Ci eravamo messi in isciopero. Arcistufi di aringhe e d’insalata, avevamo abbandonato i papiri egiziani ed i pennelli, giurando di non riprendere il lavoro finchè non tornavano sulla nostra tavola delle costolette, del vino e per di più anche del tabacco.
Il maestro aveva fatto il sordo continuando il regime del convento e noi, per vincerla, ci eravamo dati alla campagna.
Quintino, il tesoriere della famiglia artistica, erasi recato dalla sua amica ebrea e l’aveva tanto commossa da strappargli, con pochi panni, una ventina di lire. Con questa somma potevamo quindi far fronte alle esigenze dei nostri ventricoli.
Ci eravamo promessi di farla durare fino alla resa del frate, mettendoci nella più stretta economia. Tanto per cominciare, il primo giorno mangiammo dieci lire.
Colle altre però si poteva tirare avanti parecchi giorni. Tale almeno era il nostro parere; vi era però da dubitare sulle nostre intenzioni.
Avendo sospesi i lavori, facevamo un po’ di tutto per passare le giornate. Quintino andava a caccia nelle vallette vicine, mettendo dei lacci dovunque, senza riuscire a prendere nemmeno un misero passerotto; il pronipote di Spartaco andava a raccogliere l’uva nei suoi possedimenti che non aveva mai avuti; Ferrol ed io passavamo il tempo ad imbrattare i tavolini del caffè ed a chiacchierare colle ragazze. Anzi in quest’arte, il miniatore era diventato così abile, che quando le mamme lo vedevano, s’affrettavano a far sparire le figlie.
Il maestro invece rimaneva tutto il giorno tappato nella sua stanza occupato a dipingere papiri ed a decifrare certi caratteri da noi mai veduti e che lui asseriva essere egiziani e caldei.
Era diventato di pessimo umore. Quando ci vedeva entrare, scappava come se noi lo volessimo mangiare.
Qualche sera, per vendicarsi del nostro sciopero, chiudeva la porta a chiave per impedirci l’entrata.
Era una fatica affatto inutile poichè entravamo dall’orto.
Se chiudeva le finestre salivamo per la terrazza ed entravamo dagli abbaini.
Lo sciopero durò quattro giorni. La mattina del quinto l’amico Quintino ci diede l’ingrata notizia che la nostra cassa era esaurita.
La capitolazione ormai ci pareva certa. Non sapendo con chi prendercela, accusavamo Quintino di dilapidazione.
Quelle venti lire avrebbero dovuto durare almeno dieci giorni.
Con cinquanta centesimi ciascuno, si poteva sbarcare alla meno peggio il lunario. Avevamo già vissuto altre volte con meno.
— Bisogna cedere, — disse il nipote di Spartaco, sospirando. — Torniamo alle aringhe e all’insalata.
— Giammai, — disse Quintino. — Un vero bohémien non deve vendersi per un pesce salato.
— Preferisco vivere di erbe cotte, — disse Ferrol. — Io non farò la pace col maestro.
— Col tuo macinacolori, — disse Quintino. — Sarebbe indegno di te.
— Prendiamo una grande decisione, — disse il pronipote di Spartaco. — Io non voglio morire di fame.
— Consigliamoci, — diss’io.
— Piantiamo il frate e andiamo a cercare fortuna a Torino, — disse Quintino.
— È impossibile. — disse il pronipote di Spartaco. — Non abbiamo nemmeno più l’alloggio.
— Ove andremo a dormire?…
— La stagione non è più tanto fredda e dell’erba ce n’è sulla riva del Po. Al Valentino non si deve star male.
— E se Quintino andasse dall’ebrea? — chiese Ferrol. — Sono ancora ricco di camicie.
— E sei anche ricco di vestiti, — notò il pronipote di Spartaco.
— Andiamo dall’ebrea, — conclusero Quintino ed il pronipote, di Spartaco. — Con un’altra storia commovente la faremo piangere più del solito e caveremo altri picchi. —
Affidammo ai due bohémiens le camicie e qualche vestito fuori d’uso che avevamo prima diligentemente spazzolato perchè facesse buona figura e fiduciosi attendemmo il loro ritorno.
Con nostra grande apprensione venne la sera senza che si facessero vivi. Le nostre inquietudini avevano prese proporzioni allarmanti in relazione coi nostri stomachi, digiuni fino dal mattino.
Non avevamo che quattro soldi fra tutt’e due ed il maestro non aveva lasciata nemmeno un’aringa in cucina.
Meditammo a lungo prima di spenderli. Ferrol voleva comperare quattro uova ma non avevamo nemmeno un grano di sale; io avrei desiderato un po’ di prosciutto o per lo meno del salame. Ed il pane? La questione era tanto grave, che per non rompersi oltre la testa comperammo…. due toscani.
