L’isola galleggiante

La brava fanciulla, certa che nessuno potesse minacciare il ferito e rassicurata dal silenzio che regnava nella vicina foresta, scese la riva, portando con sé lo spadone dello spagnolo, giacché poteva esserci qualche jacarè nella palude e s’imbarcò sul canotto, spingendolo al largo.

 Come abbiamo detto, su quella savana sommersa si estendevano numerosi banchi melmosi, che le piante palustri avevano subito ricoperto e che servivano di rifugio ad un numero infinito di trampolieri chiassosi.

 Jolanda, avendone osservato uno che pareva vastissimo e che era ingombro di canne altissime, si diresse verso quello, colla speranza di fare un’ampia provvista d’uova.

 Non era lontano che mezzo miglio dall’accampamento ed essendo una canottiera abbastanza abile, in meno d’un quarto d’ora lo raggiunse.

 Fu però non poco sorpresa, nel salirvi sopra, sentendolo muoversi ed abbassarsi lievemente, come se quell’isolotto non posasse sul fondo della laguna.

 «È strana» mormorò. «Si direbbe che galleggia come una zattera. Che mi sia ingannata?»

 Si provò ad avanzare fra le canne e si convinse che quell’isolotto doveva essere formato da un’amalgama di rami, arrestatisi là forse intorno a qualche ostacolo e poi intrecciatisi strettamente, in modo da formare una di quelle zattere rassomiglianti a quelle che si scorgono sulle acque del lago del Messico.

 «Purché mi sostenga, non occupiamoci ad indagare come sia formato questo isolotto» mormorò la fanciulla.

 Legò il canotto ad una delle canne, sfondò una linea di paletuvieri che formavano come l’orlo della zattera e s’inoltrò cautamente, sollevando intorno a sé una vera nuvola di trampolieri.

 «I nidi non mancheranno di certo» disse Jolanda. «La raccolta sarà abbondante.»

 Si mise a costeggiare l’isolotto e con viva soddisfazione s’avvide di non essersi ingannata nelle sue previsioni.

 In mezzo alle canne, posate entro piccole buche col fondo coperto di foglie, vi erano delle uova in gran numero, alcune piccole ed altre grosse quasi quanto quelle delle galline.

 La fanciulla scartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola.

 Stava per ritornare al canotto, lieta di essersi procurata una colazione sostanziosa e tutt’altro che cattiva, quando sentì l’isolotto inclinarsi dolcemente verso il margine opposto, come se qualche grosso animale tentasse di salirvi.

 Dapprima provò un vago senso di terrore, trovandosi così lontana da Morgan; poi, ricordandosi di avere lo spadone dello spagnolo, un’arma poderosa e di buon filo, non ostante la ruggine che la ricopriva, la impugnò solidamente e fece una prudente ritirata verso il canotto.

 «Con pochi colpi di remo raggiungerò la riva» si era detta.

 Riaprì i paletuvieri e subito un grido d’angoscia le sfuggì.

 Il canotto, che pochi minuti prima aveva legato ad una grossa canna, se ne andava lentamente alla deriva, girando dolcemente su se stesso.

 «Ah!… Mio Dio!…» esclamò la disgraziata fanciulla. «Sono perduta!… Come farò ora ad abbandonare questo isolotto?»

 Gettò all’intorno uno sguardo smarrito, e non vide alcuno aprirsi il passo fra le canne ed i paletuvieri. Eppure l’isolotto subiva di quando in quando delle leggiere oscillazioni, specialmente verso il margine opposto.

 Qualcuno doveva, per qualche segreto scopo, aver lasciato allontanare il canotto, affinché la fanciulla rimanesse prigioniera sull’isolotto.

 «Che vi sia qualche indiano nascosto fra questi vegetali?» si chiese Jolanda. «Eppure non ne abbiamo veduto. Che si tratti di quei terribili selvaggi?» si domandò, retrocedendo fino sul margine dell’isolotto. «Che cosa potrei fare io se mi assalissero in parecchi?»

 Si era fermata, coi piedi quasi in acqua, scrutando attentamente le canne e sembrandole ad ogni istante di udire il sibilo di qualche freccia. Invece nulla; anzi, l’isolotto non si agitava più e si manteneva perfettamente immobile.

 Un po’ rassicurata, guardò il canotto. La debole corrente l’aveva spinto verso un banco pantanoso emergente dall’acqua di qualche palmo, lontano un centinaio di metri.

