Dopo d’aver lasciato Bombay due mesi prima, il Risoluto era riuscito finalmente ad avvistare le imponenti coste del Borneo settentrionale.
Il viaggio era stato pessimo, sempre sotto acquazzoni diluviali alternati da eccessivi calori, sicchè viveri e provviste d’acqua non si sapeva più che cosa fossero.
Per un vero miracolo lo scorbuto aveva risparmiato l’equipaggio.
Dovevamo andare all’isola di Balambangan, una delle più pittoresche del Canal Principal, quasi tutta proprietà d’un vecchio capitano genovese il quale, appunto perchè genovese, doveva chiamarsi Parodi.
Ritiratosi dal mare con una bella fortuna nelle mani, che si sussurrava avesse guadagnata nella tratta degli schiavi gialli e malesi, aveva assegnato al rajah dell’isola una pensione e senz’altro si era impadronito delle terre. Uomo di larghe vedute, di grande energia, pieno di mille risorse, in tre anni di quella piccola terra ne aveva fatto un vero paradiso, dove raccoglieva gomma e canne d’India in quantità enormi.
Quando nel 1876 l’avevo visitato per una combinazione di affari, il suo regno pullulava di schiavi cinesi, dayaki ed anche malesi.
Il genovese assicurava che erano perfettamente liberi, ma non era da crederci.
Dopo qualche anno quell’uomo, malgrado i suoi cinquantadue anni, aveva avuto la malinconia di sposare una bellissima giovanetta dayaka, che era stata lungamente corteggiata dai principali isolani.
Non so il perchè, quel fatto aveva gettato un profondo malumore fra i suoi sudditi, anzi mi avevano riferito che una sera avevano perfino tentato di sorprenderlo e di accopparlo.
La nostra mèta era dunque Balambangan dove dovevamo fermarci a vuotare i magazzini del fortunato piantatore, ma un piccolo tifone ci aveva sorpresi di fronte all’isola Balabac, e ci aveva costretti a rifugiarci in quell’ampia e comoda baia più che in fretta e con un albero di meno.
Per una ventina di giorni non avremmo potuto salpare le áncore e spiegare nuovamente le vele, quindi mandai una scialuppa all’amico Parodi per rassicurarlo sulla mia sorte e per ricordargli che avevamo attraversato il grande e burrascoso Oceano indiano solamente per portargli via i suoi raccolti.
Ventiquattro ore dopo, mentre stavo fumando un eccellente cortado di Manilla, squisitamente profumato, seduto proprio sul coronamento di poppa, vidi ritornare la scialuppa rinforzata da sei battellieri malesi, brutti da far paura.
Mi portavano una lettera scritta dal genovese e che, se ricordo bene ancora, diceva press’a poco così:
«Balambangan, 2 agosto 1878.
Caro Amico,
Se non puoi trascinare la tua nave fino alla mia baia, lasciala all’ospedale per ora e vieni subito perchè qui succedono certe cose che cominciano ad inquietarmi. Porta armi.
Tuo aff.mo E. Parodi».
Che cosa diavolo poteva essere successo in quella fortunata isola, per aver pronto bisogno della mia presenza?
Il mio pensiero ricorse subito alla sua giovane moglie che i malesi ed i dayaki, anche dopo sposata, non avevano cessato di corteggiare.
Non avendo nulla da fare a bordo del Risoluto, essendo lavoro spettante ai carpentieri e non a me, chiamai il mio fedele mali Simone, un mozzo dalmata di San Pietro in Nembo, che navigava con me da parecchi anni, e gli dissi di prepararmi la mia carabina, un’arma magnifica che ancora posseggo, dalla canna d’acciaio, che portava la mitraglia a centocinquanta metri ed una palla a mille e settecento, di piombo indurito.
— Andiamo, Simone, — dissi al bravo giovane, già passato gabbiere. — Se Parodi ha bisogno di noi vuol dire che le cose non vanno più bene a Balambangan.
— Che la bella dayaka abbia scatenata la rivoluzione? — mi domandò Simone, con un sorriso furbo.
—Lo sapremo quando saremo sul posto, risposi. —
Presi la carabina ed un paio di pistole e scesi nella scialuppa, la quale era rimasta solamente equipaggiata dai battellieri malesi e da un orang-kaja, ossia una specie d’interprete che masticava discretamente male il dialetto ligure, appreso dal suo padrone.
La scialuppa era una bella baleniera, a prova quasi di scoglio, perfettamente equilibrata e salda di costole e così comoda da poter imbarcare perfino quindici persone.
