L’inverno, molto crudo, non ostante le belle giornate di novembre, aveva posto fine alle nostre scorrerie, costringendo a chiuderci in Topaia.
Addio passeggiate per la campagna; addio marce notturne; addio scoponi e tressette.
Il nebbione che ogni sera calava freddo come se soffiasse dai ghiacciai delle Alpi, ci ricacciava inesorabilmente nel nostro studiolo. C’era stato bensì qualche tentativo di marcie notturne verso Torino; ma eravamo tornati, più che in fretta, accanto alla nostra stufa, bianchi per la brina.
Perfino il letterato aveva rinunciato alle sue scorrerie lungo le rive della Ceronda e alle sue disgraziate partite di pesca.
L’inverno non era fatto per le nostre mani, costrette a maneggiare penne e pennelli.
Fu dunque deciso di passare le serate in Topaia, accanto alla stufa, e perchè questa non corresse il pericolo di spegnersi, in seduta nominammo Alfonso gran fornellaio.
L’ex-segretario del moro Wandohobb oltre essere un dormiglione di prima forza, era anche il più freddoloso, quindi potevano contare con piena sicurezza sull’esercizio della sua nuova carica.
Devo anzi dirvi che la prese così a cuore che certi giorni ci arrostiva come se fossimo biscotti. Una volta alimentò la sua amica – la chiamava così – in tal modo che ci pareva di essere diventati costolette. Il termometro, quel giorno, salì a 39º gradi!.. Una temperatura da Senegal, aveva detto il nostro letterato.
Da ciò liti continue fra l’ex-segretario del moro e l’artista barbuto, il quale invece non poteva tollerare il caldo, e minaccie di spalancare le finestre, per farci gelare vivi o farci prendere una polmonite fulminante.
Un giorno vennero perfino alle armi; fortunatamente il pistolone marocchino del freddoloso era di legno ed il coltello romano dell’artista barbuto era di cartone argentato. Il sangue nondimeno corse egualmente a torrenti…. versato da due miserabili bottiglie, pagate dai rissanti.
Dunque la sera ci radunavamo in Topaia, stringendoci attorno alla stufa. Si tracannava qualche bicchierotto, ed arrostivamo castagne a miriagrammi, convertendo il nostro studio in un porcile.
Qualche sera si lavorava, ma per lo più ci raccontavamo storie dell’altro mondo, che ci tenevano di buon umore.
Qualche altra invece organizzavamo dei concerti, roba da cani, ve l’assicuro, quantunque l’usignuolo della Topaia, il miniatore avesse una buona voce da baritono, da basso, da tenore ed anche da contralto e possedesse un repertorio inesauribile.
Finchè cantava l’usignolo o facevamo girare il grafofono – ne avevamo uno con dodici pezzi – tutto andava bene. Quando però s’improvvisavano dei cori, veniva fuori della roba da chiodi. Flok e Febo, i due cani della villa, quando ci udivano, ululavano spaventosamente e ci mostravano i denti.
Qualche altra volta venivano delle parenti del castellano e degli amici. Ma dopo pochi minuti scappavano via turandosi gli orecchi e giurando di non più tornare.
In quegli sconcerti – si potevano chiamare così – si adoperavano strumenti di ogni genere. Coperchi da pentole, molle da stufa, vassoi, bicchieri, bottiglie e cocci messi in un sacco.
L’artista barbuto era famoso per fare la ferrovia.
In quelle grandi occasioni sfoderavamo le nostre parrucche e le nostre barbe per darci l’aria di vecchi professori d’orchestra e la Topaia tremava fino alle fondamenta pel fracasso assordante di quei musici arrabbiati.
In uno di quei concerti, perfino i cilindri del nostro grafofono creparono. Un giorno decidemmo di dare nella nostra Topaia un grande ricevimento con relativo spettacolo. Non avendo avuto fino allora alcun successo, in causa della confusione che regnava fra i professori e della troppa sonorità dei nostri istrumenti, ci mettemmo seriamente all’opera, per dare qualche cosa di più ordinato e di più chic.
