La morte del conte di Medina

Quantunque la battaglia in campo aperto si fosse risolto con la completa sconfitta degli spagnoli, Panama era ancora in grado di opporre una lunga ed ostinata resistenza e di far pagare cara ai filibustieri la loro audacia

 Oltre ad essere la più grossa città dell’America Centrale e la più opulenta, era anche la più fortificata, essendo stata cinta interamente dal lato di terra e munita di torri e d’una formidabile artiglieria.

 Aveva inoltre nella sua rada navi in buon numero, bene equipaggiate e poderosamente armate e la maggior parte dei suoi abitanti era gente abituata ai combattimenti.

 Morgan, che più che la smania di conquista lo spingeva il desiderio di liberare la figlia del Corsaro Nero, alla quale ormai era legato da un affetto ben più profondo che una semplice amicizia, da buon capitano non indugiò a muovere all’assalto della poderosa città.

 Voleva approfittare del terrore e della confusione che vi regnava, dopo la disastrosa sconfitta subìta dalle truppe.

 Formate quattro colonne d’assalto e dati gli ordini necessari ai suoi capi, mezz’ora dopo la vittoria i suoi uomini, già sicuri d’impadronirsi della città, erano sotto le mura.

 Malgrado la dolorosa impressione prodotta dalla perdita della battaglia, soldati e cittadini avevano organizzata rapidamente la resistenza.

 Un formidabile fuoco d’artiglieria aveva accolse le colonne d’attacco dei filibustieri, facendo delle vere stragi; ma quei coraggiosi non si perdettero d’animo

 Tre ore durò la lotta dinanzi alle mura, mettendo a durissima prova il valore ormai leggendario di quei ladroni di mare. Finalmente, malgrado il fuoco infernale degli spagnoli, Pierre le Picard per il primo, riuscì, alla testa d’un pugno di disperati, a impadronirsi d’uno dei più solidi bastioni, dopo aver distrutto fino all’ultimo i difensori, compresi i frati che il Presidente dell’Udienza Reale aveva inviati sulle mura, perché colla loro presenza incoraggiassero i difensori.([5])

 Voltate le artiglierie contro la città e contro le torri, quel primo manipolo diede tempo agli altri di scalare le mura e di rovesciarsi attraverso le vie come un torrente che rompe gli argini.

 Ormai più nessuno opponeva resistenza. Fuggivano i soldati, fuggivano i cittadini, fra un frastuono orrendo e le bordate che scaricavano le navi della rada facevano più danno alle case che ai filibustieri.

 Un panico indescrivibile si era impadronito di tutti, cosicché mancò la difesa interna, che avrebbe potuto disputare ancora a lungo la vittoria dei terribili scorridori del golfo del Messico.

 I capi, d’altronde, avevano perduta la testa, ed erano stati i primi od a fuggire o ad arrendersi, compreso il Presidente dell’Udienza Reale.

 Morgan, temendo che i suoi uomini, dopo tante sofferenze si abbandonassero all’orgia, s’affrettò a far spargere la voce che gli spagnoli avevano avvelenati i cibi e le bevande.

 Mentre i filibustieri, occupati i punti principali, bombardavano le navi della baia che erano ormai le sole a opporre ancora qualche resistenza, Morgan con una schiera di corsari scelti, fra i quali Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller, si diresse velocemente verso il centro della città. Don Raffaele, continuamente minacciato di morte, li guidava al palazzo del conte di Medina che era uno dei più noti e dei più belli di Panama.

 A Morgan premeva precludergli la fuga e di strappargli Jolanda.

 Certo il fulmineo assalto dato dai filibustieri, gli aveva impedito di prendere il largo per tempo.

 Un quarto d’ora dopo il drappello, che si cacciava innanzi turbe di fuggenti, giungeva su una vasta piazza, nel cui centro sorgeva un bellissimo edificio a due piani. Sul portone si scorgeva lo stemma del conte: due leoni rampanti in campo azzurro.

 Dei servi fuggivano in quel momento, carichi di pacchi che contenevano probabilmente degli oggetti preziosi.

 Vedendo comparire quel drappello di uomini armati, gettarono ogni cosa a terra per essere più lesti nella corsa, ma Pierre le Picard giunse in tempo per fermarne uno.

 «Non uccidetemi!» aveva gridato il povero uomo, con voce tremante. «Sono un misero servo.»

 «Tu sei proprio il tipo che ci occorre, giovanotto» rispose Pierre. «Noi non ti faremo male alcuno se risponderai e subito alle nostre domande.»

