umore dalle vincite fatte e da alcuni bicchieri, chiacchierava come una gazza, vantando le sue piantagioni, le sue raffinerie di zucchero, e facendo comprendere ai due avventurieri come egli fosse uno dei pezzi grossi della colonia.

 Ad un tratto s’interruppe, chiedendo a bruciapelo a Carmaux, che continuava a riempirgli il bicchiere:

 «Ma… señor mio, non siete della colonia voi?»

 «No, anzi siamo giunti solamente questa sera.»

 «Da dove?»

 «Da Panama.»

 «Siete venuti per cercare qui da occuparvi? Ho qualche posto sempre disponibile.»

 «Siamo gente di mare, signore, noi e poi non abbiamo intenzione di fermarci a lungo qui.»

 «Cercate qualche carico di zucchero?»

 «No» disse Carmaux, abbassando la voce. «Siamo incaricati di una missione segreta per conto dell’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama.»

 Don Raffaele sgranò tanto d’occhi e divenne leggermente pallido per l’emozione.

 «Signori» balbettò. «Perché non me lo avete detto prima?»

 «Silenzio e parlate a voce bassa. Noi dobbiamo fingerci avventurieri e nessuno deve sapere chi ci ha qui mandati» disse Carmaux con voce grave.

 «Siete incaricati di qualche inchiesta sull’amministrazione della colonia?»

 «No, di appurare una notizia che interessa assai l’illustrissimo signor presidente. Ah! Ora che ci penso, voi potreste dirci qualche cosa. Frequentate la casa del governatore?»

 «Prendo parte a tutte le feste ed a tutti i ricevimenti signor…»

 «Chiamatemi semplicemente Manco» disse Carmaux. «Dicevo che voi, che frequentate la casa del governatore, potreste darci qualche preziosa informazione.»

 «Sono tutto a vostra disposizione. Chiedetemi.»

 «Questo non è veramente il luogo» disse Carmaux, sbirciando gli spettatori. «Si tratta di cosa molto grave.»

 «Venite a casa mia, señor Manco.»

 «Le pareti talvolta hanno delle orecchie. Preferisco l’aria libera.»

 «Le vie sono deserte a quest’ora.»

 «Andiamo sulla calata, così noi saremo vicini alla nostra nave. Vi spiacerebbe, señor?»

 «Sono ai vostri ordini per far piacere all’illustrissimo presidente. Gli parlerete di me?»

 «Oh! Non dubitatene.»

 Vuotarono la seconda bottiglia, pagarono il conto e uscirono, mentre un quarto gallo cadeva sulla tavola, colla testa traforata da uno degli speroni dell’avversario.

 Carmaux e l’amburghese, quantunque avessero vuotato nientemeno che sei bottiglie, pareva che avessero mandato giù dell’acqua; il piantatore invece aveva le gambe malferme e si sentiva girare la testa.

 «Sii pronto quando io ti darò il segnale» mormorò Carmaux agli orecchi dell’amburghese. «Sarà una buona presa.»

 Wan Stiller fece col capo un cenno di assentimento.

 Carmaux passò familiarmente un braccio sotto quello del grasso piantatore, per impedirgli di camminare a sghimbescio, e tutti e tre si diressero verso la spiaggia, attraversando viuzze strette e oscurissime, non sentendosi in quei tempi il bisogno dell’illuminazione delle strade.

 Quando sboccarono sul largo viale di palme, che conduceva al porto, Carmaux che fino allora era rimasto silenzioso, scosse il piantatore che pareva fosse lì lì per addormentarsi, dicendogli:

 «Possiamo parlare; non v’è nessuno qui.»

 «Ah! Già… il presidente… il segreto…» borbottò don Raffaele aprendo gli occhi. «Eccellente quell’Alicante… un altro bicchiere, señor Manco.»

 «Non siamo più nella taverna, mio caro signore» disse Carmaux. «Se vorrete vi torneremo e vuoteremo altre due o tre bottiglie.»

 «Eccellente… squisito…»

 «Basta, lo sappiamo, veniamo al fatto. Voi mi avete promesso di darmi le informazioni che desideravo e badate che vi è di mezzo l’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama e vi avverto che quell’uomo non ischerza.»

 «Sono un suddito fedele.»

 «Bene, bene, señor.»

 «Parlate, che cosa desiderate? Io sono amico del governatore… molto amico…»

 «Un amicone, lo sappiamo. Ditemi, e aprite bene gli orecchi, e pensate bene quello che dite. È vera la voce corsa che qui si trovi la figlia del cavaliere di Ventimiglia, il famoso Corsaro Nero? È vera? Il signor presidente dell’Udienza vorrebbe saperlo.»