Io e Simone ci sedemmo a poppa alla barra, di fronte all’interprete, ed il nostro viaggio cominciò in compagnia di quei sette uomini piuttosto sospetti e che nascondevano sotto il sarong il kriss, forse avvelenato.
Non dovevamo avere soverchia fiducia in loro, specialmente dopo la lettera mandatami dal vecchio capitano.
Era una splendida mattinata, chiara, luminosissima, con mare quasi tranquillo e fresca brezza.
Una moltitudine di uccelli marini ci svolazzava intorno senza dimostrare alcun timore, pronti ad aspettare, se l’avessi voluto, il mio colpo di carabina.
In lontananza, verso l’est, sfumavano le alte coste del Borneo sopraccaricato dei monti Cristalli, una catena imponente che gode fama di essere la più lunga e la più splendida di tutte quelle che sorgono nelle isole indo-malesi.
Simone aveva caricata la sua pipa e seguiva distrattamente i voli degli uccelli marini o meglio fingeva, poichè il furbo dalmata, anche fumando, non perdeva di vista, nemmeno un solo istante, i sette malesi.
Io poi li sorvegliavo più strettamente ancora, anche perchè avevo udito uno di loro ripetere con una certa inquietudine: gietà, gietà, ciò che voleva significare: fucile.
Essendo stato due anni prima al Borneo, qualche parola mi era rimasta impressa, e quel gietà mi diede da pensare non solamente a me, bensì anche a Simone, il quale cominciava a inquietarsi.
— Signor Emilio — mi disse; mi chiamava sempre così. — Date una lezione a questi malandrini.
— Perchè li chiami così, Simone? — gli chiesi sorridendo.
— Tutti fondi di pirateria, signor Emilio. Io non mi fiderei a mangiare nemmeno con loro per paura di crepare dai dolori mezz’ora dopo.
Conosce l’upas?
— La disgrazia della Malesia? Senza quella maledetta pianta velenosa forse gli uomini si sarebbero conservati migliori. —
Proprio in quel momento ci passò sul capo un superbo volatile, di dimensioni enormi, colle penne tutte bianche ed il becco color del corallo.
Era un pesante peltargopis acquatico, filante presso una piccola scogliera contro la quale apparivano numerosi i pesci volanti.
Alzai rapidamente la carabina carica a mitraglia e sparai rapidamente.
Il grosso uccellaccio piombò in mare, affondò, poi tornò a galla mandando dei fischi acuti.
Simone fu pronto a finirlo con una delle mie pistole, poichè devo dirvi che il giovinotto tirava benissimo.
I sette malesi avevano alzati i remi lasciando che la scialuppa avvicinasse la preda, essendo ancora in corsa.
Si trattava di ritirare a bordo una trentina di chilogrammi di carne non cattiva se bene preparata. A questo doveva pensare più tardi il mio mali o meglio avrebbe dovuto pensare, poichè un avvenimento inatteso, che strappò a tutti noi un grido di sorpresa e, diciamolo pure, di spavento, accadde in quel momento.
La scialuppa stava per toccare il volatile e già i malesi si sporgevano per ritirarlo, quando il mare si gonfiò improvvisamente a dieci braccia da noi, una specie di piccola balena comparve, mostrando una bocca capace d’inghiottire un uomo d’un sol tratto.
Compresi subito quale pericolo correvamo. Il pesce che si precipitava sul nostro volatile per accontentare uno dei suoi numerosi denti, era un Carcharodon Cascharicas, il più formidabile degli squali, un bestione lungo otto metri, velocissimo ed audacissimo, e così feroce che non rare volte si sono trovate negli intestini di quel mostro perfino due persone di sesso diverso, state inghiottite vive!
— Via!… — gridai mentre ricaricavo la carabina a palla.
I malesi, spaventati, si curvarono sui remi, e fecero volare la scialuppa sulle tranquille acque del canale di Balabac.
Lo squalo aveva già divorato l’uccellaccio senza prendersi la cura di spennacchiarselo.
Credetti per un momento che quella colazione potesse calmare i suoi terribili appetiti, invece dopo pochi minuti lo vidi girellare minacciosamente nelle acque della scialuppa.
Vi era da temere un assalto, e che terribili conseguenze, allora! Sarebbe bastato un urto per mandarci tutti in acqua.
— Simone! — gridai. — Adopera le mie pistole.
— Sì, signor Emilio, — mi rispose il bravo giovinotto, il quale non appariva affatto spaventato. —
Tutti i malesi avevano estratti i loro kriss serpeggianti, pugnali lunghi un piede giusto, d’un acciaio naturale che non si trova che nel Borneo.
