Una villa molto bella, affittata per varii mesi, ossia fino al termine del grande lavoro ideato dal nostro maestro ed amico, si trovava presso Lucento.
Aveva spaziosi cortili pel giuoco delle boccie, terrazze, orto, giardino e soprattutto cantine.
A noi era stata riservata una piccola costruzione a due piani che rassomigliava un po’ ad una colombaia, malgrado il parere contrario dell’ex-segretario del moro, il quale ostinavasi a chiamarla invece il nostro palazzo.
Vi erano tre stanze nella colombaia, un’altra si trovava presso i fienili. Questa fu serbata a Rodolfo, avendoci avvertiti che soffriva atrocemente il freddo. Presso la paglia doveva stare più caldo.
Delle tre della piccionaia, una fu destinata a salone da ricevimento, prevedendo già molte visite di amici; una da letto e la terza da studio.
Il castellano ce le aveva fatte ammobiliare non però al nostro gusto, quindi il nostro primo lavoro fu quello di gettare all’aria ogni cosa, senza tener conto dei proprietari.
La pigione era stata puntualmente pagata, e anticipatamente per sopra mercato, quindi noi potevamo considerarci come i veri padroni del luogo.
Accomodata la mobilia secondo i sapienti consigli dell’artista barbuto, ci accorgemmo che molto rimaneva ancora da fare, soprattutto nel nostro salone di ricevimento. No, non era nè decoroso, nè degno di bohémiens della nostra specie.
Anche il nostro studio lasciava un po’ a desiderare. Mancava soprattutto una finestra, essendovene una sola.
Il rimedio però fu pronto. Senza nemmeno avvertire il castellano e la castellana, una notte lasciammo i nostri letti e con martelli e scalpelli sfondammo il muro. La mattina la finestra era aperta con grande sorpresa del castellano, dei suoi vassalli e anche dei suoi polli.
Forse avranno brontolato, ma bah!… Non avevamo pagato la pigione forse? Mancava la luce e noi l’avevamo fatta entrare. Ecco tutto!…
La cosa non poteva essere più naturale. Almeno tale era il parere dell’artista barbuto e dell’ex-segretario del moro.
Dopo la finestra ci fu l’ornamento dei muri. Bianchi non ci piacevano; neri nemmeno, non essendo un colore adatto alle nostre nature più allegre che funebri; il rosso offendeva gli occhi di Alfonso con pericolo che diventasse un toro furibondo; il verde…. ahi!… Rammentava troppo la tinta delle nostre tasche.
Dopo maturo esame, ci decidemmo per le illustrazioni. Saccheggiammo i caffè dei dintorni, facendo man bassa sulle collezioni della Scena illustrata e della Tribuna della Domenica.
Così si poterono ammirare dappertutto, perfino nel soffitto, scene d’ogni specie. Vi erano perfino gli Svenati nel deserto, nuotanti in un mare di sangue, opera di Alfonso; le Corse dei cavalli volanti, lavoro in verde dell’artista barbuto; un Ballo di topi, a cavallo degli elefanti, ed un Mercante di gatti. Abbondavano poi angeli, demonii, uomini, ragazze, bambini, tutti sanguinanti. Una vera imbrattatura da macellai.
Il pittore di quel capolavoro, fortunatamente era ignoto.
Terminato lo studio, rivolgemmo le nostre cure al salone di ricevimento.
L’affare era molto serio. La discussione fu così lunga che ci addormentammo sui tavolini.
Dopo dodici sedute, l’accordo fu completo. Anche il romano, eterno contraddittore, aveva finito per abbracciare le nostre idee.
Durante quei giorni qualche cosa si era fatto. Avevamo fabbricato dei palloncini chinesi, invenzione del miniatore; costruiti ombrelli, dipinti pupazzetti, appesi drappi di vario colore, provenienti da un campionario, regalatoci da un nostro amico. Non bastava.
Spedimmo messaggi a Torino; anzi per maggior economia all’emporio del Pallone, coll’incarico di visitare quei rigattieri e quegli antiquari. Il risultato fu splendido, inaspettato.
