Ferrol era in quell’epoca un valente pittore molto conosciuto nella Grissinopoli, ma al pari di tanti altri artisti molto a corto di quattrini.
Un grande mattacchione però, cosa del resto naturalissima essendo un veronese. Vi è anzi appunto nel Veneto un proverbio che dice: «Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Vicentini mangiagatti e Veronesi tutti matti». Non doveva quindi lui, un artista e per di più un bohémien della più bell’acqua, fare eccezione alla regola.
Giovane ancora, se n’era andato pel mondo in cerca di fortuna, non portando con sè altro bagaglio che un grande ingegno ed una buona dose di spirito affatto francese.
Architetto di professione, un bel giorno aveva gettato all’aria compassi, matite e paletti per andarsene…. ad imparare la miniatura dai frati.
Dapprima fu creduto che quel caposcarico avesse avuto la malinconica idea di tapparsi in un monastero per diventare un fra Egidio o un padre guardiano.
Si seppe però più tardi che s’era appaiato con un certo fra Angelico che godeva fama di essere un buon miniatore ed anche un buon bevitore.
Un giorno, quando meno ce l’aspettavamo, ecco lanciare a destra ed a sinistra delle miniature. Sotto fra Angelico aveva fatto scuola e che scuola!… Il povero maestro, disperando di poter gareggiare coll’allievo, aveva finito col macinargli i colori. All’Esposizione di Torino presentò i suoi primi lavori facendosi ammirare per la freschezza delle sue tinte, per lo splendore dei suoi disegni.
Poi, preso chissà da quale capriccio, rinunzia a Roma e va a fondare uno studio in una soffitta di Via delle Scuole, studio diventato celebre fra i bohémiens della Grissinopoli.
Dopo i primi abbracci, egli mi guardò i panni che indossavo, dicendomi con quel suo sorriso sarcastico:
— Regna miseria in provincia, eh?
— Cosa ne sai tu?
— Non ti vedo le scarpe verniciate.
— Sono andate a finire al Monte d’Empietà, — risposi.
— Già in campagna non occorrono, — mi disse. — Anzi ti faremo mettere dei ferri a quelle che hai.
— È proprio vero che andremo in campagna?
— Oh!… E ne dubitavi? Sì, mio caro artista, andiamo a piantare le nostre tende in mezzo agli alberi ed alle biade. Lascia ora che ti presenti i miei amici.
— Uno sarà il pronipote di Spartaco.
— Ah!… lo conosci? — esclamò Ferrol ridendo.
— E anche quello delle tenaglie, — diss’io.
— Il misterioso Quintino!… Un bel tomo, mio caro. Peccato che abbia l’intenzione di andarsene al Parà. Quell’originale vuole andare a sentire quale sapore ha la febbre gialla. Su, entra nel mio palazzo artistico.
— Bel palazzo! — esclamai io.
— Ti lamenti! Forse che manca il fuoco qui? Abbiamo anche il rigatino, sai! E questo provinciale non pare contento!
— Infatti vedo che brucia una sedia.
— È la dodicesima; abbiamo però dell’altra mobilia qui. Possediamo perfino un seggiolone stile Luigi XIV a cui però manca una gamba. Lo bruceremo quando giungerà l’amico che aspettiamo.
— Allora la mobilia se ne va.
— Non ne abbiamo più bisogno. Non andiamo in campagna? Entriamo nel tempio dell’arte. Vedrai che meraviglie! Abbiamo perfino un museo che può far impallidire quello Capitolino. —
E senz’altro mi prese per le spalle e mi spinse attraverso una delle tende turche, facendomi entrare in una seconda soffitta: nello studio. La stanza dove ardeva la stufa era quella di ricevimento.
— Guarda ed ammira, — mi disse Ferrol. — Hai mai veduto una reggia simile? Figurati che tutta questa roba proviene da una famosa artista che tu pure hai conosciuta.
— La celebre….?
— Già.
— E come si trova qui?
— Eh! Tu adunque ignori che anche Guido si è dato alla pittura?
— Il figlio della celebre artista?
— Sì, anzi un giorno te lo farò conoscere. Ehi, pronipote di Spartaco, è vuota la bottiglia del rigatino? Bisogna servire gli amici. Oggi è giorno di baldoria! Se non ve n’è più, manda il portinaio a prenderne tre soldi e crepi l’avarizia. —
Lo studio di quella famiglia di bohémiens a primo colpo sembrava il retroscena d’un teatro. Abbondavano sopratutto certi avanzi di scene che dovevano però aver fatto il loro tempo od aver servito di nido ai topi. Buchi ve n’erano finchè si voleva.
Oltre alle scene, appesi alle travi si vedevano costumi di ogni specie e di tutte le epoche e grandi drappi pure bucherellati e scintillanti di stelle. Questi dovevano essere stati i manti regali della grande artista.
In un angolo vi era un trofeo d’armi: spade, pugnali, daghe intrecciati a candelabri di cartapesta, ed in alto una mezza dozzina di corone di latta dorata, scintillanti di pezzi di bicchieri.