Il pericolo incalzava. Lo squalo, messo in appetito dal grosso volatile, voleva ora una preda umana che gli riempisse meglio lo stomaco.
Si era messo a girarci intorno, ora alzandosi ed ora affondando collo scopo di provocare delle forti ondate.
La scialuppa danzava disperatamente ed i remi quasi più nulla valevano a mantenerla in equilibrio.
Bisognava agire senza perdere un istante.
Attesi che il mostro mi si presentasse di fronte, colla, immensa gola spalancata, irta di denti mobili e feci fuoco.
Nel medesimo tempo il mio mali scaricava le pistole.
Il carcharodon fece un salto immenso, si rovesciò sul dorso mandando dei cupi sospiri, poi si lasciò andare fra un cerchio di sangue. Era morto o solamente ferito? A noi poco importava di saperlo, sicchè riprendemmo subito la corsa fra un gran cozzare di onde.
*
* *
Dopo dieci ore di faticosa navigazione giungemmo finalmente in vista di Balambangan.
Ci apparve quasi improvvisamente su un magnifico sfondo d’oro, con un gigantesco scenario di verzura, formato da alberi giganteschi.
Balambangan non è grande come l’isola di Bangucy che si trova un po’ più all’est, tuttavia è un bel pezzo di terra capace di nutrire comodamente quindici o ventimila persone.
In quell’epoca era molto se fra cinesi, malesi e dayaki se ne trovavano cinque o sei cento, ed anche assai dispersi fra le boscaglie e le piantagioni.
Diedi l’ordine all’interprete di dirigersi subito verso l’ancoraggio più vicino, ma quel pezzo di carne olivastra, che già mi aveva destato qualche sospetto colla sua condotta, mi rispose arrogantemente:
— Io non so dove il padrone vi aspetta.
— Come, canaglia!… Ti manda a prendermi e poi ti rifiuti di condurmi da lui!… —
Come ho detto, l’orang-kaja parlava passabilmente bene il dialetto ligure, quindi potevamo intenderci perfettamente.
Vedendomi saltare in piedi colla carabina in pugno, subito imitato dal mio bravo mali il quale aveva subito armate le pistole, il briccone sprizzò fiamme dai suoi occhietti nerissimi, poi mi rispose:
— Se volete io accosto l’isola, però non assumo la responsabilità di quello che potrebbe accadere al nostro sbarco.
— Sono in rivolta i piantatori? —
Un brutto sorriso comparve sulle labbra dell’interprete, poi il suo braccio destro si alzò e mi chiese:
— Sapreste dirmi che cos’è quella nuvola che s’avanza sull’isola? —
In quelle parole vi era qualche cosa di feroce che mi colpì profondamente. Guardai nella direzione segnalata e vidi infatti alzarsi, in mezzo alle opulenti piantagioni, delle gigantesche nuvole di fumo sormontate da turbini di scintille che il vento tentava di spingere verso il mare.
— Simone, — chiesi, — che cosa brucia laggiù?
— È l’isola che arde, signor Emilio.
— Come potremo sbarcare noi? Eppure io voglio vedere il mio amico Parodi, checchè debba succedere. —
Fissai l’interprete, il quale invece si studiava di evitare i miei sguardi, e gli dissi:
— Alla costa!…
— Io non posso, signore, — mi rispose prontamente quella canaglia. — Il fumo ci soffocherebbe.
— Non occuparti di ciò: il vento non soffia ancora decisamente verso di noi. Avanti. —
L’orang-kaja scosse la testa cresputa, butterata di vaiuolo, e mi ripetè:
— Io non posso. —
Mi scappò la pazienza. Sentivo ormai che un tradimento minacciava me ed il mali. Afferrai la pesante carabina per la canna e la feci roteare due o tre volte sulla testa dell’interprete, minacciando di accopparlo sul suo banco.
I malesi, vedendomi in piedi, a loro volta si erano alzati gridando selvaggiamente e mostrando i loro kriss.
Simone, pronto come un lampo, si era scagliato dinanzi al penultimo banco impugnando sempre le pistole.
— Obbedite o facciamo fuoco! — gridammo con voce grossa.
L’orang-kaja, vedendo che la sua pelle correva un vero pericolo, tornò a rispondermi:
— Io accosto, ma non rispondo di quello che succederà!
— Dov’è l’approdo?
— Alla foce del fiume.
— Ti pare che brucino anche le abitazioni del tuo padrone?