 «Che cosa può importargliene?» chiese don Raffaele, con stupore.

 «Né io né voi dobbiamo saperlo. È vero o no?»

 «È vero.»

 «Quando è giunta?»

 «Saranno quindici giorni. L’hanno catturata su una nave olandese, caduta in potere d’una nostra fregata, dopo un sanguinoso combattimento.»

 «Che cosa veniva a fare qui, in America?»

 «Si dice che venisse a raccogliere l’eredità di suo nonno, Wan Guld. Il duca possedeva vaste tenute qui e anche a Costarica, che non sono mai state vendute.»

 «È vero che è prigioniera?»

 «Sì.»

 «Perché?» «Voi vi scordate, sembra, quanto male abbia fatto a Maracaybo ed a Gibraltar suo padre, il Corsaro Nero.»

 «Per vendicarsi, dunque.»

 «E per impedirle di entrare in possesso dei beni del duca. Rappresentano dei bei milioni, che il governatore conta di far passare nelle casse proprie ed in quelle del governo.»

 «E se il Piemonte o l’Olanda reclamassero la sua libertà? Voi sapete che non è suddita spagnola.»

 «Vengano a prenderla, se l’osano.»

 «Dove si trova ora?»

 «Questo lo ignoro» disse don Raffaele dopo un po’ di esitazione.

 «Voi non lo volete dire.»

 «Non voglio compromettermi col governatore, señor Manco.»

 «Diffidereste di noi?»

 Don Raffaele si era fermato, poi aveva fatto un passo indietro, guardando con spavento quei due avventurieri e maledicendo in cuor suo i galli, le bottiglie e la sua imprudenza.

 «Voi non mi avete ancora data alcuna prova di essere veramente quelli che mi avete detto.»

 «Ve le daremo le prove quanto prima, quando sarete a bordo del nostro legno. Venite con noi, non abbiate timore.»

 «Sia, purché passiamo sull’altro viale.»

 «Vi sono i doganieri colà e non desideriamo di essere veduti da nessuno. Venite o…» disse Carmaux con accento minaccioso, mettendo la destra sull’impugnatura dello spadone.

 Il povero piantatore impallidì orribilmente, poi, tutto d’un tratto si slanciò, con un’agilità che non si sarebbe mai supposta in quel corpo così grosso e rotondo, fra le aiuole che dividevano i due viali, gridando con quanta voce aveva in gola:

 «Aiuto doganieri! M’assassinano!»

 «Carmaux aveva mandato una rauca imprecazione.

 «Birbante! Ci fa prendere! Addosso amburghese!»

 In due salti furono alle spalle del fuggiasco. Bastò un pugno di Wan Stiller per farlo cadere mezzo intontito.

 «Presto il bavaglio!»

 Carmaux si slacciò d’un colpo la fascia di lana rossa che gli stringeva i fianchi, e ravvolse intorno al viso del piantatore, non lasciandogli scoperto che il naso onde non morisse asfissiato.

 «Prendilo per le braccia, amburghese, e lesti alla scialuppa. Per satanasso! I doganieri!»

 «Buttiamolo in mezzo alle aiuole, Carmaux» disse l’amburghese.

 Afferrarono il disgraziato piantatore e lo lasciarono cadere in mezzo ad un cespuglio di macupi le cui larghe foglie erano più che sufficienti per nasconderlo.

 Si erano appena allontanati di pochi passi, quando una voce imperiosa gridò:

 «Alt o facciamo fuoco.»

 Due uomini, due doganieri, erano balzati sul viale, dirigendosi velocemente verso i due avventurieri..

 Uno era armato d’un archibugio, l’altro invece teneva in pugno un’alabarda.

 «Siamo persone oneste» rispose Carmaux. «Dove andiamo? A prendere una boccata d’aria. Questo maledetto lago è così pieno di zanzare che non si può dormire.»

 «Chi ha gridato: Aiuto doganieri?»

 «Un uomo che fuggiva, inseguito da un altro.»

 «Da quale parte?»

 «Da quella.»

 «Voi mentite; veniamo appunto di là e non abbiamo veduto nessuno a fuggire.»

 «Mi sarò ingannato» rispose Carmaux, placidamente.

 «M’avete un’aria sospetta, miei signori. Seguiteci al posto e consegnate, innanzi tutto, le vostre spade.»

