Quella birbonata doveva essere l’ultima, perchè il giorno della separazione s’avvicinava a passi da gigante.
Il fitto era scaduto e non avevamo i mezzi per rinnovarlo e poi il lavoro destinato all’Esposizione era finito e anche il nostro letterato aveva chiuso definitivamente il suo romanzo, un’opera destinata ad un successo mondiale, diceva lui.
Io lo credo giacchè anche voi tutti, lettori, avrete udito almeno parlare dell’Uomo delle due teste!… Se poi non l’avete nemmeno veduto mai nelle vetrine del libraio, io non so cosa dirvi. Forse sarà stato pubblicato in China o nel Giappone.
Dunque il momento di sciogliere la celebre colonia dei bohémiens era giunto.
Avevamo già rimandato parecchie volte il triste momento. A tutti rincresceva immensamente dover lasciare, e forse per sempre, la nostra Topaia che ci aveva raccolti per tre mesi e dove avevamo passati tanti bei giorni e tante allegre serate.
Pure era necessario decidersi. L’inverno stava per andarsene e le cento trombe della fama lanciavano le loro poderose note: A Parigi!… A Parigi!….
Non potevamo più restare a Lucento senza compromettere gravemente i nostri interessi. Ed un brutto, anzi un triste giorno, la grave parola fu pronunciata con una commozione profonda:
— Bisogna lasciarci!… —
E quell’istesso giorno fu decisa la liquidazione della nostra Topaia.
A poco a poco nel nostro salotto avevamo accumulato degli oggetti regalati da amici, e s’intende che avevano un vero valore. Dividerceli fra noi non valeva la pena e fu deliberato di aprire un’asta, più colla speranza di passare ancora una allegra giornata che a scopo di lucro.
Doveva essere un’asta umoristica degna dei bohémiens della Topaia artistica.
Fu lanciato un avviso emozionante nel quale si parlava di elmi d’Attila, di spadoni di Carlo Magno, di sciabole appartenute ad Eugenio di Savoia, di animali delle selve africane ed indiane, di bottiglie di millecinquecento anni, di quadri e di stampe di Raffaello, di Van Dyck, di Murillo del Favretto, ecc. Fra gli oggetti da liquidarsi c’entrava perfino…. il nostro portiere dentro la gabbia….
Questi avvisi, furono diramati in gran numero nelle borgate vicine, e parecchi furono mandati agli antiquari ed ai rigattieri…. del Pallone di Torino!…
Avevamo scelto un venerdì per la grande asta, avendo sempre avuto una grande preferenza per quel giorno. E poi vi erano maggiori probabilità che venissero degli amici. Contavamo molto anche sulla vecchia ebrea amica di Quintino, quella della famosa zimarra.
L’incarico di fare il tubatore fu dato all’artista barbuto, possedendo egli una voce poderosa. Alfonso invece che per la circostanza si era messa una parrucca da vecchia, doveva funzionare da cassiere.
La mattina di quel venerdì, il cortile brulicava di persone. I rigattieri del Pallone avevano preso la cosa sul serio ed erano accorsi in buon numero.
Vi erano specialmente quattro o cinque tipi di antiquari, distinguibili per le loro tube molto spelate. Era venuta anche l’amica di Quintino ed appena scorto Ferrol l’aveva preso da una parte chiedendogli con aria misteriosa:
— C’è anche la zimarra in vendita? Io la pagherò bene.
— Si trova in America con Quintino, — le rispose il miniatore.
Pare impossibile! Quella vecchia la vedemmo piangere!…
— Era un porta fortuna prezioso, — diss’ella.
— Vi daremo un topo imbalsamato. Sarà migliore, — disse Ferrol. —
L’asta stava per cominciare. Per riscaldare un po’ gli acquirenti, facemmo dapprima una dispensa gratuita di acqua zuccherata con poche goccie di menta glaciale, poi, l’artista barbuto, salito su un tavolino, cominciò a far tuonare la sua voce.
Il primo lotto si componeva di undici quadri, studi al bleu, al rossetto, al giallo uovo ed al verde oltremare e di un certo numero di vecchie stampe che portavano la firma di Raffaello, opere questa di Alfonso.
— Abbiamo l’onore di offrire a questi gentiluomini ed a queste gentildonne, dei veri capolavori d’arte!.. — cominciò a gridare l’artista barbuto. — Osservate le belle cose, signori e signore. Quadri autentici del grande Urbinate e d’altri artisti insigni conosciuti e sconosciuti.
