Non erano trascorsi dieci giorni dall’inaugurazione del nostro economico portiere, il quale fra parentesi funzionava egregiamente, con soddisfazione generale, quando un dopo pranzo Ferrol, reduce da Torino, entrò con una notizia che ci fece strabiliare.
— Sapete, — ci disse, — che per posdomani abbiamo degli ospiti?
— Vadano al diavolo!… — urlammo tutti. — Non ne vogliamo sapere.
— Si tratta di artisti.
— Che si appicchino!
— Di bohémiens come noi.
— E cosa vengono a rompere le tasche a noi? — gridò Alfonso.
— La Topaia è diventata ormai celebre a Torino. Non si parla d’altro….
— E per questo ci vengono a mangiare le costole, — disse Alfonso. — Io non metterò fuori un soldo; già non ne ho più.
Presso la nostra porta fu dipinto un topo di dimensioni mostruose.
— Daremo un pranzo da bohémiens, — disse Ferrol. — Anche le mie tasche sono quasi vuote.
— Sì, uno dei soliti pranzi che poi vengono a costarci un occhio, — brontolò l’economico Alfonso.
— Offriremo un semplice spuntino.
— Nemmeno quello, — gridarono tutti.
— Ne va l’onore della Topaia, — disse Ferrol.
— Non vogliamo scrocconi.
— Cosa dice il letterato? — interrogò il miniatore.
Il romanziere pareva che vivesse in un altro mondo. Certo vagava fra le foreste degli Abruzzi in cerca di briganti.
Interrogato l’artista barbuto, nemmeno questo rispose. Era occupatissimo a preparare degli scudi, delle spade e delle alabarde che dovevano fare, più tardi, una superba figura nella sala di ricevimento e passare per armi trovate nel lago d’Albano o in quello di Bolsena.
Visto che non c’era verso di scuotere l’apatia degli artisti o meglio di fare un buco nelle loro borse probabilmente vuote, Ferrol, dopo quattro pennellate, ricorse al solito sistema: la grande idea!…
Un urlo feroce accolse questa proposta.
— Si affoghino le idee!…
— Questi disgraziati devono aver vuotata la cantina, — disse Ferrol. — Il rigatino li ha resi idrofobi.
— Egli c’insulta! — gridò l’artista barbuto. — Gli manderemo un papiro di biasimo.
— Ascoltate innanzi tutto la mia idea, disse Ferrol. — Propongo di offrire ai nostri amici un pranzo….
— Niente pranzi!…
— Lasciatemi parlare….
— Sì, quando avrai pagato un litro, seccatura eterna, — gridò il letterato, facendo ondeggiare spaventosamente la sua tavola.
— Vada pel litro, purchè mi lasciate esporre il mio progetto. —
Trattandosi di bagnarci le gole, dopo tutto quell’urlìo, tutti stettero zitti, compreso il nostro portinaio.
— Dunque vi propongo di offrire un pranzo….
— Ancora!… — urlò l’artista barbuto.
— Mando subito a prendere il litro.
— Fuori i picchi, — gridò Alfonso.
Quando vedemmo sulla tavola i denari, il silenzio tornò a farsi nella Topaia.
— Parla e sii breve, — disse il letterato. — Non amiamo le chiacchiere oggi, e specialmente io non ne desidero. Sto mangiando un lupo ferocissimo e non voglio essere disturbato.
— Due sole parole, — disse Ferrol, che temeva di scatenare una nuova burrasca. — Dicevo dunque di offrire un pranzo senza toccare le vostre borse.
— Ah!… Paghi tu!… — disse l’artista barbuto. — Benissimo!… Ecco che l’amico comincia a diventare ragionevole.
— Io anzi non pagherò niente, — rispose Ferrol. — Non ho più danari. —
Cinque occhiate furibonde lo fulminarono.
— Egli vuole burlarsi di noi, — gridò Alfonso.
— Niente affatto, — rispose Ferrol con tono solenne. — Io non metterò fuori un soldo e nemmeno voi.
— Chi offrirà adunque questo pranzo? — chiedemmo.
— I bohémiens della Topaia.
— E chi pagherà?
— Nessuno, vi ho detto, poichè siamo oggi tutti al verde. —
L’artista barbuto si alzò e andò ad aprire tutti gli armadi della Topaia, una mezza dozzina circa, ed a frugare perfino nella camera oscura della fotografia.