Buttammo nel cortile coperchi, molle e cocci e andammo in cerca di strumenti migliori. Nella nostra foga di sbarazzarci di quei fragorosi compagni delle nostre serate, per poco non fece una volata anche il nostro grafofono.
Ebbi appena il tempo di strapparlo dalle mani dell’ex-segretario del moro.
Come facevamo sempre, quando si trattava di prendere una grave risoluzione, ci radunavamo in seduta segreta per deliberare, dopo d’aver raccomandato al nostro portiere dipinto di non permettere l’entrata a chicchessia, per nessun pretesto.
Quando fu terminata, la montagna aveva partorito il topo. Non si trattava ormai altro che di diramare gl’inviti e di scrivere il programma. Il miniatore, che era vissuto fra i filosofi di Farfa, fu incaricato di prepararlo, nello stile dell’epoca.
Per rendere più solenne la serata, fu deciso di attendere ancora quattro giorni, dovendosi celebrare il natalizio del nostro castellano.
Il giorno fissato, sui quattordici angoli della nostra villa, con grande stupore dei vicini e dei villici, si vide comparire il seguente manifesto che non posso fare a meno di trascrivere. Aprite gli occhi e stupite!…
«Ne la circostantia di questo die 10 Novembre come qualmente compiesi la festivitade de lo nostro castellano invitasi tutta la popolatione de lo castello, a lo tripudio di manifestatione et auguri a lo medesmo castellano festante. – Lo Araldo griderà con jubilo di festa quanto qui sotto spiegasi:
«A le ore 5 antimeridiane de la mattina et anche prima, la castellana vedrà se le galline avessero per avventura fatto l’uovo et i cerberi urleranno per lo appetito.
«A le ore 6 come sopra, grande dispensia di caffè et uova agli artisti de la Topaia.
«A le ore 7 et anche dopo, risveglio de le Nobili castellane che dormire non possono causa lo forte odore degli tartufi, detti volgarmente trifole de lo valore grande di scudi cinque et anche meno, che portate dovranno essere da lo artista barbuto, che da varii jorni svolazza in cerca de li medesmi per le ualli et li monti, pe le castella et pe le campagne seguito da segugi da trifola.
«A le ore 8 arrivo a la stazione de la strada ferrata degli invitati forastieri delle castellane et degli bohémiens.
«A le ore 9-10-11 grande silentio per gli odori culinari fati a posta per lo appetito e affacendamento di tutti, anche per le galline e per li cerberi Febo et Flok.
«A le ore 12 pranzo di gala agli ospiti et li bohémiens de la Topaia, con pietantie squisite et vini, et pane, cominceranno al solito arrivo de lo postino nomato Moriondo portante corrispondenzia et giornali de lo giorno prima.
Ore 13 dispensia di sigarette dallo castellano e pipe di gesso dallo ex-segretario dello moro et proseguimento de la giornata con caffè, liquori, musica de li bohémiens, labari, vessilli et spari de mortaletti. La Vª artiglieria sparerà tutta la giornata li cannoni Krupp.
«A le ore 17, giostre et torneo ne lo cortile et gioco di boccie et altro.
«A le ore 18, tutti staranno a vedere.
«A le ore 20, cena offerta a lo castellano, giuochi et ballo se lo giullare favorirà suonare l’organetto.
«A le ore 21, grande sconcerto ne la Topaia artistica, col seguente programma:
«Parte 1ª – Ingresso straordinario di tutti li professori di orchestra che prenderanno parte a lo concerto. Proveranno li loro istrumenti in presentia de la scelta popolatione et porteranno la parucca.
«Parte 2ª – Spettacoloso ingresso de lo artista nomato Alfonsio che sosterrà la parte de prima donna nell’aria de la Lucia de lo maestro Verdi.
«Parte 3ª – Introdutione de lo omo barbuto in costume boschivo che canterà la romanza del Rospini: tutti saranno rospi.
«Grande dispensia di cipria a le madame et una di vino et cioccolatto per lo cantore.