A notte inoltrata, quando già eravamo a letto, udimmo agitarsi la vite che s’arrampicava sul terrazzino.
Pochi minuti dopo vedemmo entrare Quintino ed il pronipote di Spartaco. Avevano tutt’e due gli occhi fuori dalle orbite ed erano pallidi come se avessero preso un grande spavento.
— Datemi dell’acqua, — disse Quintino. — Se questa notte non mi coglie un accidente, non morrò più mai.
— Cosa vi hanno fatto? — chiedemmo. — Siete stati aggrediti?
— Capisci…. cinque…. cinque…. cinque… — balbettò Quintino.
— Cinque assassini? — chiese Ferrol mettendosi le mani nei cappelli.
— Che assassini? — cinque…. cinque….
— Cento, — aggiunse il pronipote di Spartaco, che fino allora pareva avesse avuto una paralisi nella lingua.
— Cinquecento! — esclamammo noi. — Misericordia! Cinquecento assassini!…
— Franchi!… — articolò Quintino.
— Cinquecento franchi! — gridò Ferrol. — Questi disgraziati si sono ubbriacati e si credono ricchi! —
Quintino per tutta risposta si cacciò una mano in tasca e ci scaraventò addosso un pugno di biglietti di banca.
Se non ci colse uno svenimento fu un vero miracolo.
Dei biglietti di banca! Cinquecento! Era possibile? Per un momento ci venne il sospetto che i nostri disgraziati amici avessero svaligiato qualche viandante e li guardammo con orrore. Ma, non poteva essere. L’onesto Quintino grassatore? Oibò! E rigettammo lungi da noi l’atroce sospetto.
— Cinquecento! — continuava intanto a gridare Quintino saltando da un letto all’altro, come se fosse diventato pazzo.
— Cinquecento, — ripeteva il pronipote di Spartaco, come un eco.
Non c’era verso di levargli di più dalla bocca.
— Il vile metallo li ha fatti diventare matti, — disse Ferrol.
— La vile carta, — diss’io. Non c’è nemmeno un pezzo di rame. —
Quando Dio volle, avemmo la spiegazione di quella pioggia di biglietti. Quintino si era ricordato di una pergamena donatagli tempo addietro da Ferrol e poi depositata presso un suo parente.
Sapendo che aveva del valore, era andato a prenderla e l’aveva offerta ad un antiquario il quale gliela aveva pagata — incredibile a dirsi — cinquecento lire!
Eravamo ricchi come nababbi. Con cinquecento lire noi ci credevamo capaci di comperare perfino la casa che abitavamo.
Quella notte nessuno dormì. Ci aveva presa la paura dei ladri e perciò vegliammo sul nostro tesoro.
L’indomani però ci regalammo una colazione da principi. Ventisette lire di conto, non compresa la mancia!
Abbasso le aringhe ed in alto i capponi! Era diventata la nostra divisa.
Quando tornammo a casa, il maestro, spaventato, scappò nel suo solaio, dopo d’aver minacciato di cacciarci in istrada.
Avevamo portato con noi alcune bottiglie, sicchè tutta la notte fu un continuo fracasso. Il nostro coro Viva Noè gran patriarca fece furore e non cessò che molto tardi.
Fra Angelico furibondo per quel baccano, ci tirò dietro i suoi sandali e ci diede degli ubriachi. Credo che non avesse torto.
Nei giorni seguenti fu un continuo fracasso. Dalle nostre finestre piovevano in istrada perfino pennelli e colori.
Il maestro, sdegnato, strepitava da mattina a sera minacciandoci di chiamare le guardie per farci buttare in istrada. Era diventato idrofobo.
Un giorno ci minacciò di andarsene e di lasciarci soli. Era quello che volevamo. L’accordo non esisteva più fra noi e lui; era quindi meglio che prendesse il treno per Roma. Viceversa poi, non voleva saperne di sgombrare. Un po’ di ragione forse l’aveva, avendo pagata la pigione di sua tasca.
I miei amici invece non erano di questo parere. Per loro era diventato un intruso, un noioso. Si giurarono di farlo scappare, mettendo a dura prova la sua pazienza di frate.
Per deciderlo, cominciarono a spargere la voce che di notte si udivano per la casa dei rumori sospetti. Quintino aveva affermato d’aver veduto un fantasma nascosto sul solaio; il pronipote di Spartaco di aver incontrato sulla scala della cantina un’ombra; Ferrol diceva invece che sotto il suo letto aveva veduto, per tre notti di seguito, una forma umana e che l’aveva udita sospirare. Fra Angelico da principio non aveva badato alle nostre dicerie, anzi ci aveva chiamati visionari. A poco a poco ci accorgemmo che incominciava ad impressionarsi.