— Cosa fai? — gli chiedemmo
— Andavo a vedere se vi erano nascoste delle lepri, — ci rispose, con imperturbabile serietà. — Visto che non ve ne sono, propongo di mandare Ferrol all’ospedale dei matti.
— Prima di mandarmi in quel palazzo, lasciatemi distribuire le parti, — rispose il miniatore. — Questa è bella! Siamo bohémiens e non sappiamo preparare un pranzo.
— Forse che i bohémiens di Murger avevano sempre dei denari in tasca?
— Che cosa vuole concludere questo maniaco? — disse il letterato che masticava la punta dell’asticciuola. — Finirà col farmi girare la testa.
— Silenzio, — disse Ferrol. — Tu letterato sei forte nella pesca, è vero? T’incaricherai di provvedere i pesci. —
Uno scoppio di risa accolse quella proposta. Anche il letterato, rammentandosi i suoi insuccessi della Ceronda, rideva a crepapelle.
— Il pesce dunque non vi mancherà, — continuò Ferrol.
— Tu sai che io non ne ho più preso uno dopo la prima pescata, — osservò il letterato.
— Questa volta saprai fare miracoli per l’onore della Topaia. La Ceronda è ricca, tu lo sai meglio di noi. Non mancano nemmeno le trote.
— Deliziose!… — esclamò l’artista barbuto.
— Tu che vai matto per le trote t’incaricherai di fornirci la selvaggina.
— E come?… Non abbiamo nemmeno un fucile.
Ti farai imprestare un cannone da qualche capitano nostro amico. I passeri vi sono a battaglioni nei campi.
— E poi abbiamo degli spadoni giù, — disse Alfonso. — Tu che un tempo sei stato un maestro di scherma, potrai far pure dei miracoli, come il nostro letterato.
— Preferirei occuparmi del vino, disse l’artista barbuto. — Me ne intendo di più.
— Accettato, — concluse Alfonso, conoscendo per prova la grande competenza che aveva l’artista barbuto in fatto di vino.
— Allora nomineremo l’ex-segretario del moro grande cacciatore, — disse Ferrol. — Essendo stato con Wandohobb non avrà alcuna difficoltà ad ipnotizzare i passeri.
Si lasceranno acchiappare come le mosche.
— Oh!… Di questo non dubitiamo, — disse il letterato. —
Chi non ne era affatto persuaso doveva essere Alfonso. Tuttavia non credette opportuno rifiutare il grave incarico. Forse aveva trovato anche lui la sua grande idea.
— E chi procurerà i maccheroni? — chiese l’artista barbuto.
— Me ne incarico io, — rispose Ferrol. — Ci sono delle fabbriche nei dintorni e cercherò campioni.
— E noi? — gridarono gli altri.
— Voi andrete a prelevare campioni di burro presso tutti i mandriani, — disse allora Ferrol. — Lascio a tutti voi una notte intera per pensare intorno ai mezzi migliori onde procurarci questo pranzo degno di bohémiens come noi. —
Nessuno rispose. Tutti s’erano immersi in profondissimi pensieri, mettendo sottosopra le cellule dei loro cervelli.
All’indomani, radunatici nella Topaia, esponemmo all’organizzatore del banchetto i nostri progetti. Furono accettati ad unanimità, meno un voto: quello del nostro portiere.
Quel marrano, quantunque ripetutamente interrogato, non aveva dato alcuna risposta. La cosa d’altronde poteva forse essere naturale.
Ed eccoci tutti in movimento per cercare i viveri pel banchetto.
Il letterato era già partito per la Ceronda, portando con sè una dozzina di veli e la sua grande rete, deciso a non tornare senza la frittura. Aveva anzi ordinato che gli portassero il pranzo laggiù, per non perdere l’occasione di sorprendere le trote che dovevano passare – diceva lui – dopo il mezzodì. Questa era la sua opinione, frutto di diligenti osservazioni.
L’artista barbuto, cacciatosi in testa un cappellaccio che lo faceva rassomigliare ad un mediatore di pecore, se n’era andato per la campagna, portando con sè un vero carico di bottigliette.