 «Non potrò mai raggiungerlo» mormorò. «Non oserei immergermi fra queste acque, che possono nascondere dei voraci caimani: chissà anzi che non mi spiino in questo momento, in attesa di divorarmi.

 «Cerchiamo di avvertire il signor Morgan, poi vedrò come potrò fare per raggiungere il canotto.»

 Colle mani fece portavoce e gridò con quanto fiato aveva:

 «Signor Morgan!…»

 Il filibustiere, che si trovava a meno di mezzo miglio, udì distintamente la chiamata, poiché si sollevò più che poté, gridando a sua volta:

 «Che cosa desiderate, signora di Ventimiglia?»

 «Hanno tagliata la liana del mio canotto e non so come fare a ritornare.»

 «È affondato?»

 «No, si è arenato a cento metri da me.»

 «E chi ha recisa la corda?»

 «Non lo so, eppure temo che qualcuno si sia accostato all’isolotto.»

 «Non potete costruire una zattera?»

 «Non vi sono che delle canne, qui.»

 Il filibustiere fece un gesto di disperazione.

 «E non poterla aiutare in modo alcuno!» gridò. «Signora, sapete nuotare?»

 «Sì.»

 «Gettatevi in acqua senza indugio e raggiungete il canotto.»

 «E gli alligatori?»

 «È vero, non vi avevo pensato» rispose Morgan. «Cercherò io di venire verso di voi.»

 «Ve lo proibisco. La vostra ferita s’inasprirebbe, e poi chissà se voi potreste riuscire nell’intento.»

  L’isolotto si era nuovamente piegato verso il margine opposto, con degli scricchiolii sordi.

 «Non spaventiamo inutilmente il signor Morgan, e cerchiamo di cavarcela meglio che è possibile» disse. «Io non devo contare su di lui o sarebbe capace di commettere qualche pazzia per venire in mio aiuto. La figlia del Corsaro Nero deve mostrarsi degna del padre.»

 Aprì arditamente le canne colla mano sinistra e s’avanzò risolutamente colla spada tesa, pronta a colpire.

 L’isolotto non aveva più di dieci metri di larghezza su una lunghezza di quindici o sedici, quindi in pochi istanti giunse sulla riva opposta.

 Con sua sorpresa non vide nessuno. Solamente notò che un gruppo di fusti di legno cannone che crescevano su di un minuscolo banco, lontano pochi passi, si agitava ancora come se qualcuno vi si fosse nascosto nel mezzo.

 «Deve essere stato un caimano» disse Jolanda. «Spinto dalla fame, avrà cercato di salire sull’isolotto colla speranza di sorprendermi.

 «Lasciamolo in pace e cerchiamo invece di trovare qualche mezzo per raggiungere il canotto.»

 Ad un tratto le sfuggì un grido di gioia.

 «Io dimenticavo che quest’isolotto è galleggiante!» esclamò. «Cerchiamo qual’è l’ostacolo che lo trattiene e recidiamolo. Libero che sia, la corrente può portarmi là dove si trova il canotto, o per lo meno, verso la riva.»

 Si mise a percorrere l’isolotto in tutti i sensi, spiccando, di quando in quando, un salto, per assicurarsi della sua solidità, facendolo ogni volta ondeggiare vivamente, e s’arrestò verso il centro dove ergevasi una massa informe coperta di muschi e di piante parassite.

 «Che sia questo l’ostacolo?» si domandò. «Si direbbe che questo è un pezzo di tronco e che attorno ad esso tutte queste piante si sono fermate ed intrecciate strettamente.»

 Prese lo spadone e tagliò muschi e piante, mettendo allo scoperto un pezzo d’albero ormai semi-imputridito che si scheggiava facilmente sotto i colpi dello spadone.

 «Me l’ero immaginato» mormorò la fanciulla. «È questo che trattiene l’isolotto come un’àncora.

 «Tagliato che sia, tutta questa massa seguirà la corrente ed in qualche luogo mi condurrà.»

 S’appressò all’orlo del galleggiante e si mise a gridare:

 «Signor Morgan!… Signor Morgan!…»

 «Signora» rispose il filibustiere.

 «Se ritardo a tornare, non inquietatevi. Ho trovato il mezzo di raggiungere egualmente la riva.»

 «Non correte alcun pericolo? Ditemelo od io tenterò la traversata della laguna a nuoto.»