 «Dov’è il conte di Medina?» gli chiese Morgan, mentre i suoi uomini occupavano l’atrio del palazzo per impedire la fuga a coloro che erano ancora rimasti dentro.

 «Non lo so, signore» rispose il servo, diventando livido.

 «Pierre», disse il filibustiere, «fa fucilare quest’uomo, giacché cerca d’ingannarci.»

 Il poveretto, comprendendo che la sua vita era appesa ad un filo, aveva alzate le mani, gridando:

 «No, signori, parlerò.»

 «Dov’è dunque?» chiese Morgan, con voce terribile.

 «Nel palazzo.»

 «Non è fuggito?»

 «Gli è mancato il tempo. Non credeva che la città cadesse nelle vostre mani così presto.»

 «Vi è una fanciulla con lui?»

 «Sì, signore.»

 Morgan non aveva potuto frenare un grido di gioia:

 «Finalmente Jolanda è mia!…»

 «C’è qualcuno col conte?»

 «Il capitano Valera e due dei suoi ufficiali.»

 «Dove si trova il conte?»

 «Si è nascosto»»

 «Guidaci» disse Morgan. «A me Carmaux con Wan Stiller. Gli altri circondino il palazzo e facciano fuoco su chi cercherà di uscire.»

 «E anche voi, don Raffaele, seguiteci» disse Carmaux.

 Mentre i filibustieri circondavano il palazzo, Morgan, Pierre, Carmaux, Wan Stiller e don Raffaele, seguivano il servo.

 Invece di salire il marmoreo scalone che metteva nelle sale superiori, il prigioniero li condusse in un corridoio alla cui estremità si scorgeva un quadro di grandi dimensioni rappresentante una Madonna.

 «Dove andiamo?» chiese Pierre, che diffidava.

 «Vi conduco dove si trova il conte» rispose il servo.

 «Mano alle spade, amici» comandò il filibustiere. «Rammentatevi dei colpi che vi ha insegnati il Corsaro Nero.»

 «Silenzio, signori» disse il servo. «Pare che alterchino.»

 Tutti si erano accostati al quadro tendendo gli orecchi. Si udiva la voce del conte confusa ad altre.

 Pareva che là dietro si discutesse animatamente. Morgan, che aveva il cuore stretto, ascoltava attentamente rattenendo il respiro.

 Ad un tratto, dopo un brevissimo silenzio, udì il governatore di Maracaybo dire con voce minacciosa:

 «Firmate, signora, siete ancora in tempo!… Firmate o non uscirete viva di qui!…»

 Morgan era diventato pallido come un morto.

 «Attenti amici: vi è la signora di Ventimiglia ed il conte potrebbe ucciderla. E tu, apri!…»

 Il servo toccò un bottone nascosto fra i fregi della cornice ed il quadro scivolò sotto, scomparendo entro una fessura apertasi nel pavimento.

 Dinanzi ai filibustieri s’apriva una sala assai ampia, illuminata da due doppieri. Non conteneva che una lunga tavola, collocata nel mezzo, su cui stavano delle carte ed un calamaio.

 Il conte di Medina vi stava appoggiato, tenendo in mano una penna. Dietro di lui si scorgevano il capitano Valera e due ufficiali che tenevano le spade snudate.

 Di fronte, dall’altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e risoluta.

 «No, signore, non firmerò giammai!» aveva gridato.

 In quell’istante i quattro filibustieri si slanciarono come un solo uomo nella sala, gridando:

 «A noi, signori!…»

 Pierre le Picard, che era il primo, si era gettato verso Jolanda, mentre Wan Stiller e Carmaux, con una spinta irresistibile, mandarono all’aria la tavola onde non servisse di barriera ai quattro spagnoli.

 Il conte di Medina vedendo irrompere quei quattro uomini che ben conosceva, aveva mandato un urlo di furore.

 Gettò la penna, estrasse rapidamente una pistola che teneva alla cintura, e prima che alcuno potesse impedirglielo fece fuoco verso Jolanda, urlando:

 «Muori per mano del bastardo!…»

 Un grido di dolore aveva seguíto lo sparo, ma non lo mandò Jolanda, bensì Pierre le Picard.

 Il bravo filibustiere con una mossa fulminea aveva coperto la fanciulla ed aveva ricevuto la palla nel petto.

 Tuttavia era rimasto in piedi. S’appoggiò al muro per non cadere, levò a sua volta la pistola e fece fuoco contro il gruppo formato dai quattro spagnoli abbattendo uno dei due ufficiali.

 «Sono vendicato» ebbe appena il tempo di dire.