«Parte 4ª – L’usignolo de la Topaia nomato Ferrol improvviserà per la circostanzia che Beppe va soldato.
«Verranno dispensati fazzoletti per frenare le lagrime.
«Parte 5ª – Grandi pezzi rumorosi eseguiti da tutti li professori.
«Parte 6ª – Grande spettacolosa scena finale. Lo maestro concertatore romperà la bacchetta su la schiena de lo contrabasso – la prima donna Alfonso sviene – Ferrol si arrampica su un fico – il letterato va a pescare – e lo omo barbuto canterà Viva Noè.
«A le ore 23, tutti a letto.
«Nota bene: Lo servizio de la cucina sarà regolato da lo segretario del moro; lo servizio de la castello dal grande maestro de la Topaia unitamente allo portiere et allo artista barbuto et quello de gli saloni de la Topaia dallo topo bianco generoso et direttore della orchestra.
«Amen.
Lo maestro di cappella».
Questo spettacoloso programma – e non poteva essere altrimenti – fece furori non solo alla Venaria, bensì anche nei paesi vicini. Io credo che se ne fossero commossi perfino i pesci della Ceronda, poichè lo stesso giorno il nostro romanziere ne prese tre.
Probabilmente s’erano lasciati accalappiare colla segreta speranza di assistere alla meravigliosa festa, prima di finire nella padella.
Moriondo poi, il postino, leggendo il programma, piangeva per la commozione pensando agli mortaletti et alla dispensa di cibarie.
Nei due giorni che precedettero la festa, fu una processione continua di personaggi illustri o poco meno, per avere biglietti d’invito per assistere al nostro concerto. Sudavamo freddo e per respingere quell’orda invadente, avevamo dovuto armarsi di scope mostruose.
Ecco finalmente giunto il grande giorno. Da tre sere i professori d’orchestra si erano affiatati per quattro o cinque ore di seguito, compromettendo la sicurezza della Topaia.
Qualche crepa s’era già manifestata nelle pareti, mettendoci in gravi pensieri. Temevano per la sera del concerto, una catastrofe completa.
Ai primi albori ecco i galli e le galline cantare a festa per annunciare ai vicini abitanti il grande avvenimento ed i nostri due cerberi urlare come indemoniati. I cannoni del V° artiglieria, così di campagna come di fortezza, però, tacevano.
Certo gli artiglieri si erano dimenticati del fausto avvenimento. Spedimmo una staffetta; non tornò che alle 11 senza risposta.
Soppressi i cannoni, il programma si svolse egualmente in tutte le sue diverse fasi. Caffè e latte, uova, pranzo con relativi tartufi procurati dall’artista barbuto, pane e vino a discrezione, caffè e liquori, poi nuove soppressioni.
Mancavano i mortaletti e la polvere, le giostre, i labari e vessilli e perfino il giullare di Altessano non si fece vivo col suo organino. Ci rifacemmo colle boccie e col grafofono e soprattutto colla cena.
Alle ore 20 il cortile d’onore brulicava di invitati venuti ad assistere al grande concerto degli artisti. Vi erano tre signorine, due signore, una mezza dozzina di ragazzi strillanti e poi…. credo che non vi fossero altri. Tutto pubblico scelto e soprattutto intelligentissimo.
Vi era perfino un bovaio il quale aveva condotto due servotte dei dintorni.
— A posto l’orchestra! gridò Ferrol. — Si accendano i lumi!… —
Alfonso maestro di casa quella sera diede fuoco alle lucerne e alle candele, facendo scintillare le nostre collezioni d’armi antiche e moderne, i nostri scudi, gli elmi e la raccolta di pipe turche ed il concerto cominciò fra il silenzio…. universale.
Il pezzo della Bohème suonata dal nostro grafofono, ottiene un successo incontrastato. Le due servotte piangevano e le signore e le signorine si scaldavano le mani.
Per poco non invidiavamo quella tromba lucente, quantunque emettesse certe note da far rizzare i capelli e da far scattare il nostro nervosissimo ma generosissimo castellano.