Eravamo già a buon punto.
Per affrettare la sua fuga, cominciammo a far udire gli spettri. La notte salivamo sul tetto e andavamo a picchiare ai vetri del suo abbaino, oppure facevamo rotolare nell’attiguo granaio un barile vuoto.
Quintino invece si divertiva a trascinare pel giardino la catena del camino ed a mandare certi lamenti, che facevano venire la pelle d’oca anche a noi.
Il povero frate non dormiva più e sovente ci chiamava perchè andassimo a tenergli compagnia. Era fiato sprecato; noi ci guardavamo bene dal muoverci.
Vedendo che i rumori non bastavano a farlo scappare a Roma, cominciammo a fare gli spettri.
Quintino, con indosso un lenzuolo lunghissimo, una notte comparve nella stanza del maestro. Ne nacque un subbuglio da non dirsi.
Fra Angelico, atterrito, scappò sul tetto urlando come se lo pelassero vivo e facendo accorrere tutti i vicini. Ci volle del bello e del buono a trarlo di là e ricondurlo nella sua stanza.
Quella notte noi fummo costretti a tenergli compagnia ed a sospendere le apparizioni.
— Vedi, maestro, — gli disse Ferrol, — a quali guai ti esponi colla tua avarizia?
— Cosa c’entra l’avarizia cogli spettri? — chiese fra Angelico.
Quintino una notte comparve nella stanza del maestro….
— Come, non lo sai? — riprese il miniatore con voce d’oltre tomba. — Sappi adunque che gli spettri perseguitano gli avari. Anche un mio zio, che era tirchio come te, li vedeva. —
Se il miniatore non era pronto a scappare, il poco paziente maestro gli rompeva il naso con un sandalo.
L’apparizione del fantasma fece epoca al Cavuretto. Se ne parlò al caffè, dal macellaio, dal tabaccaio e perfino nell’ufficio postale.
Le ragazze, quando passavano dinnanzi alla nostra casa, si facevano il segno della croce, ed i ragazzi scappavano via come se dalle nostre finestre fuggissero legioni di folletti.
Era una disgrazia per noi, perchè, se devo dirvelo, non ci spiaceva spifferare dichiarazioni alle forosette che passavano sotto la casa. Chi se la prese più a cuore di tutti fu Quintino; dopo l’avventura del fantasma fu piantato in asso dalla sua bella.
Quella briccona non aveva più voluto saperne di avvicinarsi alla nostra casa ed aveva mandato l’amico a coltivare i cavoli in un certo paese che non voglio dire.
Per un po’ di tempo restammo tranquilli, poi i rumori ricominciarono.
Il maestro non voleva andarsene, anzi aveva pregato di lasciarlo solo. Noi che non avevamo alcuna intenzione di abbandonare quel nido, e che volevano sbarazzarci di lui, ricominciammo la notte a far rotolare barili giù per le scale ed a trascinare catene per l’orto.
Il maestro non se ne diede per inteso. Forse si era accorto che i fantasmi eravamo noi, e dormiva saporitamente non ostante i lamenti di Quintino e le catene di Ferrol. Visto il nostro insuccesso, ideammo un colpo supremo.
— Facciamo le teste di morto, — ci disse un giorno Ferrol. — Se non si ammalerà per lo spavento, scapperà di certo. —
Da un suo amico farmacista era riuscito ad ottenere un vasetto di fosforo. Quella materia ardente suggerì al miniatore un tiro così birbone, da non augurarlo a nessuno.
Avevamo fatto un po’ di festa in famiglia ed il maestro, che ci teneva un po’ al succo di Noè, aveva bevuto più del consueto.
Aspettammo che fosse addormentato e poi Ferrol, aiutato da Quintino, s’introdusse nella stanza del maestro e con un ferro intinto nel fosforo tracciò sul muro quattro teste di morto, scrivendoci sotto:
Vieni con noi!…
Poi andarono a battere ai vetri dell’abbaino per svegliare il povero maestro. Tutto d’un colpo udimmo delle urla disperate. Il pover’uomo si era svegliato, e vedendo scintillare sul muro quelle teste di morto si era messo a urlare con quanto fiato aveva nei polmoni.
Io non so davvero come non fosse morto dallo spavento.
Fuggendo gettò giù dalla scala il nipote di Spartaco, che stava per salire, rompendogli nuovamente il naso e sfondò tre vetri della porta.
Ci volle molto per calmarlo. Per un momento credemmo che fosse impazzito.
Fortunatamente il suo cervello non si era guastato.
L’indomani il maestro partiva per Roma senza nemmeno salutarci.
Egli però ci ha perdonato quella birbonata e siamo ancora i migliori amici del mondo. Questo ve lo posso accertare.
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