— Ma… non so! —
L’avrei preso pel collo e l’avrei gettato in mare, e l’avrei fatto se fossimo stati soli, mentre invece vi erano i sei malesi che non mi persuadevano affatto.
Impegnare una lotta su una scialuppa di così piccolo tonnellaggio, facile a sbandarsi con tanti uomini, non era davvero una cosa prudente. Nondimeno si trattava di mettere in salvo anche la nostra pelle.
Dopo il tiro fatto sullo squalo avevo ricaricata la carabina a mitraglia, pressando dentro la solida canna d’acciaio ben quindici grossi pallettoni, il numero giusto.
Con un colpo avrei potuto massacrare non pochi di quei birbanti, però mi contenni.
La scialuppa aveva ripresa la corsa verso l’isola, assai lentamente.
I malesi brontolavano e l’interprete biascicava delle parole nel suo linguaggio maledetto e non doveva certamente mandarmi dei complimenti.
La nuvola di fumo intanto diventava sempre più grossa e si spiegava sopra le boscaglie che coprivano le coste settentrionali dell’isola.
Anche in altri luoghi però delle colonne di fumo e di scintille si alzavano. Si sarebbe detto che tutta la piantagione del disgraziato capitano era stata incendiata.
Che cosa era successo? Avevo già saputo, come ho detto, che il suo matrimonio, lui uomo bianco, colla più bella fanciulla dell’isola, aveva sollevato dei malumori asprissimi.
I malesi non perdonavano certamente al capitano di aver portato via a loro la perla di Balambangan ambita da tanti piccoli e luridi principotti.
Fuoco o non fuoco, decisi di prendere terra a qualunque costo, pronto ad accorrere in aiuto del vecchio capitano.
Bestemmiando, urlando e minacciando soprattutto colla carabina, costrinsi i malesi a riprendere la corsa verso uno squarcio di terra che pareva indicasse un piccolo corso d’acqua.
Il sole stava per scomparire del tutto, quando scòrsi un gruppo di abitazioni piuttosto leggiere, di stile arabo, con vaste terrazze e spaziose gallerie tutte bianche.
Era la dimora di Parodi. Stavamo per sbarcare quando udimmo alcuni colpi di fucile, poi un colpo di spingarda o di lilà.
Guardai il mio mali con un po’ di apprensione.
— Sii pronto a tutto!… — gli dissi. — Ma bada a sparare quando io avrò mitragliato. Noi siamo nelle mani delle canaglie malesi.
— Spaccherò la testa al primo che oserà alzare il suo kriss contro di noi, signor Emilio, — mi rispose risolutamente il dalmata. —
Figlio della terra delle pietre, poichè la Dalmazia è identica alla Bretagna, era capacissimo di mantenere la promessa.
Quello che non mi garbava era il contegno dell’orang-kaja. Alle mie domande non voleva assolutamente rispondere, dicendo sempre di non saper nulla di quanto era avvenuto a Balambangan durante la sua assenza.
Io credo invece che ne sapesse perfino troppo.
Una immensa linea di fuoco fiammeggiava proprio di fronte a noi, illuminando le prime tenebre.
Le piantagioni del mio amico se ne andavano in fumo.
Alle nove, finalmente, giungemmo alla foce del fiume.
Sorpassata una barra sabbiosa sulla quale strisciavano grosse nuvole di fumo cariche di scintille, entrammo in un minuscolo porto fronteggiante il Kompong Parodi.
I malesi manifestarono in quel momento un pessimo umore.
Non volevano saperne di avanzare quantunque non vi fosse alcun pericolo che le nubi di fumo, che il vento volta a volta disperdeva, ci soffocassero. Per la seconda volta mi scappò la pazienza.
— Orang-kaja, — dissi battendo colla palma della mano sulla canna della carabina. — Dentro a questa vi è tanta mitraglia da sfracellare te e non pochi dei tuoi compagni.
O parti o faccio fuoco!…
— Che cosa vuoi sapere, signore? — mi domandò il briccone.
— Tu non devi ignorare quanto è successo sull’isola. Spiegati una buona volta. L’hanno ucciso il tuo padrone?
— Io non lo credo, quantunque un malese avesse giurato di piantargli un kriss nel cuore.
— E perchè?
— È sempre l’affare della bella dayaka. Il padrone doveva sposare una donna della sua razza.
— Era innamorato nella moglie del tuo padrone quel malese?
— Così si dice.
— Lo metteremo a posto. —
L’orang-kaja socchiuse gli occhi, poi scosse la testa come era, si vede, sua abitudine, e finì col dire:
— Mah!… La dayaka porterà sfortuna al padrone.