 «Oh!… Non fatelo, non muovetevi, signor Morgan. Rimanete tranquillo e prima di mezzodì io sarò, spero, con voi.»

 Fece ritorno al tronco e dopo d’aver tagliate all’intorno le radici delle piante acquatiche, che formavano il fondo del galleggiante, e aver levato i detriti vegetali già quasi convertiti in terriccio, si mise a lavorare a colpi di spadone con tutte le sue forze.

 La lunga immersione aveva guastato il legno, una vera fortuna, poiché quell’albero, spezzatosi chissà per quale causa, ed affondato, aveva una circonferenza notevole, e certo la fanciulla non sarebbe mai riuscita a spezzarlo, senza l’aiuto d’una buona scure.

 Lavorava già da una buona mezz’ora, con crescente accanimento, decisa a non interrompersi fino all’esaurimento completo delle sue forze, quando sentì l’isola nuovamente oscillare, poi piegarsi verso un lato.

 «Che sia il caimano che ritenta l’attacco?» si domandò, voltandosi rapidamente. «Quel bestione vuole un buona lezione e gliela darò. Quei rettili non sono già voraci né pericolosi come i coccodrilli, e poi non sono molto agili a terra e le canne gl’impediranno di servirsi della sua coda.

 «Finiamola!…»

 Decisa ad affrontare l’ingordo sauriano, onde non venire da un momento all’altro sorpresa, si avanzò adagio adagio, scostando le canne dolcemente per non fare rumore.

 Era già giunta dietro i paletuvieri, quando udì due tonfi, uno subito dopo l’altro e vide balzare in aria un fiotto di spuma giallastra.

 Con un salto fu sul margine dell’isolotto e si curvò prontamente allungando lo spadone, poi si ritrasse subito, facendo un gesto di terrore.

 Attraverso l’acqua, che era piuttosto trasparente, aveva veduta una forma umana nuotare velocemente e scomparire in mezzo alle larghe foglie dei mucumucù e delle victoria.

 «Un uomo!…» avea esclamato. «E forse erano due!… Che siano indiani antropofagi?»

 Si abbassò dietro le rizofore per non venire scorta e guardò il banco, che si trovava di fronte all’isolotto e su cui poco prima aveva veduto agitarsi i fusti di legno cannone.

 Non erano trascorsi cinque secondi, quando vide una testa coperta da lunghi capelli biondastri, emergere quindi un corpo semi-nudo, scivolare fra le piante e scomparire.

 Poco dopo un altro ne sorgeva a breve distanza e pure si nascondeva fra le piante.

 «Sono due cannibali» mormorò la povera fanciulla, rabbrividendo. «Il colore dei loro capelli li ha traditi. Quei miserabili cercano di prendermi per divorarmi. Che siano due di quelli che ci hanno fatti fuggire? Il pericolo è grave e bisogna che mi affretti a liberare l’isolotto dall’ostacolo che lo tiene prigioniero.»

 Per un momento ebbe il pensiero di avvertire Morgan, poi, riflettendoci meglio, vi rinunciò. Già non poteva esserle di alcun aiuto e nel tentativo di salvarla avrebbe commesso qualche pazzia.

 Rimase in osservazione alcuni minuti, poi vedendo che i due indiani non si facevano vivi, quasi persuasa che non osassero affrontarla direttamente e che fossero privi d’armi, non avendo veduto indosso a loro alcun arco, anzi nemmeno un coltello, ritornò verso il centro dell’isola, riprendendo il duro lavoro.

 Il tronco era già stato profondamente intaccato dalla grossa lama dello spadone, un’arma impareggiabile, forse di vero acciaio di Toledo, temprato nelle acque del Guadalquivir.

 Ci volle una buona ora prima che quel pezzo di legno fosse tagliato a sufficiente profondità per permettere a quell’ammasso di radici e di piante di potersi liberamente muovere.

 «Va!…» esclamò Jolanda. «l’isolotto si muove! Sono salva!»

 Quel grido l’aveva mandato troppo presto.

 La massa galleggiante si era appena messa in moto, quando s’inchinò bruscamente da un lato lasciando filtrare abbondantemente l’acqua attraverso le radici ed il terriccio, poi un urlo rauco, che sembrava l’urlo di guerra di un indiano, squarciò improvvisamente l’aria.

 Jolanda aveva fatto un salto indietro, mentre un uomo di alta statura, quasi interamente nudo, grondante d’acqua, le si precipitò addosso allungando le mani per afferrarla.

