I naufraghi erano giunti sulle rive d’un vasto golfo che s’addentrava assai nella costa coperta da foreste.
Fra i cavalloni che si frangevano contro le scogliere, avevano scorto un gran numero di rottami.
In mezzo alla spuma ondeggiavano antenne, pezzi di fasciame e di ponte, casse e barili che si urtavano rumorosamente fra di loro.
Alcune enormi travi, strappate forse alle ruote di prora e di poppa dello scafo, si erano arenate fra i paletuvieri, e al rifluire della marea erano rimaste in secco fra i loro rami contorti.
Se i rottami erano abbondanti, mancavano assolutamente gli uomini. La spiaggia, fin dove giungevano gli sguardi, era deserta e anche in acqua non si scorgeva alcun cadavere, cosa inesplicabile, considerato il gran numero di persone che si trovavano a bordo del veliero nel momento in cui le onde ed il vento lo spingevano verso i bassifondi.
«Possibile che si siano tutti annegati!…» esclamò Morgan, con voce alterata. «C’erano fra i nostri uomini dei valenti nuotatori, che non avevano paura dei cavalloni. Che cosa ne dici, Carmaux?»
«Apparterranno alla nostra nave questi rottami?» chiese invece il marinaio.
«Che cosa volete dire, Carmaux?» domandò Jolanda.
«Che potrebbero appartenere anche alla fregata che noi abbandonammo dopo l’abbordaggio.»
«E la nostra nave?» chiese Morgan. «Dove vuoi che sia finita? Andiamo a vedere quelle travi» disse Morgan, che era diventato pensieroso.
Aprendosi il passo fra i paletuvieri, giunsero ben presto là dove le onde avevano spinto quegli avanzi, e trovarono fra le sabbie parecchi altri rottami, fra cui un affusto di cannone, mancante del pezzo.
Morgan vi si era precipitato sopra, non ignorando che le bocche da fuoco ordinariamente portavano dipinto il nome della nave a cui appartenevano.
«Hai ragione, Carmaux!» gridò. «Questi avanzi appartengono alla fregata. Ecco qui sull’affusto il suo nome.»
«Ma dunque che cosa è accaduto del veliero?» chiese Jolanda.
«Io non oso rispondervi, signora» disse Morgan, la cui fronte si era oscurata. «Temo che sia successa una catastrofe»
«Allora voi credete che la nostra nave si sia inabissata?» chiese Jolanda con voce commossa.
«I miei uomini devono riposare tutti in fondo al mare; ecco la mia opinione, signora. La nave deve essere stata respinta al largo, forse a molta distanza dalla costa, e poi inghiottita.»
«Ah!… Mio povero Wan!» gemette Carmaux. «Andarsene senza di me!…»
«Noi non abbiamo ancora alcuna prova che quella nave si sia sommersa» disse Jolanda.
«Era piena d’acqua, signora, ed a meno d’un miracolo, non può essere sfuggita alla sorte che lo attendeva. Credo che a noi non rimanga che di occuparci dei casi nostri.»
«Che cosa intendete di fare, signor Morgan?»
«Giacché la fortuna ci ha mandati questi due indiani, seguiamoli alla loro tribù» rispose il filibustiere. «Là almeno troveremo per il momento un rifugio e una protezione. Non dimentichiamo che in queste foreste si aggirano gli Oyaculè.»
«Come ci accoglieranno quegl’indiani?»
«I Caraibi non sono cattivi, quando non si provocano» rispose Carmaux. «Io li conosco per averli frequentati con vostro padre.»
Morgan interpellò Kumara.
«Domani sera potremo giungere al villaggio, se gli Oyaculè non ci arresteranno» rispose l’indiano. «Abbiamo lasciata la nostra piroga su un fiume che sbocca in una savana, nascosta fra le larghe foglie dei mucumucù e può darsi che i nostri nemici non l’abbiano scoperta.»
«È lontana quella savana?»
«Tre ore di marcia.»