— Andiamo avanti. Le abitazioni non hanno ancora preso fuoco, quindi non correremo per ora alcun pericolo. —
Si sparava dalle terrazze della villa di Parodi. Non era un gran fuoco: erano colpi isolati lanciati in tutte le direzioni.
Si cercava di moschettare gli incendiari.
I malesi vedendo me ed il mio mali ben risoluti a non passare la notte in mare, a bordo della scialuppa, con un’ultima volata ci condussero a terra, sbarcandoci a circa cinquanta metri dalla villa.
Sospettando una sorpresa, fui pronto a prendere per un braccio l’orang-kaja, anche per impedirgli che mi scappasse come ne dimostrava il desiderio.
I sei malesi, appena soli, diedero dentro ai remi e malgrado le mie minaccie scomparvero ben presto fra le tenebre.
— Lasciali andare, Simone, — dissi al giovane, il quale si preparava a rincorrerli lungo la riva del fiumicello, impugnando le pistole. — Tanti nemici di meno. —
Tutte le finestre della villa apparivano illuminate ed anche sulle terrazze si scorgevano dei grossi fanali di marina.
Continuando gli spari e temendo di ricevere qualche pallottola, mi misi a gridare con quanta voce avevo in corpo:
— Ohè!… Bakan Parodi!… Siamo giunti… —
Il fuoco fu subito sospeso, poi alcuni uomini comparvero sulla terrazza che guardava verso il giardino, portando altre lanterne.
— Chi vive? — gridò una voce a me ormai ben nota.
— Salgari, — risposi.
— Finalmente!… —
Tenendo sempre ben stretto l’orang-kaja, ci lanciammo su per la vasta gradinata e raggiungemmo la terrazza, la quale, in quel momento, era occupata da una mezza dozzina di bughisi armati di ottime carabine, con un lilà, ossia un piccolo cannone di ottone che lancia ordinariamente palle di una libbra, ed una grossa spingarda.
Il signor Parodi si trovava in mezzo a loro armato come un vero brigante. Oltre un fucile a ripetizione, portava alla cintura due grosse rivoltelle ed un coltellaccio spagnuolo.
Ci gettammo fra le braccia l’uno dell’altro con vivissima emozione, anche perchè erano ben due anni che non ci eravamo più veduti.
L’amico Parodi non era più l’uomo d’una volta. Pareva che avesse sessant’anni invece che poco più di cinquanta e la sua alta statura si era già curvata.
I suoi capelli poi erano diventati tutti bianchissimi.
Diede ai suoi uomini alcuni ordini in una lingua a me sconosciuta, poi mi prese per una mano e mi condusse in un salottino ammobiliato con sobria eleganza ed illuminato da una grossa lampada cinese.
Ci guardammo l’un l’altro a lungo, mentre Simone teneva stretto l’orang-kaja, non potendo io più ormai sorvegliarlo.
— Sono assassinato, — mi disse poi. — Non dovevo sposare la fanciulla dayaka!… Che il diavolo si porti tutte queste canaglie di malesi di dayaki e di coolies cinesi!… Vorrei avere sotto le mie mani cento uomini e dare a loro una lezione sanguinosa, una di quelle lezioni che dava James Brooke.
Capisci che sono assassinato?
— Spiegati, bakan, — dissi. — Dov’è prima di tutto tua moglie?
— Me l’hanno portata via.
— Chi?
— I malesi ed i dayaki.
— O che l’abbiano costretta a fuggire minacciandola di morte?
— Può darsi anche questo, — mi rispose il capitano, il quale era diventato lividissimo.
— E non sai, bakan, dove l’abbiano condotta?
— Lo saprò forse prima di domani mattina.
— Hai mandato qualcuno dei tuoi uomini a cercarla?
— Sì, ed è un burghiso, poichè ormai dei malesi o dei dayaki non posso fidarmi e nemmeno dei cinesi.
Ed io stupido che li ho trattati sempre come un padre!… Bastone e piombo per queste pelli colorate!
— Udiamo, bakan: chi è il dayako che si è innamorato in tua moglie?
— Non è affatto un dayako, perchè anzi è un malese puro sangue, che ha nelle vene gli ultimi fondi della pirateria.
— E non sei stato capace di prenderlo e di fucilarlo?
— Mi è sempre scappato.
— Con tua moglie però.
— Non credo, mi è stata rapita. —
Il capitano tolse da una mensola una bottiglia di vecchio ginepro ed empì tre bicchieri:
— Non dài da bere a quest’uomo? — gli chiesi, additando l’orang-kaja.