Tornarono con alcune sciabole di legno che dipinte in bronzo ed oro dovevano fare una figura magnifica, e un Dante Alighieri in gesso, con parecchi buchi e delle crepature, ma del resto benissimo conservato. Devo aggiungere anche un serpente imbalsamato proveniente dalle Antille.
Mi ricordo ancora che Alfonso, vedendolo tirare fuori dal cesto ove era stato rinchiuso, ebbe tanto spavento da ammalarsi.
Quel serpente ci suggerì una idea luminosa, cioè quella di mettere nella nostra sala delle bestie imbalsamate.
Dovevano fare una superba figura in mezzo a dei vasi di fiori. Dovevano dare l’illusione di un pezzo di Paradiso Terrestre.
L’artista barbuto voleva delle oche; Alfonso invece voleva degli elefanti e dei leoni. Io invece avrei desiderato dei merli.
Non potemmo avere nè gli uni nè gli altri pel semplice motivo che un nostro amico si prese l’incarico di regalarci degli animali e dei volatili imbalsamati. Così potemmo arricchire la nostra collezione di quattro topi, di due grue, d’una faina, di tre falchi e d’una superba testa di becco.
Non bastava ancora. La nostra sala doveva essere più ricca.
Passammo una notte intera per deliberare, anzi chiamammo a consiglio anche il castellano. Per un caso strano, le idee piovettero con tale abbondanza, da non saperne che cosa fare.
Devesi notare che quella sera era stato fatto un trattamento di acqua zuccherata, perchè i nostri cervelli non corressero il pericolo di annebbiarsi.
Quella seduta memoranda diede dei risultati incredibili.
L’indomani eravamo tutti al lavoro. I colori correvano a fiumi sulle carte e sui cartoni.
Il primo frutto fu una collezione di pipe, montate su cartone, veri capolavori. Non mancava nemmeno il narghilè di Arabì Pascià e vi faceva bella figura anche quello del Sultano.
Dopo le pipe venne una collezione d’istrumenti musicali. Trombe, tromboni, bombardini, tamburi e grancasse tutti di cartone. Per ultima venne una collezione di quadri e di motti, da far crepare dalle risa. Ne cito alcuni per darvi una idea del buon umore di quei bohémiens:
Riempi il bicchiere vuoto,
Vuota il bicchiere pieno,
Tienti al precetto noto
Di mai lasciarlo pieno.
Dalla Bibbia.
Un altro:
Cos’hai, paggio Fernando,
Che favi e non guardelli?
Partita alle boccie
di Giacosa
N. B. – Riservati i diritti di autore.
Un terzo:
È proibito l’ingresso ai cani ed ai venditori ambulanti; sono tollerate le mosche, le zanzare e le pulci durante la stagione estiva.
Sulla scala che conduceva nello studio, una scala di legno tanto stretta e tanto erta da correre il pericolo di rompersi l’osso del collo, era stato collocato un cartello gigantesco con la scritta: Ufficio.
E più sotto:
Non si accettano domande d’impiego.
Splendida poi la nostra galleria di quadri. Quella del principe Borghese non poteva reggere al confronto.
Vi erano degli studi al rossetto ed al bleu; frutta dell’orto; collezioni di topi; la nostra guardia e caricature d’ogni specie. Ricordo un impiegato al debito pubblico sofferente di tisi che aveva una pancia da scoppiare e così ridicolo che non si potevano trattenere le risa nel vederlo.
Ultimo fu riservato lo stemma della famiglia artistica. Avendoci scritto l’amico letterato che sarebbe venuto presto ad alloggiare nella villa per lavorare in nostra compagnia, fu deliberato, innanzi tutto, di cambiare nome alla nostra piccionaia.
La Topaia artistica! Un nome rimbombante, come vedete, che fu subito scritto, a lettere cubitali, sulla porta d’ingresso.
Se abitavamo in una Topaia, noi dovevamo, di conseguenza, esserne i topi. Da ciò balzò fuori il nostro stemma.
Tre topi rampanti, coronati, con un gatto, pure coronato, ed una trappola. Ecco il nostro blasone.
Ora non si trattava che d’inaugurare le nostre sale. Desiderando che vi assistesse anche il nostro illustre amico, il grande pranzo fu rimandato fino all’arrivo del letterato.
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