Capitolo V – La casa degli spiriti

Un quarto d’ora dopo tutta la famiglia artistica si trovava raccolta intorno alla stufa, entro la quale bruciavano allegramente le fabbriche della sezione industriale, Nerone e due sedie. La poltrona stile Luigi XIV, orgoglio dei bohémiens, aveva già terminata la sua esistenza.

Quattro bottiglie acquistate a credito dal portiere in non so quale cantina dei dintorni aspettavano imperterrite il momento di venire vuotate.

Quel brav’uomo di Quintino, abile diplomatico, era riuscito a decidere il superstite della Crimea, facendogli scivolare nelle tasche i miei sette soldi ed un cartoccio di cicche, e le bottiglie erano venute.

Ancora una volta, l’onesto Quintino doveva salvare l’onore dei bohémiens di Via delle Scuole.

Meritava una lapide, ve l’assicuro. Quando udremo la sua morte apriremo una sottoscrizione per un monumento. Forse, per quell’epoca, potremo farlo

— Udiamo la storia della casa degli spiriti, — disse il pronipote di Spartaco. — Può servirci a qualche cosa, per fare un quadro, per esempio.

— Che ipotecheremo prima che sia finito, — disse Ferrol. — Lo tasseremo di venti bottiglie.

— Da bersi in campagna, — diss’io.

— Intanto stappate uno di quei quattro lampioni,— disse il pronipote di Spartaco. — Quando saranno vuoti, ci vedremo meglio. —

Il consiglio fu accettato. Riempiti i bicchieri e vuotatili coscienziosamente, Ferrol prese la parola.

— Dovete sapere che l’anno scorso, come quest’anno, eravamo stati presi dalla passione per la campagna. Quintino ed un mio amico pittore, erano diventati assolutamente maniaci. Perfino in sogno non parlavano che di boschi, di praterie, di partite di caccia e sopratutto di merende all’aria libera. Gli affari, in quell’epoca, cosa veramente straordinaria, procedevano a meraviglia. Pareva che i marciapiedi di Roma fossero lastricati di mecenati. La zimarra non aveva ancora sentito il bisogno di fare dei viaggi, è vero, Quintino?

— Anzi i pomodori crescevano come i funghi sulla nostra tavola, disse il cuoco ridendo. — Non era mai regnata tanta abbondanza nel nostro studio. In una parola, nuotavamo fra i biglietti da cento.

— Veri Nababbi, — disse il pronipote di Spartaco.

— Dopo di aver girato tutte le colline della capitale, riuscimmo finalmente a scovare una casetta presso Frascati, con il relativo orticello.

— E cantina, — aggiunse Quintino.

— Sì, è vero, c’erano sette botti, — risse Ferrol.

— Che riempimmo d’acqua colorita per far credere che contenevano vino.

— Riprendo il filo della narrazione, — disse Ferrol. — Trovato che il castelluccio — lo avevamo battezzato così — ci conveniva, anche pel prezzo molto esiguo, un bel giorno andammo a prendere possesso del nostro nido.

La nostra entrata in quel paesello, fece epoca. Una carrozza a due cavalli con postiglione vestito da scimmia, lampioni intorno e aringhe affumicate ai raggi delle ruote.

Fu una entrata da veri castellani, ve lo assicuro. Figuratevi che ubriacammo perfino i cavalli!…

Che vita, amici miei!… Una baldoria continua!… Nessuno più pensava a lavorare, anzi per impedire qualsiasi tentativo, avevamo gettato dalle finestre i pennelli ed anche i colori.

Ogni sera era un chiasso d’inferno, che durava fino all’alba, con poca soddisfazione dei vicini.

Dopo quindici giorni nessuno voleva più udire parlare dei castellani e quando uscivamo nelle vie della borgatella ci si guardava di cattivo occhio.

Non vi dico poi dei dispetti che ci facevano tutti. Anche la nostra portinaia si era schierata fra i nostri avversari. Giurammo di vendicarci ed inventammo gli spiriti.

Fingemmo di abbandonare il castelluccio e di ritirarci a Roma.

La notte però, quando tutti dormivano, salivamo a Frascati ed accendevamo lumi dappertutto.

Ne mettevamo perfino sul tetto e sugli alberi del giardino, poi facevamo rotolare per le scale le sette botti della nostra cantina, facendo un tale fracasso da svegliare i morti.

Alle finestre poi facevamo svolazzare drappi bianchi e comparire dei fantasmi giganteschi che allungavano le braccia verso gli incauti passanti.

Prima dell’alba ritornavamo alla capitale per ricominciare la notte successiva.

Un vero terrore regnava fra i terrazzani. Nelle osterie e nei caffè non si parlava altro che della casa degli spiriti.

I nostri vicini di casa erano tutti fuggiti con grande disperazione dei proprietari, e dopo la mezzanotte nessuno osava più passare dinanzi al nostro castelluccio.

Gli spiriti d’altronde erano sempre pronti a mettere in fuga gli audaci.

Per due mesi continui, con una costanza degna di miglior causa, nella nostra casa si videro svolazzare alle finestre drappi bianchi e si sentirono fragori di catene, finchè un giorno, temendo di finir male, pensammo di andarcene.

D’altronde la buona stagione era ormai terminata, ed avevamo dato fondo alle nostre ricchezze. Abbandonammo alla chetichella la borgata, e di notte prendemmo la via di Roma.

La casa degli spiriti non ha ancora perduta la sua triste fama e anche oggidì, a Frascati, se ne parla sempre, fra quei buoni terrazzani.

— Spero che non avrete l’idea di rimettere in voga gli spiriti anche a Cavuretto, — disse Fra Angelico. Di quelle storie io non ne voglio sapere.

— Oh!… Maestro!… — esclamò Ferrol, fingendosi indignato.

E curvandosi poscia verso di me, mi disse in un orecchio:

— Faremo di peggio, lo vedrai. —

Io ne ero già persuaso.

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