Devo però fare osservare che il cilindro era crepato la sera innanzi, durante la prova generale del nostro concerto.
Dopo quel primo pezzo, vi fu un breve silenzio di mezz’ora per lasciar tempo agli artisti di prepararsi.
Quando noi prendemmo posto dinanzi agli scanni, un immenso scoppio di risa ci accolse. E non c’era da stare serii, ve lo assicuro.
Avevamo sfoggiate le nostre parrucche, le barbe, i baffi ed anche i nasi di cartapesta.
L’artista barbuto era diventato un vero brigante delle Calabrie; il miniatore pareva un avanzo del secolo passato redivivo colla sua parrucca bianca a coda; noi dei vecchi decrepiti: che splendida collezione di professori!
E l’orchestra? L’ex-segretario del moro si era fabbricato un tamburo di cartone, dipinto però smagliantemente; il letterato aveva un lattone da petrolio; il nostro magistrato un treppiede che aveva preso a nolo da un suonatore girovago a due soldi l’ora; l’artista barbuto un violino colle corde di spago; Ferrol un mandolino con fili di ferro, ed io avevo un trombone di carta-pesta.
Al primo attacco, tutte le lucerne si spensero ed i cani scapparono urlando; al secondo le candele caddero e le nostre due superbe gru lasciarono i vasi sui quali le avevamo collocate, con grande spavento delle signore.
Al terzo pezzo anche la nostra collezione di pipe venne giù assieme agli scudi. Una signora, vedendosi cadere addosso uno dei tre topi rampanti dello scudo, svenne per lo spavento.
Meno male che era una delle due servotte condotte dal bovaio, per cui si rimise presto in piedi.
Al quarto pezzo, il più assordante di tutti, mezzi spettatori fuggirono. Il lattone del letterato ed il tamburo del segretario del moro si erano di già sfondati.
Noi però continuammo imperturbabilmente a svolgere il nostro programma. Dal violino e dal mandolino piovevano note da agghiacciare il sangue.
Venne però Alfonso a portare un po’ di pace in quello sconcerto tremendo, cantandoci un pezzo della Lucia. Che gorgheggi, lettori miei! Roba da far rizzare i capelli! Eppure ebbe gli applausi…. delle due servotte e del bovaio.
Chi ottenne un vero successo fu Ferrol, l’usignuolo della Topaia. La romanza di Beppe va soldato strappò lagrime all’intero uditorio.
Al decimo pezzo, a base di nuove gran casse e di nuovi lattoni, il pubblico che aveva avuto la pazienza di rimanere fuggì a rompicollo per non sentirsi sfondare i timpani degli orecchi. Solamente il bovaio aveva avuto il coraggio di rimanere.
Quell’uomo doveva avere gli orecchi foderati di rame. Forse il briccone non voleva andarsene per non perdere il promesso regalino e le castagne che arrostivano nel fornello della nostra stufa.
Decidemmo di far scappare anche quell’ultimo spettatore per conservare le nostre provviste mandateci dal castellano e aggiungemmo tre nuovi pezzi veramente magistrali.
Il bovaio però rimaneva imperterrito, benchè le due servotte che aveva condotte fossero scappate anche loro.
A mezzanotte, quando attaccammo la battaglia di Glencol, composizione dell’usignuolo della Topaia, a base di cannonate, un pezzo destinato a fare fortuna – tale almeno è il mio modesto parere – tutto quello che rimaneva ancora attaccato ai muri, venne giù.
L’intrepido bovaio, sentendosi cadere addosso una faina ed un serpente, scappò via urlando di terrore! Ah!… fortunato crotalo! Ci aveva salvato almeno la cenetta promessaci dal castellano.
Se non fosse stato imbalsamato lo avrei venduto, per riconoscenza, a qualche proprietario di serragli.
A mezzanotte il grande concerto terminava fra la soddisfazione generale, la nostra compresa.
Le castagne arrostite erano però rimaste a noi, degna ricompensa a tanto valore…. musicale.
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