Quarantaquattro soldi in massa. Chi non spenderà questa miserabile somma per avere dei Raffaelli?… Come, nessuno risponde? Voi dunque non avete conosciuto l’amante della Fornarina? —
Nessuno aveva risposto. La gente guardava i nostri quadri sghignazzando e mi aveva l’aria di prendere la cosa in burla. Quanti asini! Non sapevano nemmeno chi fosse Raffaello!…
Alfonso in piedi su una sedia, si faceva in quattro a urlare:
— Comperate! Comperate… I Raffaello sono ricercati in Russia!… Si pagano perfino trecentomila lire l’uno!… —
Fiato sprecato. Nessuno voleva saperne.
Fu fatta una nuova dispensa di acqua zuccherata con grappa per vedere di riscaldare l’ambiente. Quegli usurai fecero buona accoglienza ai bicchieri, ma non si commossero affatto dinanzi ai Raffaelli.
— Cambiamo articolo, — disse Ferrol. — Proviamo le bestie. —
Furono gettati i quadri e le stampe in un angolo e fu presentata una martora imbalsamata, ancora in ottimo stato.
All’artista barbuto venne una splendida idea.
— Vi presento una piccola tigre di un mese, trovata dal nostro letterato nelle foreste della Russia. —
Ah!… Birbante!… Una tigre russa!… Noi scappammo per non scoppiare dalle risa.
L’artista barbuto aveva però continuata la sua chiaccherata con una serietà ammirabile.
— La madre di questa tigre ha mangiato tre soldati ed un prete, ed il padre un nipote dell’imperatore delle Russie. Se avessi tempo vi racconterei anche la storia del nonno di questa piccola bestia. Comperate!… Tre franchi e cinquanta!… Si è veduta una tigre più bella?… Avanti, signori e signore!… Venite a prendere la bella bestia!… —
La tigre andò a finire nelle tasche di un antiquario per quattro lire. Il successo era incoraggiante.
L’artista barbuto, lietissimo di quella prima vendita, fece regalare al compratore altra acqua zuccherata.
Visto che gli animali incontravano il favore del pubblico, il romano mise in vendita un falco imbalsamato che fu gabellato per un’aquila reale delle Alpi Cozie presa da Vittorio Emanuele, un serpente ucciso da Baratieri nelle montagne abissine e che aveva già avvelenato trentatre persone; due gru coronate che passarono per piccoli struzzi del deserto di Sahara e finalmente i topi del nostro stemma.
Alfonso che contava diligentemente i denari incassati, ci diede la lieta novella d’aver ricavato dalla vendita della sezione bestie, ventisette lire e undici soldi.
— Vi è già una cena assicurata, — ci disse, mostrandoci l’incasso.
Dopo le bestie, l’artista barbuto annunciò la liquidazione dell’armeria della Topaia. Avevamo una splendida collezione di spadoni, di pugnali, di pistoloni, di coltelli, di elmi, di mazze, di scuri per la maggior parte di cartone.
Contavamo molto sull’abilità del tubatore per liquidare anche quella partita, e soprattutto sulla sua erudizione storica.
Ed ecco, infatti offrire un elmo d’Attila; uno spadone raccolto sul campo di Legnano appartenuto a Federico Barbarossa; una mazza di Brancaleone ed un pugnale di Ettore Fieramosca; una scimitarra di Maometto rubata al Sultano di Turchia da una delle sue favorite, scappata con un pittore nostro amico; una pistola del Sultano del Marocco; il coltello che aveva servito a Dalila per tagliare i capelli a Sansone e non so quante altre rarità storiche.
Quell’ammasso di cianfrusaglie fu comperato da un rigattiere per incarico d’una compagnia di marionette. Incasso: cinque lire e quaranta centesimi.
Non rimanevano da liquidare che le rarità, e di queste ne possedevamo moltissime e anche di preziosissime.
I rigattieri se n’erano andati. Erano invece accorsi i pezzi grossi della borgata, i medici, il farmacista, l’ufficiale postale, tutti buoni amici che volevano acquistare dei ricordi. Non mancavano però anche i contadini.
L’occasione era propizia per rialzare i prezzi. Alfonso fiutando dei grossi incassi, mandò a prendere da un droghiere una cassa da sapone.
— Prima di questa sera noi la vedremo piena, — ci aveva detto. — Come ex-segretario del moro, conosco il pubblico. Faremo un incasso prodigioso!… —
L’artista barbuto intanto aveva levato da una cassetta una bottiglia di forma quadrata che pareva fosse piena di ghiaccio. Se rimasero stupite le persone intervenute, noi lo fummo del pari, non avendola mai veduta in nessun luogo della nostra Topaia.
— Signori, — gridò l’artista barbuto. — Metto all’asta una delle sette meraviglie dell’universo.