«Purché quei maledetti Oyaculè non ci aspettino colà» disse Carmaux. «Amo poco aver da fare con quei selvaggi, specialmente quando non ho fra le mani il mio archibugio.»
«Potremmo venire egualmente sorpresi, anche rimanendo qui» rispose Morgan. «D’altronde, non sono che otto e la polvere della mia pistola si è bene asciugata con questo calore ardente. Tengo dunque la vita di due uomini e poi ho la spada. Vuoi guidarci?» chiese poi all’indiano che aveva il becco del tucano.
«Cogli uomini bianchi io non ho paura» rispose Kumara. «Sono dei forti guerrieri.»
Si misero in cammino, preceduti dai due indiani, che si tenevano l’uno dietro l’altro, coll’arco in mano e le freccie pronte ad essere scagliate.
I tre naufraghi erano tristi e molto preoccupati, specialmente Morgan, il quale oltre ad aver perduti tutti i suoi fedeli compagni ed il frutto dell’audacissima spedizione, si trovava senza nave e senza aiuti e con molte probabilità di cadere nelle mani dei selvaggi o degli spagnoli, assieme alla fanciulla che aveva giurato di salvare.
Anche Carmaux aveva perduta la sua consueta allegria, pensando alla miseranda fine del suo inseparabile compagno, il povero amburghese.
Man mano che s’inoltravano nella grande foresta, la marcia diventava sempre più penosa.
Si trovavano come impacchettati fra una vegetazione troppo esuberante, che aveva invasi i più piccoli lembi di terra. A destra, a sinistra, dinanzi e dietro, s’intrecciavano confusamente passiflore, liane, sarmenti di pimento, noci moscate selvatiche, alberi del pepe, cedri del Venezuela, alberi del cotone carichi di fiori gialli e porporini, gruppi di euforbie, cactiformi irti di spine e di baspa butirracee , così chiamate perché si estrae da quelle piante una specie di burro assai apprezzato dagl’indiani.
Fra quel caos di rami e di foglie non si vedeva alcun volatile, nondimeno di quando in quando il silenzio che regnava nella foresta veniva improvvisamente rotto da urla assordanti e da muggiti formidabili che facevano arrestare di colpo i tre naufraghi, credendo che fossero i temuti antropofagi che si preparassero ad assalirli.
Erano invece alcune truppe di scimmie rosse che si divertivano a dare una prova della solidità dei loro polmoni o meglio del loro gozzo. Quei quadrumani sono straordinariamente abbondanti nelle foreste del Venezuela e delle vicine Guiane, e per potenza di voce possono gareggiare coi barbado brasiliani.
Si raccolgono fra i rami d’un grosso albero e là gonfiano i loro gozzi, che sono grossi come un uovo di tacchino, mandando degli hon-hon e dei muggiti così formidabili da udirsi facilmente alla incredibile distanza di cinque chilometri.
Se quelle scimmie erano inoffensive, altri pericoli minacciavano il drappello, il quale era costretto ad avanzarsi colla massima prudenza.
Di quando in quando fra le foglie secche, che formavano degli strati altissimi, si vedevano uscire certi formiconi lunghi un centimetro e mezzo, neri, lucenti, coll’addome gonfio, che subito si rizzavano per mordere i piedi nudi dei due indiani e che non davano indietro.
Morgan, che aveva già percorso altre volte le foreste dell’America Meridionale, specialmente quelle delle Guiane e della Colombia, e che sapeva quanti pericoli nascondono, vegliava attentamente su Jolanda, badando dove posava i piedi e frugando le erbe e le foglie colla punta della spada, per paura che nascondessero qualche formidabile trigonocefalo o qualche serpente corallo, dal morso senza rimedio, od un serpente liana, tutti rettili che abbondano straordinariamente in quelle regioni e che sono assai aggressivi.