 «Signor doganiere» disse Carmaux, con accento d’uomo offeso. «Non si arrestano due tranquilli cittadini che possono essere dei gentiluomini. Noi contrabbandieri! Per la morte di Belzebù volete scherzare?»

 «Al posto di dogana e fuori le spade» ripeté il doganiere, alzando l’archibugio. «Si vedrà poi chi siete. Presto o faccio fuoco: è l’ordine.»

 «Folgore» disse Carmaux volgendosi verso l’amburghese e levando la spada come se si preparasse a consegnarla.

 Appena l’ebbe in pugno, con una mossa fulminea si gettò da un lato, per non ricevere la scarica in pieno petto e vibrò al doganiere una puntata così terribile in mezzo al ventre, da passarlo da parte a parte.

 Quasi nello stesso momento Wan Stiller, il quale certo si era messo in guardia per la parola pronunciata dal compagno che doveva avere un significato, si precipitava sul secondo doganiere, che era ben lungi dall’attendersi quell’improvviso attacco.

 Con un rovescione spezzò netto il manico dell’alabarda, poi colla guardia della spada lo percosse tremendamente sul cranio, facendolo stramazzare al suolo mezzo accoppato.

 I due spagnoli erano caduti l’uno sull’altro, senza aver avuto il tempo di mandare un grido.

 «Bel colpo, Carmaux» disse l’amburghese.

 «E di corsa. La fortuna non protegge due volte di seguito.»

 Volsero uno sguardo all’intorno e non vedendo nessuno, balzarono fra le aiuole e presero il piantatore per le gambe e le braccia, correndo poi verso la riva.

 Don Raffaele, mezzo soffocato e anche mezzo morto di spavento, non aveva opposta alcuna resistenza, anzi non aveva nemmeno approfittato dell’intervento dei due doganieri per cercare di fuggire.

 Presso la riva si trovava una di quelle scialuppe strettissime, chiamate baleniere, fornita d’un piccolo albero con un’antenna e di timone.

 Carmaux e Wan Stiller vi salirono, deposero il piantatore fra i due banchi di mezzo, gli legarono le gambe e le braccia, lo copersero con un pezzo di vela, poi presero i remi e sciolsero l’ormeggio.

 «È mezzanotte» disse Carmaux, dando uno sguardo alle stelle, «e la via è lunga. Non vi giungeremo prima di domani sera.»

 «Teniamoci sotto la riva: vi è la caravella che veglia al largo.»

 «Passeremo egualmente» rispose Carmaux. «Non inquietarti.»

 «Alziamo la vela?»

 «Più tardi. Avanti e non fare troppo rumore.»

 La baleniera partì velocissima e silenziosa, rasentando la gettata, per tenersi all’ombra che proiettavano i filari delle altissime palme che si prolungavano per un buon tratto.

 Nel porto tutto era silenzio. Le navi, ancorate qua e là, colle antenne e le vele calate sul ponte, erano deserte.

 Gli spagnoli si credevano troppo sicuri in Maracaybo, per prendersi la briga di tenere uomini di guardia. Dopo l’ultima scorreria dei filibustieri della Tortue, guidati dall’Olonese, dal Corsaro Nero e dal Basco, avvenuta molti anni prima, avevano innalzati forti, che si credevano inespugnabili ed un gran numero di formidabili batterie, che collegavano i loro tiri fra la costa e le isolette davanti alla città.

 I due avventurieri s’avanzavano con prudenza, non essendo permesso di notte di entrare nel porto e nemmeno di uscirne. Sapevano che al di là delle isolette una grossa caravella incrociava per impedire entrate sospette o fughe.

 Quando la scialuppa raggiunse l’estremità della gettata, Carmaux e Wan Stiller deposero i remi ed issarono una piccola vela latina che era tinta in nero, affinché non la si potesse scorgere fra le tenebre.

 Il vento era favorevole, soffiando dal lago e poi anche al di là sulla gettata, l’ombra continuava essendo la costa coperta da paletuvieri foltissimi e da palme mauritie assai alte.

 «Sempre sotto?» chiese Wan Stiller, che si era collocato a poppa, alla barra del timone mentre Carmaux teneva la scotta.

 «Sì, per ora.»

 «Vedi la caravella?»

 «Sto cercandola.»

 «Che navighi coi fanali spenti?»

 «Senza dubbio.»

 «Sarebbe un guaio se la trovassimo sulla nostra rotta.»

 «Ah! Eccola laggiù che sta girando la punta di quell’isoletta. Governa diritto. Non ci scorgeranno.»