 E stramazzò al suolo, mentre Jolanda si curvava su di lui. Quella scena si era svolta così rapidamente, che Morgan non aveva potuto impedirla. Cieco di rabbia si era scagliato addosso al conte che l’aspettava a pie’ fermo, colla spada in mano, gridandogli:

 «Difendetevi, signore, perché non vi accorderò quartiere.»

 Carmaux si era gettato invece contro il capitano, mentre Wan Stiller caricava furiosamente l’ufficiale.

 Don Raffaele, istupidito, erasi fermato in un angolo, appoggiandosi contro la parete. La presenza del capitano, del suo implacabile nemico, lo aveva come inchiodato al suolo.

 I sei uomini combattevano ferocemente, decisi a uccidere i loro avversari o farsi uccidere.

 Erano tutti abilissimi spadaccini, che conoscevano a fondo tutte le sottigliezze della terribile scuola dell’acciaio.

 Morgan, accortosi fino dai primi colpi d’aver dinanzi un avversario pericoloso, che non ignorava le botte segrete dei più famosi maestri di quell’epoca, dopo i primi fulminei attacchi era diventato prudente, frenando l’eccitazione dei propri nervi.

 Non incalzava più coll’impeto dei primi momenti. Stava invece sulla difensiva, aspettando che il conte, assai meno vigoroso e meno muscoloso, esaurisse le proprie forze per tentare qualche botta segreta insegnatagli dal cavaliere di Ventimiglia.

 Il governatore di Maracaybo, che forse si era accorto dell’intenzione dell’avversario, si risparmiava più che poteva, limitandosi a fare delle finte e non rompendo che di rado.

 Carmaux ed il capitano Valera s’attaccavano invece rabbiosamente, facendo sprizzare scintille dai ferri.

 «Questa volta non vi risparmierò come l’altra» diceva Carmaux, incalzando vigorosamente l’avversario.

 Il capitano conservava un silenzio feroce. Pareva che qualche sinistro pensiero lo preoccupasse più che la spada di Carmaux ed il pericolo di cadere con tre pollici di ferro nel petto.

 Colla fronte aggrottata, le labbra contratte da un sogghigno crudele, lanciava a destra ed a sinistra degli sguardi obliqui come se cercasse di scoprire qualche rifugio. Rompeva di frequente, come se non fosse capace di tener testa agli assalti più impetuosi del francese e per calcolo o per caso, s’accostava a poco a poco a don Raffaele che era sempre addossato al muro, a breve distanza dalla signora di Ventimiglia.

 L’amburghese invece, più flemmatico del francese, quantunque non meno valente di lui, scambiava vigorose stoccate coll’ufficiale, spingendolo a poco a poco verso la parete contro la quale pensava d’inchiodarlo.

 Jolanda, inginocchiata presso il cadavere di Pierre le Picard, pareva che pregasse.

 Ad un tratto un urlo selvaggio echeggiò nella sala coprendo il fragore dei ferri, subito seguíto da un grido di dolore e da una voce che diceva:

 «Son morto!…»

 Era il capitano Valera che aveva fatto il suo colpo.

 A poco a poco, sempre indietreggiando, si era accostato a don Raffaele e, dopo essersi assicurato con un rapido sguardo, che ormai si trovava a buona portata, con un salto da tigre si era gettato fuori dalla linea della spada di Carmaux, poi con una stoccata fulminea aveva immerso il ferro nella gola del piantatore.

 Il disgraziato, colpito a morte, era stramazzato al suolo mandando quel grido:

 «Son morto!…»

 Carmaux, vedendosi sfuggire l’avversario, era piombato su di lui, urlando:

 «Ora vendicherò don Raffaele!…»

 Il capitano, agile come un gatto, si era nuovamente gettato da una parte, precipitandosi addosso alla signora di Ventimiglia che non si era accorta del grave pericolo.

 Già stava per trafiggerla alle spalle, quando Wan Stiller, che era a pochi passi, e che aveva udito il grido di furore di Carmaux, con una stoccata poderosa inchiodò l’ufficiale alla parete, poi, ritirato il ferro fumante di sangue, tese il braccio armato per coprire la fanciulla.

 Il capitano, che non s’aspettava quel nuovo avversario, spinto dal proprio slancio, si era infilzato da sé contro la spada dell’amburghese.

 Cacciò un urlo feroce, alzò le mani, poi rovinò al suolo mandando un’ultima bestemmia.

 Il ferro gli aveva attraversato il cuore.