E non guardava solamente verso terra. Seguendo l’esempio dei due indiani, scrutava anche il fitto fogliame delle piante, potendo piombare improvvisamente sulla fanciulla qualcuno di quegli enormi rettili chiamati pitoni, che posseggono una forza da stritolare senza difficoltà l’uomo più robusto o qualche coguaro, amando questi sanguinari animali tenersi nascosti fra i rami per meglio sorprendere la preda.
Camminavano da un paio d’ore, sempre inoltrandosi con grandi difficoltà, nella foresta, quando un grido acuto ruppe improvvisamente il silenzio che regnava in quel momento sotto le vôlte di verzura, arrestando di colpo i due indiani.
«Che cosa c’è?» chiese Morgan, mettendosi prontamente dinanzi alla fanciulla ed impugnando la pistola, mentre Carmaux le si poneva dietro, facendo un rapido dietro fronte.
«Avete udito?» chiese Kumara.
«Il grido di qualche animale pericoloso?»
«No, d’una bernaca .»
«Ne so meno di prima.»
«Di un’oca selvatica» disse l’indiano.
«E ti spaventi d’un simile volatile?»
«Dove si trova una capanna vi si trovano sempre di quelle oche, ma non è ciò che mi preoccupa.»
«Quale altro motivo dunque?»
«Quel grido non mi parve naturale e anche Jay, il mio compagno, è del medesimo avviso.»
«Che sia stato qualche segnale?»
«È quello che noi sospettiamo, signor uomo bianco» disse il caraibo.
«Fatto da qualche Oyaculè?» chiese Carmaux.
«Non vi sono tribù amiche qui.»
«Puoi esserti ingannato» disse Morgan.
Kumara scosse il capo, poi disse:
«Un caraibo non s’inganna mai.»
«È lontana la savana?»
«Deve essere anzi vicinissima.»
«Se vogliono assalirci ci piomberanno egualmente addosso, sia qui che più innanzi» disse Morgan a Jolanda. «Tenetevi presso di me, signora, e prendete la mia pistola, a me la spada basta.»
I due indiani si consultarono a bassa voce, provarono l’elasticità dei loro archi, dando ad ognuno un giro di corda onde avessero una portata maggiore, poi partirono in silenzio, guardando l’uno a destra e l’altro a sinistra.
La foresta cominciava allora a diradarsi un po’ ed a diventare umidissima. In mezzo alle piante si udivano scrosciare dei torrentelli che pareva scorressero tutti verso un’unica direzione.
I due indiani ascoltavano sempre e alzavano di frequente gli occhi, come se cercassero la bernaca che aveva mandato quel grido; invece nessuna oca selvatica appariva.
Avevano percorsi due o trecento passi, scivolando silenziosamente fra le passiflore che ingombravano il suolo, quando tornarono a fermarsi, dicendo:
«Sentiamo il fiume che si versa nella savana.»
Infatti un po’ più innanzi, dell’acqua scrosciava. Pareva che un torrente rapidissimo si aprisse il passo fra le piante.
«Dov’è il tuo canotto?» chiese Morgan.
«Sul fiume» rispose Kumara.
«M’avevi detto nella savana.»
«L’acqua morta non è lontana.»
Stavano per riprendere le mosse, quando udirono ripetersi, e molto vicino, il grido della bernaca .
I due indiani si erano voltati rapidamente, tendendo gli archi.
«Ancora il segnale?» chiese Morgan.
«Sì» rispose Kumara. «Il grido dell’oca selvatica è stato molto bene imitato, ma non c’inganna.»
«Affrettiamoci a raggiungere il fiume» disse Morgan. «Se possiamo trovare la vostra piroga siamo salvi.»
«Deve trovarsi presso quell’albero» disse Kumara, indicando un bacaba , una specie di palma vinifera dai cui rami pendevano dei fiori chermisini disposti a festoni.
«Andate a vedere, uomo bianco, mentre noi sorvegliamo la foresta col vostro compagno.»
«Sì, andate, capitano» disse Carmaux. «Mettete prima in salvo la signora di Ventimiglia. «Affrettatevi, odo le fronde ad agitarsi.»