Alfonso, invece, s’era cacciato in mezzo ai boschetti prossimi ad un altro fiume, armato d’una dozzina di bastoni. Aveva rinunciato all’idea di ipnotizzare i passeri, perchè la sera innanzi avevo chiesto al letterato delle lunghe spiegazioni sulle caccie degli australiani, insistendo specialmente sull’uso d’un certo arnese chiamato boomerang.
Ferrol dal canto suo s’era limitato a scrivere non so quante lettere, assicurandoci che con quelle avrebbe ottenuto tanti maccheroni da farci scoppiare.
La sera, quando ci ritrovammo riuniti, constatammo, con vivo piacere, che il pranzo era ormai assicurato. Il letterato era riuscito a prendere la sua frittura a dispetto della limpidezza dell’acqua. Aveva messo a secco un bacino, aprendo un canale di sfogo e aveva fatto man bassa sui disgraziati abitanti rimasti all’asciutto.
L’artista barbuto, fingendosi un negoziante di vini, era ritornato con quattordici mezze bottiglie, campioni prelevati in non so quante cantine. Messi tutti insieme, dovevano fornire un tipo unico, assolutamente squisito.
Alfonso invece era giunto portando in trionfo…. una gallina gialla!… I bastoni non avevano avuto fortuna contro i passeri e nemmeno l’ipnotismo aveva avuto successo.
La gallina però non l’aveva comperata e tanto meno rubata. Si trattava d’un pollo selvatico, di nuova specie, che viveva fra i boschetti della Ceronda, così affermava lui e si poteva credergli, essendo un zoologo da strapazzo.
Il letterato che aveva viaggiato mezzo mondo, era di parere contrario, non avendo mai veduto simili volatili nei dintorni della Ceronda e nemmeno in altre parti del mondo.
Egli sospettava che si trattasse d’una gallina dipinta e poteva avere forse ragione, avendo io notato delle macchie gialle sulla giacca dell’ex-segretario di Wandohobb, macchie che al mattino non c’erano.
Comunque fosse, quel volatile di nuovo genere, che avrebbe potuto fare una splendida figura nel museo zoologico di Torino, fu passato senz’altro nella dispensa, in attesa di assaggiarlo.
I più disgraziati erano stati i provveditori di burro. Erano tornati portando venti campioncini appena visibili.
— Tutti avaracci questi mandriani, — gridò Ferrol.
— Ne avremo abbastanza, — disse l’artista barbuto, che si piccava di essere un cuoco famoso. Io saprò fare miracoli.
— Già, sa fare il risotto senza brodo, — disse Alfonso.
— E quando lo faccio io, ti lecchi le dita, — ripicchiò l’artista barbuto.
— Preferisco farlo colla mia gallina selvatica. Se non ci fossero i maccheroni ti preparerei un risottino uso Wandohobb, da guarire anche un tisico.
— I maccheroni ci sono, dunque niente risotto, — disse Ferrol.
— Di già?…
— Sono arrivati da due ore.
— Veri maccheroni? — chiese l’artista barbuto — Bada che io me ne intendo, veh!
— Veramente non si potrebbe chiamarli così, disse Ferrol. — Me ne hanno mandato di ventiquattro qualità.
— Dio! Che miscuglio! — gridò Alfonso.
— Ho scritto a trenta fabbricanti di paste, dei dintorni — disse. Ferrol. — Come potevano mandarmele tutte d’un genere solo?
— Non importa, — disse l’artista barbuto. — Io sono professore di maccheroni. Farò un piatto squisito, a ricami.
— Specialità della Topaia, — disse il letterato. —
Quando i nostri amici bohémiens giunsero, il pranzo era pronto.
L’artista barbuto non era stato inferiore alla sua fama. Aveva fatto dei prodigi stupefacenti.
La gallina gialla poi fece addirittura furore. Quella nuova specie di volatile sapeva però di olio cotto. Il letterato asseriva che ciò doveva dipendere dalla tinta particolare delle sue penne; Alfonso invece accertava che quello era sapore di selvatico.
Ci fu solamente da ridire un po’ sul tipo unico del nostro vino e volete sapere il perchè? Il nostro provveditore, non so se per isbaglio o per altro, aveva bevuto un po’ troppo, nelle cantine, si era fatto dare troppi campioni di aceto, anzichè di barbèra o di grignolino!…
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