 Dalla tinta della pelle, assai più chiara di quella degli altri indiani, dagli occhi azzurrognoli invece d’essere neri e dal naso adunco come il becco d’un pappagallo, la signora di Ventimiglia aveva subito riconosciuto nel suo assalitore uno di quei feroci abitatori delle selve interne del Venezuela, che si pascevano di carne umana; tuttavia non si smarrì.

 Aveva nelle vene il sangue del formidabile scorridore del mare e quantunque sola e giovanissima fece fronte all’impetuoso attacco del selvaggio.

 Questi d’altronde era inerme.

 «Indietro o t’uccido!» gridò la valorosa italiana, spingendo minacciosamente innanzi lo spadone.

 L’indiano, che si credeva abbastanza robusto per misurarsi con una creatura che gli pareva debole, invece di dare indietro spiccò un salto per strapparle l’arma.

 Jolanda con una mossa fulminea si sottrasse all’attacco, poi allungò il braccio armato, colpendo l’indiano sotto la gola e con tale violenza che la lama entrò nelle carni per parecchi pollici.

 Il ferito mandò un urlo feroce, si portò le mani sullo squarcio per arrestare il sangue che sfuggiva a fiotti, poi fuggì via come un pazzo, rantolando.

 Jolanda stava per slanciarglisi dietro onde costringerlo ad abbandonare l’isolotto quando udì dietro di sé le canne aprirsi violentemente.

 Ebbe appena il tempo di voltarsi e di rimettersi in guardia che vide apparire il secondo indiano, che teneva in mano un grosso bambù terminante in una rozza punta.

 Vedendo l’atteggiamento fiero e risoluto della fanciulla e soprattutto la spada che impugnava solidamente, ebbe un momento di esitazione.

 Jolanda che vedevasi rizzare dinanzi la morte, ne approfittò per incalzarlo vigorosamente, vibrando tre o quattro stoccate.

 La scherma non le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi.

 «T’uccido!…» gli gridò.

 L’indiano, sorpreso di aver trovato quell’inaspettata resistenza e forse spaventato dal grido di morte del compagno, indietreggiò verso l’orlo della zattera, digrignando i denti e ruggendo come una belva.

 Due volte aveva tentato di colpire la fanciulla colla sua arma primitiva, senza riuscirvi.

 Vedendosi presso il margine cercò, con un salto improvviso, di fare inclinare quell’ammasso di radici e di piante, colla speranza di far cadere la valorosa fanciulla e di gettarsele poi addosso a tradimento.

 Venutogli meno anche quel tentativo, tentò di scagliarsi sull’avversaria a corpo perduto e di stringerla fra le braccia; invece cadde in acqua con una puntata in mezzo al petto, che gli strappò un urlo di dolore.

 Quasi nel medesimo istante le acque si gonfiarono bruscamente presso di lui, due enormi mascelle apparvero munite di denti formidabili e si chiusero con un lugubre scricchiolìo intorno al suo corpo, tagliandolo in due.

 Il disgraziato ebbe appena il tempo di mandare un grido orribile e scomparve assieme al caimano, diventato inconsciamente alleato della giovane.

 Jolanda atterrita da quell’atroce spettacolo era rimasta muta cogli occhi sbarrati, fissi sul cerchio di sangue, che s’allargava a fior d’acqua.

 «Non supponevo che finisse così» disse, tergendosi il freddo sudore che le bagnava la fronte. «È orribile!… È orribile. Cerchiamo almeno di soccorrere l’altro, se è possibile.»

 Il primo indiano, fuggendo, aveva tracciato un largo solco fra le canne e le piante non si erano ancora alzate. Lo seguì fino sul margine dell’isolotto senza trovare quel disgraziato. Le foglie dei paletuvieri erano imbrattate di sangue non ancora coagulato, ma l’indiano non vi era più.

 Probabilmente era balzato in acqua ed era morto in fondo alla palude o era spirato su qualche banco vicino.

 «L’hanno voluto» disse con voce triste. «Sarei stata ben felice di risparmiarli.»

 Ritornò lentamente verso l’altro margine dell’isolotto e guardò verso la riva.

 Morgan non si scorgeva più e nemmeno l’accampamento. La zattera si era spostata e filava dolcemente attraverso un ampio canale aperto fra i banchi, andando alla deriva.

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