Morgan si spinse rapidamente innanzi, seguíto da Jolanda e giunse sulla riva d’un corso d’acqua assai rapido, non più largo d’una mezza dozzina di metri, che scorreva fra due vere muraglie di verzura.
Gli alberi erano così immensi che congiungevano i loro rami e le loro foglie attraverso il fiumicello, formando una vôlta quasi impenetrabile ai raggi del sole.
Morgan si curvò sulla riva e scorse, semi-nascosto fra le larghe foglie dei mucumucu , uno di quei canotti scavati nel tronco d’un bambù gigante, chiamati montarias , armato di quattro pagaje dalla pala assai larga ed il manico molto corto.
«Eccola la piroga!» gridò. «Presto, signora, imbarcatevi.»
Aiutò la fanciulla a scendere la riva che era molto ripida e coperta di arbusti spinosi e la fece imbarcare nel canotto.
Stava per risalire onde chiamare i compagni, quando delle urla spaventevoli scoppiarono nella foresta.
«Signor Morgan» udì a gridare Carmaux. «Salvate la signora!… Fuggite!…»
Invece di obbedire, il filibustiere si spinse fino sulla cima della sponda e vide Carmaux ed i due indiani fuggire a precipizio verso il folto della foresta, inseguiti da sette od otto uomini semi-nudi, di statura altissima, col viso adorno di lunghe barbe e che lanciavano delle freccie con rapidità prodigiosa.
«Gli Oyaculè!…» esclamò.«Qui, Carmaux, qui!…Il canotto!… Il canotto!…»
Era troppo tardi, poiché gli antropofagi, forse senza volerlo, si erano gettati fra i fuggiaschi ed il fiume, impedendo così loro di salvarsi nella piroga.
Udendo le grida di Morgan, tre uomini si staccarono dal gruppo e gli lanciarono contro alcune freccie, senza riuscire a colpirlo.
Il filibustiere, comprendendo che ormai non poteva più contare sui suoi compagni, con due salti raggiunse il fiume e si gettò nel canotto, gridando alla fanciulla che aveva armata risolutamente la pistola:
«Gettatevi nel fondo della piroga, signora!… Vengono!…»
Poi, mentre Jolanda obbediva, prese due pagaie e, strappata la corda, si spinse al largo remando affannosamente.
Si era allontanato di una decina di metri, quando i tre selvaggi che gli si erano volti contro, comparvero sulla riva.
Tre freccie sibilarono, seguìte da un grido di dolore. Due si erano piantate sul bordo, la terza invece, meglio diretta, si era conficcata profondamente nel petto del filibustiere, quasi all’altezza della spalla destra.
Jolanda, che lo aveva veduto strapparsi furiosamente il sottile cannello di bambù e che aveva udito il suo grido di dolore, si era alzata di colpo e scorgendo i tre selvaggi che stavano per tendere nuovamente gli archi, scaricò sul più vicino un colpo di pistola.
L’antropofago, colpito alla testa, rotolò giù per la riva sbattendo pazzamente le braccia e piombò in acqua, affondando subito.
Gli altri due, spaventati dallo sparo, forse il primo che udivano, e dalla morte fulminea del loro compagno, risalirono precipitosamente la riva scomparendo fra le piante.
La fanciulla, che era diventata pallidissima, s’accostò a Morgan il quale, non ostante il dolore intenso che doveva produrgli la ferita, continuava ad arrancare con suprema energia.
«Non sarà cosa grave, signora» disse il filibustiere cercando di sorridere. «La punta è rimasta nella carne, e più tardi la estrarremo.»
«Mio Dio, e se la punta fosse avvelenata!…»
«Non conoscono i veleni questi selvaggi, rassicuratevi, signora Jolanda. Prendete le pagaie e aiutatemi meglio che potrete. È necessario allontanarci prima che quei furfanti ricompariscano. Oh!… Voi tirate meravigliosamente!… Grazie!…»
«Vedo il sangue trapelare attraverso la vostra giubba. Permettete che vi fasci la ferita.»