— Sì, se fosse del veleno, perchè anche questo macaco, tanto beneficato da me, ha pur cercato di tradirmi.
— Lo so io, — risposi. — Non voleva condurmi da te.
— Ah!… Pezzo di galeotto!… — urlò il capitano balzando in piedi. — Nemmeno di te potevo fidarmi? Prendi, mascalzone! —
Un calcio poderoso accompagnò l’invettiva. Il disgraziato interprete scappò via urlando di dolore, ma sul terrazzo fu fermato gentilmente da Simone, il quale non aveva esitato a puntargli contro le armi.
— Il Risoluto? — mi chiese il genovese, dopo d’aver tracannato tre o quattro bicchierini.
— Ne avrà per venti giorni e fors’anche di più.
— Allora puoi tenermi compagnia colla tua famosa carabina. Che arma!…. Con l’acciaio di questa canna si potrebbero fare degli splendidi rasoi. Ormai di queste armi non se ne costruiscono più in Inghilterra. —
Pareva che si fosse scordato di sua moglie, della rivolta e perfino degli incendi che a poco a poco divoravano le sue opulenti piantagioni.
Accese una vecchia pipa, poi guardandomi fisso, mi disse:
— Io non avrei paura di Padanga, se non avessi saputo che da qualche tempo si eccita coll’oppio liquido.
Un giorno diventerà amoc e forse allora nemmeno la forca armata di spine potrà arrestarlo.
Fanno paura quei dannati malesi quando si scagliano, coll’impeto delle tigre, attraverso i villaggi, agitando ferocemente il loro kriss. Non risparmiano nessuno.
— Lo so, — risposi, accendendo un cortado che il vecchio genovese mi aveva offerto.
Parodi fumò per qualche minuto in silenzio, tendendo di quando in quando gli orecchi, poi piantò un terribile pugno in mezzo alla tavola, gridando:
— O Padanga prenderà il mio cuore o io prenderò la sua testa. —
Ci eravamo alzati ed eravamo usciti sul grande terrazzo guardato dai sei gughisi, raccolti intorno al cannoncino ed alla spingarda.
In lontananza la piantagione ardeva non però violentemente, essendo le piante gommifere non ancora pronte per la raccolta. Facevano invece delle belle fiammate le canne da zucchero e le canne d’India.
— Vedi come quei birbanti mi rovinano? — mi disse il genovese con voce sorda.
Sono tre anni di cure e di lavoro perduti. E non aver forze sufficienti per snidare quegli assassini e farli cadere in mezzo al fuoco!
La partita però non è che cominciata. —
Io, veramente, ero di parere contrario. Mi pareva ormai che fosse perduta e che al bakan non dovesse rimanere altro che di lasciare l’isola e d’imbarcarsi sul Risoluto insieme a me, anche senza la sua troppo bella moglie che tante noie gli aveva dato.
La mezzanotte era passata e l’incendio continuava ad avanzarsi lentissimo, essendo le piantagioni interrotte da frequenti corsi d’acqua, quando d’improvviso udimmo delle grida lontane.
— I malesi!… — gridò Parodi, alzando il fucile. — Che inseguano il mio corriere? —
Ci eravamo messi tutti in ascolto, in preda ad una vivissima ansietà, temendo un improvviso e furioso assalto.
Quando i malesi si lanciano, ed al pari di loro i bornesi, non si arrestano più e vincono o cadono tutti nel campo nemico.
Le grida si avvicinavano, grida acutissime, selvagge che ben poco avevano d’umano.
Il genovese, impotente a frenarsi, lasciò tre bughisi a guardia della piccola artiglieria e dell’orang-kaja a cui voleva certamente somministrare a suo tempo una terribile correzione, e ci invitò a seguirlo.
Attraversammo il giardino di gran corsa e raggiungemmo il margine della piantagione.
Proprio in quel momento udimmo uno sparo, poi un grido acutissimo.
Il colpo di fucile era stato sparato a pochi passi di distanza, entro un foltissimo cespuglio che accerchiava un gigantesco durion.
Parodi, sospettando che i malesi ed i dayaki fossero vicinissimi, si gettò a bandoliera il fucile e scaricò in tutte le direzioni, i dodici colpi delle sue grosse rivoltelle.
Fra le macchie udimmo un fruscìo come di gente che fuggisse, poi un grido:
— Nada!… —
Il genovese aveva mandata una bestemmia. Aveva riconosciuta quella voce: era del corriere che aveva mandato a cercare la bellissima dayaka.
— Tenetevi pronti a fare fuoco — ci gridò.