In un altro angolo troneggiava la famosa poltrona stile Luigi XIV che Ferrol si proponeva di buttare sul caminetto dopo la sedia che stava consumandosi. Doveva essere un avanzo di teatro e doveva aver servito di trono a qualche Arduino d’Ivrea od a qualche Francesco I; ora però era quasi inservibile, avendo perduto una gamba.
Tuttavia appoggiata al muro, faceva ancora una discreta figura colla sua altissima spalliera sormontata da una corona reale. Dispersi poi pel suolo, diritti o rovesciati o appesi alle pareti, vi erano cartoni dipinti, tele appena coperte di biacca, quadri semplicemente abbozzati, miniature non ancora finite. Un pandemonio di pennellate insomma, che non rappresentavano nemmeno una testa.
Avendo osservato in un angolo una porticina sulla quale era scritto a lettere cubitali: «Mistero», supposi che i quadri di quella famiglia di bohémiens si trovassero nascosti là dentro.
— Cosa dici di questa reggia? — mi chiese Ferrol. — Tu non t’immaginavi di certo di trovare qui dentro tante ricchezze.
— Un vero splendore, — diss’io. — Dovete essere ricchi come cresi, con tante corone che vedo appese ai muri.
— Figurati che ne abbiamo venduta l’altro giorno una per…. quindici soldi.
— Che ci hanno servito per comperare un po’ di rigatino, — disse Quintino.
— Per provvedere al fuoco che mancava, — aggiunse il pronipote del gladiatore.
— Silenzio! — tuonò Ferrol. — Chi parla di miserie simili nella nostra reggia? Il fuoco c’è per oggi e basta.
— La sedia è consumata e la stufa sta per spengersi, — disse Quintino, con aria desolata.
— Ti do il permesso di sventrare la nostra poltrona, — disse Ferrol.
— No, — disse il pronipote di Spartaco. — È meglio mandare al Monte un’altra corona.
— Tu devi aver perduto il calendario, — osservò Quintino.
— E perchè dici questo?
— Non sai che oggi è domenica?
— Domenica! — esclamò Ferrol con doloroso stupore. — Ed io che credevo fosse sabato. Amici miei, noi siamo rovinati! —
I tre bohémiens si guardarono l’un l’altro con un imbarazzo così strano, che rimasi un po’ scombussolato.
Perchè dovevano avere tanta paura della domenica? La cosa mi sembrava assai inesplicabile.
— Orsù, — diss’io, vedendo i miei tre colleghi avviliti. — Cosa succede?
— Disgraziato, — mi disse Ferrol. — Non sai tu che fra due ore giungerà qui un celebre pittore?
— E così?
— E che dovremo preparare una cenetta nella nostra reggia?
— La prepareremo, — diss’io. — So fare anche il cuoco.
— Ah! Sì! — esclamò Ferrol.
— Allora, mio caro, metti fuori dei denari. —
A quel pugno scagliatomi in mezzo al petto, mi sentii mancare le forze e fui costretto ad appoggiarmi alla famosa poltrona, vittima predestinata dell’ingorda stufa.
I miei tre colleghi s’avvidero del mio malessere e mi guardarono di traverso. Avevano purtroppo compreso d’aver fatto un buco nell’acqua. L’indignazione di Ferrol, scoppiò come un colpo di fulmine:
— Tu non hai moneta suonante! Ed io che avevo contato sul tuo portafoglio! Tutti miserabili questi artisti di provincia!… È una indegnità!… Lo invitiamo a venire in campagna e non ha cento picchi in tasca!
— Orrore! — esclamarono Quintino ed il pronipote di Spartaco, con tono tragico.
— Adagio, — diss’io.— Il portafoglio non mi manca.
— E contiene? — gridarono i tre bohémiens, balzandomi addosso.
— Sette soldi.
— Nemmeno tanto da comperare una bottiglia di rigatino, — disse Ferrol abbandonandosi sulla poltrona.
Quintino e Spartaco mandarono un sospirone e si appoggiarono l’uno all’altro per sorreggersi a vicenda.
Ad un tratto vidi Ferrol alzarsi di scatto. Qualche idea luminosa doveva essere scaturita in quel cervello ordinariamente così fecondo di espedienti.
— Bisogna prendere una risoluzione eroica — diss’egli. — Quintino, tu sarai il nostro salvatore. Abbiamo ancora due ore di tempo, e possiamo fare dei miracoli.
— Hai qualche progetto? — chiese il giovane.
— No, però pensiamo un po’, salterà fuori. Raduniamoci a consiglio e discutiamo. A me la poltrona: sarò il presidente.
— E noi tutti a terra, — disse Spartaco. — Ecco Luigi XIV che riceve un’ambasciata del gran Sultano.
— Un’idea! — gridò Quintino. — Se andassi a battere le tasche del portiere? Forse qualche biglietto da dieci potrebbe uscirne.
— Non sai che gli dobbiamo già tre scudi? — disse Ferrol. — Ci manderebbe in quel paese senza darci nemmeno un picchio.
— Un’altra!
— Parla, — gridarono tutti.