 La signora di Ventimiglia, vedendosi cadere intorno quei due uomini, l’ufficiale ed il capitano, si era alzata di scatto, facendo un gesto d’orrore. Pareva che solo in quel momento si fosse accorta che in quella sala sei uomini lottavano ferocemente, decisi a vincere od a morire.

 «Basta!… Basta sangue!…» gridò.

 Un urlo di rabbia e di dolore le rispose. Il conte di Medina era stato toccato da Morgan, sopra la mammella sinistra.

 «E questa è la botta segreta del Corsaro!…» gridò il filibustiere, portandogli un secondo colpo dal basso in alto, essendosi ripiegato fino a toccare quasi il suolo.

 Udendo quella voce e vedendo il conte arretrare, Jolanda aveva gridato:

 «No, Morgan… risparmiatelo!»

 Era troppo tardi. La botta segreta del Corsaro Nero era partita ed il ferro del filibustiere era scomparso più che mezzo nel petto del conte.

 Il figlio di Wan Guld aveva lasciò cadere la spada, portandosi ambe le mani sul cuore.

 Fece tre passi indietro, come un automa, cogli occhi sbarrati, le labbra bianche, poi piombò al suolo come un albero sradicato dall’uragano.

 Jolanda si precipitò verso di lui, pallida come una morta, commossa.

 «Signor conte!…» gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le mani che diventavano ormai già fredde. «Perdonatemi… non volevo la vostra morte…»

 Il bastardo aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla.

 Fece cenno che lo rialzassero.

 Morgan, gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.

 «Sono… stato… malvagio…» mormorò con voce semispenta. «Perdonatemi… Jolanda… perdona…temi… dite…lo…»

 «Vi perdono, signor conte» rispose la fanciulla, singhiozzando.

 Il conte girò il capo verso Morgan che era pure profondamente commosso.

 «L’ama…te… è… vero?…» chiese.

 Il corsaro fece col capo un cenno affermativo.

 Il conte gli prese la destra e gliela strinse fortemente, poi rovesciò il capo.

 Era morto.

 Jolanda si era alzata piangendo. Staccò dalla parete un crocefisso, lo depose sul petto del conte, poi gli chiuse gli occhi.

 «Andiamo, signora» disse Morgan.

 E la trasse con dolce violenza fuori da quella sala dove cinque cadaveri giacevano al suolo, illuminati dalla funebre luce dei doppieri.

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 Due settimane durò il sacco di Panama e sarebbe di certo durato assai di più, poiché immense ricchezze rimanevano ancora da raccogliere, quantunque gli abitanti avessero nascoste le cose più preziose, quando un incendio spaventevole scoppiò quasi contemporaneamente in più luoghi, avvolgendo la regina del Pacifico in un mare di fuoco.

 Gli spagnoli accusarono i filibustieri, o meglio Morgan, di averlo provocato; questi invece ne diede la colpa ai primi, che l’avrebbero suscitato per interrompere il sacco e tentare anche di soffocarli.

 Comunque sia, l’intera città andò distrutta totalmente, ma anche in mezzo alle ceneri i filibustieri trovarono gran copia d’oro e d’argento e di gemme.

 Dopo quattro settimane essi abbandonavano definitivamente le sponde dell’Oceano con un convoglio di seicento e quindici bestie da soma, che portavano il frutto di tanta impresa.

 Il bottino fu valutato a quattrocentoquarantatremila libbre d’argento.

 Un mese dopo i filibustieri, con Morgan, la signora di Ventimiglia, Carmaux e Wan Stiller sbarcavano alla Tortue, senza essere stati molestati dalle squadre spagnole del golfo del Messico, e otto giorni dopo si celebravano le nozze della figlia del Corsaro Nero coll’ardito e fortunato filibustiere.

 Avendo in quell’epoca l’Inghilterra fatta la pace colla Spagna e mandato ordine al governatore della Giamaica che vietasse a qualunque filibustiere di mettersi in mare, i corsari si divisero in varie partite per corseggiare per loro conto ed a loro rischio e pericolo.

 Morgan si ritirò alla Giamaica per vivere tranquillo colla giovane sposa che adorava. Fu molto stimato dal conte di Carlisle, governatore allora di quell’importante isola, che lo fece nominare vice-governatore; e il re Carlo II d’Inghilterra lo nominò cavaliere.

 Carmaux e Wan Stiller, ormai invecchiati e stanchi di menare le mani, seguirono l’antico luogotenente del orsaro Nero, godendosi in pace gli ultimi anni della loro tribolata ed avventurosa esistenza.

 

 

 F I N E

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