Poi si precipitò in mezzo ai cespugli allargandoli a calci e tutto d’un tratto si trovò dinanzi ad un giovane burghiso, il quale si era presa una fucilata in pieno petto.
Io li aveva raggiunti assieme al mio mali.
Compresi subito che il povero corriere era spacciato. Perdeva gran quantità di sangue non solamente dal petto attraversato dal proiettile, bensì anche dalla bocca.
— Nada (Padrone) — disse con voce morente. — Tua moglie ti ha tradito coi malesi e coi dayaki.
Finchè ti rimane un po’ di tempo fuggi, perchè Padanga ormai è amoc.
— E mia moglie!… — urlò il vecchio capitano.
— È tornata fra i suoi compatriotti…. Nada…. muoio…. fuggi…. vogliono la tua vita. —
Il disgraziato agitò due o tre volte le braccia, ritirò le gambe, ebbe un ultimo vomito di sangue e si spense d’un tratto come una lampada privata d’improvviso dell’olio.
Guardai Parodi: il vecchio capitano non era più riconoscibile. Pareva che una grande bufera avesse atterrato, in un momento, quella fibra fino allora così robusta.
— Vieni, — gli dissi. — Non aspettare qui il colpo di Padanga. Sulla terrazza sapremo difenderci meglio.
— Hai ragione, — mi rispose.
— Ormai tutto è perduto: donna e ricchezza…
— Tornerai a Genova?
— Senza aver ucciso il malese! — urlò Parodi. — Ah no!…
— E tua moglie?
— Che il diavolo se la porti!… Queste dayake non potranno mai andare d’accordo con un uomo bianco, anche se fosse bello come un sole.
— L’ho sempre pensato anch’io, amico. —
I tre burghisi che ci avevano accompagnati afferrarono il corpo del corriere e ritornammo tutti verso la fattoria sparando qualche colpo di fucile a destra ed a sinistra, per far capire ai malesi ed ai dayaki che eravamo ben risoluti a difenderci.
In meno di dieci minuti ci trovammo nuovamente sulla vasta terrazza prospettante sul giardino.
*
* *
Parodi si era lasciato cadere su di una sedia di bambù, come se le forze gli fossero improvvisamente venute meno.
In un quarto d’ora il povero genovese era invecchiato di altri dieci anni.
Gli offrii un bicchierino di ginepro e me lo rifiutò; accettò solo un grosso bicchiere di kalapa, quella bibita rinfrescante racchiusa nelle noci di cocco non troppo mature.
— Amico, — gli dissi, quando lo ebbe vuotato — quale decisione hai presa, ora che tua moglie preferisce starsene fra i suoi?
Hai delle scialuppe o qualche praho sul fiume?
— Sì, — rispose Parodi, — ma nè le une, nè gli altri serviranno a me.
— Che cosa vuoi dire?
— Che un uomo bianco non può fuggire dinanzi ai selvaggi senza disonorare la propria razza.
— Ma che cosa vuole quel Padanga?
— La mia pelle.
— Io non so ancora il perchè quell’uomo ti odi così. —
Il vecchio capitano si passò una mano sulla lunga barba grigia, poi disse:
— Sono stato uno stupido: credevo che i malesi fossero fratelli dei cinesi e mi sono enormemente ingannato.
Già la mia prima sciocchezza è stata quella di sposare la figlia del rajah di Liard.
— Spiegati meglio.
— Padanga aveva amato mia moglie prima che io la sposassi. Un giorno lo sorpresi a guardarla ed invece di ucciderlo lo frustai sul viso. Giurò vendetta sul suo solco sanguinoso che non guarirà più mai ed eccolo all’opera.
— Se partissimo? Il Risoluto fra un paio di settimane sarà in grado di prendere il mare.
Andreno a caricare a Sarawak e torneremo tranquillamente in Europa con un carico di caffè e di zucchero invece che di gomme e di canne d’India. —
Il genovese mi guardò quasi ferocemente.
— Io fuggire dinanzi l’amoc di Padanga!… Oh, mai!… — gridò. — Mi brucino pure vivo dentro la mia villa, io non commetterò mai una simile viltà. —
Conoscevo troppo bene il genovese per insistere, e tuttavia non desideravo affatto per causa della sua bellissima moglie, di Padanga, dei malesi e dei dayaki, di lasciare la mia pelle a Balambangan. Chiamai da parte Simone e gli esposi la situazione.
— Allora, signor Emilio, si fila sparando la carabina — mi rispose. — Io credo che il vostro amico sia diventato pazzo.