«Più tardi… lasciate che coli… presto, signora… possono giungere a crivellarci di freccie.»
La fanciulla, comprendendo che non sarebbe riuscita ad indurre il fiero corsaro a lasciarsi fasciar la ferita e, temendo che gli antropofagi ricomparissero e tornassero per dargli il colpo di grazia, prese le altre due pagaie e si mise a remare per aiutarlo.
Era profondamente commossa e voltava ad ogni istante il capo verso il filibustiere, chiedendogli con premura:
«Volete riposarvi, signor Morgan? Lasciate a me la cura di condurre il canotto. So guidare una scialuppa.»
«No, signora, più presto, più presto» rispondeva Morgan.
Il fiume fortunatamente aveva una corrente rapidissima ed i fuggiaschi si allontanavano veloci. Era, più che un fiume, una specie di torrente, dalle acque pesanti e quasi nerastre, sature di miasmi prodotti dal corrompersi delle foglie che trasportava ed incassato fra i due margini della foresta fra i quali si era aperto violentemente il passo.
Sotto la vôlta di verzura che lo copriva intensamente, non soffiava il minimo alito d’aria e regnava una temperatura da stufa, che faceva sudare prodigiosamente i due remiganti.
Quella vôlta invece li preservava dai colpi di sole che sono così frequenti in quelle regioni quasi equatoriali, dal mezzodì alle quattro e quasi mai perdonano.
Morgan, quantunque soffrisse assai per la punta della freccia che gli era rimasta conficcata nelle carni, e sebbene continuasse a perdere sangue non cessasse di colare, resisteva tenacemente, senza che gli uscisse dalle labbra un solo lamento.
Aveva però la fronte bagnata da un freddo sudore e lo si vedeva stringere i denti, per non lasciarsi sfuggire nessun grido di dolore.
Jolanda lo secondava, manovrando energicamente le pagaie e cercando di mantenere il canotto in mezzo al fiume, ma le sue inquietudini aumentavano, vedendo formarsi, ai piedi del filibustiere, una chiazza di sangue che a poco a poco si allargava.
«Basta, signor Morgan» disse ad un tratto, sentendo che rallentava la battuta. «Volete uccidervi? Lasciate a me la cura di condurre il canotto, fasciatevi la ferita.»
«Un momento ancora, signora» rispose Morgan, con voce soffocata. «Vedo un largo dietro di noi… deve essere la savana o qualche laguna…»
«Ve ne prego…»
«Aspettate…»
«Ve l’ordino, allora.»
Il filibustiere, che non si reggeva più, aveva ritirate le pagaie, comprimendosi la ferita con ambe le mani.
Il canotto in quel momento sboccava in una vasta laguna, ingombra di foglie di mucumucù e di fasci di legno cannone dai fusti bianchi, lisci ed argentei.
Jolanda lo spinse verso la riva più vicina, arenandolo su un banco limaccioso.
«Venite, signor Morgan» disse, con voce commossa.
Il filibustiere si era alzato, barcollando.
«È la punta che mi lacera le carni» mormorò, tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte.
«Che sia avvelenata?» chiese Jolanda, con terrore.
«No… no…»
Scese sulla riva, sorreggendosi sulla spada, ma giunto colà dovette appoggiarsi alla fanciulla.
«Mio povero amico, quanto dovete soffrire» disse Jolanda.
«Tutto passerà» rispose il filibustiere, guardandola cogli occhi socchiusi. «Legate il canotto, signora… la corrente può trascinarlo… E Carmaux?… Dove sarà Carmaux?…»
Poi si ripiegò bruscamente su sé stesso e si lasciò cadere sulla riva, mandando un sordo gemito.
«Signor Morgan!» gridò Jolanda, slanciandosi verso di lui per sorreggerlo.
«Non spaventatevi, signora» rispose il filibustiere, rimettendosi prontamente. «I corsari hanno la pelle dura.»
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