Questa è una bottiglia di liquore portata da un nostro amico reduce da un viaggio al Polo Australe. Osservatela bene!… Da quattro anni si trova ancora gelata!… Nemmeno quest’estate, questo liquore prodigioso si è sciolto.
— E come si fa a berlo se è sempre gelato? — chiese un sapientone.
— Si mangia a pezzi. Liquore squisito, unico al mondo. Assicura la vita per vent’anni, me lo ha detto il nostro amico. —
La bottiglia miracolosa salì vertiginosamente. I contadini se la disputarono con accanimento e fu aggiudicata ad un vecchio di ottant’anni che si era fidanzato ad una ragazza di venticinque.
Quel miracoloso liquore gelato – lo sapemmo poi – non era altro che zucchero cristallizzato di una bottiglia di Kümmel, prima diligentemente vuotata dall’artista barbuto.
Zucchero o liquore, la bottiglia fu pagata undici lire ed un soldo dal vecchietto innamorato.
La seconda rarità venduta fu il nostro…. struzzo!… Era un bruttissimo pollo, allevato in Topaia, spelato, tutto occhi e gambe. Rassomigliava ad un vero struzzo ed aveva una particolarità curiosa: mangiava solamente la sera.
Di giorno invece dormiva dinanzi alla stufa.
Presentato come un giovine struzzo del deserto di Sahara, fu venduto per una misera lira. Veramente non ne valeva di più per quanto si volesse spacciare per un volatile africano.
La stessa sera già bolliva in pentola. Povera bestia!…
La terza fu la barba di Maometto, un avanzo di teatro scovato nella vecchia cassa dell’ex-segretario del moro. Fu comperata dal barbiere di Altessano per quaranta soldi ed il taglio della barba al proprietario di quel capo prezioso.
La quarta fu un vecchio violino che aveva una sola corda, unico avanzo della nostra collezione musicale. Presentato come uno Stradivari autentico adoperato da Paganini, ci fruttò tre lire e quaranta centesimi. Il compratore fu l’ufficiale postale.
Dopo quelle quattro rarità furono messi all’asta i tappeti, la nostra collezione di pipe, fra le quali figurava anche quella del Califfo della Mecca, il tamburo della guardia di Napoleone I che suonò la celebre carica di Waterloo, il busto di Dante Alighieri disputato accanitamente da due bovai, e terminammo con una ampolla piena di vino che il tubatore affermava essere dell’epoca di Noè e di averla trovata lui sulla cima del monte Ararat.
Già tutti i compratori se n’erano andati e ci preparavamo a fare i conti di cassa, quando vedemmo un’ombra agitarsi nell’angolo più scuro della nostra sala.
— Mi pare che vi sia un altro compratore, — disse Alfonso, che aveva gli sguardi molto lunghi.
— Che sia qualche ladro? — chiese l’artista barbuto. — Meno male che non vi è più nulla da rubare. —
Quell’ombra si fece innanzi con un fare timido, poi avvicinandosi a Ferrol gli disse con voce quasi piangente: — E la zimarra? È proprio vero che voi non la possedete? —
Fu una risata generale: quell’ombra era la vecchia ebrea, l’amica di Quintino.
— Purtroppo la zimarra non c’è più, — le disse Ferrol. — Però….
— Però?… — chiese la vecchia
— Abbiamo ancora l’attaccapanni della zimarra. Può portarvi fortuna. —
La vecchia per poco non morì dalla gioia, e pagò senz’altro cinque lire chiestele da quell’usuraio tubatore. La compratrice volle portarsi via perfino i chiodi che sorreggevano quell’anticaglia sgangherata.
La sera, fatti i conti di cassa, apprendemmo, con nostro stupore, che quell’asta ci aveva fruttato ottantanove lire e sette soldi.
A mezzanotte già buona parte erano scomparse nella cena d’addio!…
Due giorni dopo io partivo per Parigi assieme all’ex-segretario del moro e all’artista barbuto, avendo potuto vendere miniature pregiate offerte a parte e che avevano fruttata una bella somma.
Ferrol ed il letterato sono invece andati a piantare cavoli in una villettina presa in affitto sulla Riviera Ligure, perchè anche loro hanno venduto i loro lavori e sono oggi assai danarosi.
Ho saputo poi che la nostra Topaia è stata presa da un inglese reduce dal Capo di Buona Speranza e che il letterato e Ferrol portati in alto da non so quale altro colpo di fortuna, sono diventati possessori d’una pariglia…. di asinelli che hanno dipinto da zebre!…
Fu una risata generale: quell’ombra era la vecchia ebrea….
Il magistrato poi è rimasto nella villa ricordando, sospirando, le nostre allegrie.
Rivedrò ancora quei cari amici?… Lo spero.
Speak Your Mind