— Conosco una vecchia ebrea che tiene bottega in Via Maria Vittoria.
— E che cosa fa? — chiedemmo.
— La rigattiera.
— E avrà la bottega ancora aperta? — chiese Ferrol.
— Sfido io! L’ha tenuta chiusa ieri!
— Allora andrai dall’ebrea, — disse Ferrol. — Prendi le corone e portagliele.
— Non ne ricaveremo più di quaranta soldi, — osservò il pronipote del gladiatore.
— Altri sette ne ho anch’io, — dissi. — Non dimenticatelo.
— Miserabile! — tuonò Ferrol. — E voi pretendete preparare un pranzo al pittore mio amico con quarantasette soldi!
— Offriremo un modesto spuntino, — disse Quintino.
— Bel concetto che si farebbe di noi. No, bisogna cercare qualche cos’altro.
— Ci sono! — gridò Quintino.
— Fuori, salvatore della famiglia artistica, — disse Ferrol.
— La zimarra!
— La mia?…
— È la migliore.
— E come farò poi ad uscire?
— Ti darò il mio soprabito.
— Vada la zimarra! — disse il miniatore, con rassegnazione. — Quintino, non perdere tempo. —
Il giovanotto scomparve nel gabinetto ove stava scritto Mistero, e poco dopo comparve colla famosa zimarra. Veramente era un pipistrello, di panno finissimo, acquistato dal miniatore in tempi migliori e che aveva già fatto più d’un viaggio al Monte d’Empietà, come diceva il pronipote di Spartaco.
Anzi un’altra volta aveva servito per ricevere degnamente un certo pittore romano che divorava per quattro e che beveva per otto. Una vera rovina pei bohémiens, ve lo assicuro, poichè oltre la zimarra avevano dovuto impegnare perfino dei calzoni ed un manto regale.
Quintino ripiegò per bene la zimarra e se ne andò con una velocità straordinaria, promettendo di portare in cambio un cestone di provviste.
Ferrol vedendolo fuggire col suo mantello non potè fare a meno di cantare:
— Addio, sante memorie… —
Il seguito però lo annegò nel fondo di un bicchierino di rigatino.
— Prepariamo la tavola, — disse Spartaco.
— Sì, — disse Ferrol. — La zimarra ci procurerà di certo un pranzetto luculliano.
— Dove ceneremo? — chiese Spartaco.
— Dove?… Per Bacco! Nel nostro museo, — rispose il miniatore. — So che il mio amico va matto per le antichità.
— Ed il servizio?
— Te lo farai dare dalla Bigia.
— Allora apriamo la botola. —
Vidi Spartaco levare il tappeto turco e mettere allo scoperto una tavola.
— Si va in cantina? — chiesi.
— No, — mi rispose Ferrol. — Ti pare che noi siamo persone da avere una cantina? Compiangerei quelle povere botti.
— Allora questa botola metterà in qualche sotterraneo.
— Nemmeno: comunica coll’appartamento di Guido.—
Spartaco aveva già alzata la tavola ed era scomparso giù per una scalettina. Pochi momenti dopo lo rividi comparire carico di piatti. Mentre si disponeva a ridiscende, Ferrol andava esaminando alcune bottiglie che aveva levate dietro un quadro appoggiato contro la parete. Mi pareva di cattivo umore perchè lo udivo brontolare:
— Beoni impenitenti, — diceva. — Come preparare ora il rigatino? Bisognerà mettere delle serrature dappertutto. Solamente mezza bottiglia di cognac e dieci gocce di menta! Che ubriaconi questi artisti!
— Che cosa fai? — gli chiesi.
— Faccio del rigatino, — mi rispose. — In mancanza di champagne offriremo questo.
— E la formula? — chiesi.
— Grappa lunga vita con tre goccie di menta. Se sentissi che liquore delizioso, mio caro. Roba da far risuscitare i morti e da guarire i tisici al terzo ed anche quarto stadio.
— Ne parlerò al medico del mio paese.
— Sia pure, ad una condizione.
— E quale?
— Che mi mandi due bottiglie di barbèra. Cosa vuoi? Questi artisti vanno matti pel vino del Piemonte. Figurati che ne berrebbero tanto da far navigare una corazzata. È per economia che io ho fatto addottare il rigatino, e con tuttociò, guarda. —
Andò a frugare in un angolo e prese un librettino che aperse dinanzi a. me.
— Questo è il nostro libro maestro. Guarda qui: Spesa di Rigatino: 4 lire.
— Beoni! — esclamai.
— Ed in tre sole settimane, capisci? Se non ci metto rimedio questi artisti finiranno per bere anche le armi ed i tappeti, — mi disse Ferrol con un sospirone che veniva proprio dal profondo del cuore. — Bando alle malinconie! Oggi è giorno di baldoria. Faremo economia in campagna. Vieni ad aiutarmi.
— Dove andiamo?
— Corpo di cento pipe! Nel museo! —
Sollevò con un gesto maestoso una tenda turca, bucata al pari delle altre, e spingendomi innanzi, mi disse:
— Guarda…. e stupisci!…
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