 La baleniera, messasi al vento, cominciò a filare colla velocità di uno squalo, radendo sempre la spiaggia.

 In quindici minuti raggiunse il promontorio che chiudeva verso settentrione il piccolo porto e che era guardato da un fortino costruito sulla cima d’una rupe, vi girò intorno senza che le sentinelle l’avessero scorta e si diresse verso il nord per attraversare lo stretto formato fra la penisoletta di Sinamaica da un lato e le isole di Tablazo e di Zapara dall’altro, onde raggiungere il golfo di Maracaybo.

 Ormai non avevano più nulla da temere, potendo spacciarsi per pescatori o per canottieri.

 «Gettiamo le nostre vesti e diventiamo marinai» disse Carmaux. «Nessuno sospetterà di noi.»

 Aprì una cassa che si trovava sotto la prora ed estrasse delle grosse casacche di panno grigio, delle fascie di lana e dei berretti terminanti a punta con grosso fiocco azzurro.

 Legato il timone e la scotta, in pochi istanti si trasformarono, poi gettarono lungo i bordi alcune reti, lasciando cadere in acqua i sugheri.

 «Vediamo come sta ora l’amico» disse Carmaux, quand’ebbe finito.

 Levò la tela che copriva il disgraziato piantatore, poi lo sbarazzò della sciarpa che gli chiudeva la bocca.

 Don Raffaele respirò a lungo, senza però aprire gli occhi.

 «Il sonno è stato più forte della paura» disse l’avventuriero ridendo. «Quello Xeres e quell’Alicante erano proprio di prima qualità. Il capitano Morgan sarà ben lieto di questa cattura e penserà lui a far sciogliere la lingua al nostro prigioniero.»

 «Purché non muoia sul colpo, risvegliandosi nelle mani dei filibustieri» disse Wan Stiller.

 «Prenderemo le nostre precauzioni onde non spaventarlo tutto d’un tratto.»

 «Avrebbe fatto meglio a spiattellare tutto ciò che sapeva intorno alla figlia del cavaliere di Ventimiglia.»

 «L’avrei rapito egualmente.»

 «Che cosa vuol farne Morgan di un abitante di Maracaybo?»

 «Mio caro, potrà avere da questo imbecille delle preziose informazioni sul numero dei soldati che occupano i forti e dei cannoni che li armano.»

 «Dunque è risoluto ad assalire la piazza?»

 «Ora più che mai!»

 «Avremo un osso duro da rodere, mio caro Carmaux. Hai veduto che opere imponenti hanno innalzato gli spagnoli? Maracaybo non è più quella che era quando l’espugnammo col Corsaro Nero e con quel diavolo di Olonese.»

 «Siamo in buon numero e non ci mancano le artiglierie. I milioni di piastre che ricaveremo compenseranno largamente i rischi d’una simile impresa.»

 «Purché la flotta non venga scoperta.»

 «La baia di Amnay è ben coperta e nessuno scorgerà le nostre navi. D’altronde i nostri stanno in guardia e non si lasceranno sfuggire i curiosi e gli spioni.»

 Essendo il vento sempre favorevole e tendendo anzi a rinfrescare sempre più, avvicinandosi l’alba, la baleniera guadagnava via con crescente rapidità.

 Graziosamente piegata sul tribordo, coll’estremità del pennone inferiore quasi a fior d’acqua, scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell’ampia laguna, lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.

 I due filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.

 Erano le zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros , che di tratto in tratto calavano in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i due avventurieri.

 Esse sono un vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che montano la guardia, come dicono gl’indiani caraibi.

 E come sono dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti, preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una nuvola di zancudos .

 Fortunatamente l’alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d’Altagracia e di La Rita.

 Tablazo, una delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e abitati dagl’indiani.

 Quei villaggi, che allora s’incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela, ossia piccola Venezia.

 Ogni villaggio era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.

 Quelle lunghe case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva acquistassero la durezza del ferro.

 Sopra i pali quegli abili costruttori avevano formato un’immensa piattaforma di legno leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano abbastanza bene le tegole o le ardesie.

 Non esistevano pareti, regnando tutto l’anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza prendersi l’incomodo di entrarvi.

 La laguna cominciava a popolarsi.

 Dei canotti scavati nel tronco d’un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l’alta marea per approdare nei minuscoli porti dell’isoletta.

 «Sotto o sopravvento?» chiese l’amburghese.

 «Stringi sempre la costa» rispose Carmaux. «Passeremo fra Zapara e la costa.»

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