— Lo temo anch’io mali, — risposi. — Padanga e la bellissima dayaka mi hanno rovinato quest’uomo, che pareva dovesse solcare gli oceani fino ai cento anni. —
Il disgraziato genovese era entrato nel salotto e si era messo a bere rabbiosamente il fortissimo ginepro.
Mi slanciai su di lui e gli strappai la bottiglia, passandola ai bughisi.
— Si va? — gli chiesi.
Parodi aprì tanto d’occhi e digrignò i denti.
— Si va, — disse poi. — Dove?
— Suppongo che non vorrai farci arrostire tutti dentro la tua villa. Giacchè hai delle scialuppe sul fiume, prendiamone una e filiamo verso Balabac.
Sul Risoluto il kriss di Padanga non ti raggiungerà. Decidi: il vento si alza ed il fuoco aumenta. —
Parodi mi lanciò uno sguardo smarrito poi tendendo un pugno gridò:
— E dovrò perdere tutto ciò?
— Sarà sempre meglio salvare la vita. Raccogli le tue ricchezze e sgombriamo. Il fumo comincia a giungere fino sulle terrazze.
— Sia, — mi rispose il genovese — ma io non sfuggirò all’amoc di Padanga.
— Io ed il mio mali terremo d’occhio quel furfante. Sbrighiamoci. —
L’incendio si dilatava prendendo in mezzo la fattoria. Grosse nubi di fumo e nembi di scintille rasentavano di quando in quando le terrazze.
I malesi ed i dayaki guidavano l’incendio, tentando di tagliarci la ritirata verso il fiume.
Quei furfanti dovevano avanzarsi silenziosamente dietro il fumo colla speranza di giungere sotto la villa e di montare all’assalto coi loro terribili sciaboloni, i parangs.
— Cerchiamo di arrestarli, — dissi a Simone. — Fa’ sparare il lilà ed anche la spingarda.
— Verrà il vostro amico?
— Che cosa vuoi che io ti dica! Mi pare che questi due colpi l’abbiano fatto diventare pazzo.
Noi, faremo il possibile per condurlo a Balabac.
— E perderà tutte queste opulenti piantagioni?
— Casi della vita, mio caro. Se fosse rimasto in patria non avrebbe avuti tanti fastidî.
— E tutto per quella smorfiosa di dayaka!…
— Io non lo so e forse noi non sapremo mai perchè i malesi ed i dayaki vogliono ora la pelle di Parodi. —
I sei bughisi avevano cominciato a far fuoco col cannoncino di ottone che lanciava palle da una libbra e colla grossa spingarda che rovesciava, ad ogni colpo, nembi di mitraglia, falciando le piante e bucando anche gli uomini che vi stavano nascosti sotto.
Delle grida echeggiavano accompagnate da qualche colpo di fucile. Essendo i fucili malesi pessimi, non vi era alcun pericolo da correre, almeno ad una certa distanza.
Quello che mi preoccupava era l’avanzata del fuoco. Gli avversari si vendicavano scagliando dinanzi a loro nembi di bastoni accesi, i quali provocavano continui incendi.
Ormai erano tanto vicini che li udivamo parlare al di là delle macchie mitragliate dalla spingarda.
La fattoria stava per prendere fuoco ed il vecchio capitano non compariva.
Mi slanciai nelle stanze insieme a Simone e lo trovai seduto su una grossa valigia di pelle gialla, col viso nascosto fra le mani.
— Ohè, amico!… — gridai. — Abbiamo il fuoco a pochi passi da noi. —
Parodi si alzò lentamente, levò le mani e gettò su di noi uno sguardo che ci fece una penosissima impressione.
Quell’uomo doveva essere diventato pazzo.
— Vieni? — gli chiesi.
— Dove? — mi domandò con voce rauca.
— A Balabac, a bordo del Risoluto. —
Stette un momento silenzioso poi scoppiò in una risata.
— E tu credi, — mi disse, — che io possa lasciare quest’isola quando un malese ha deciso la mia morte? —
Fece un salto e si precipitò verso una finestra:
— Lo vedi!… — gridò. — Corre attraverso il bosco impugnando il kriss ed urlando a squarciagola amoc!… amoc!… Quell’uomo giungerà fino a me, se non gli prepareremo la brandil.
— Io non vedo nulla — gli dissi.
— Tu, ma io sì. —
Sarebbe stato inutile discutere con quell’uomo che non aveva ormai più il cervello a posto.
— Andiamo, — insistetti, afferrando la valigia.
— La brandil! La brandil!…
— La porteremo con noi. —
Lo spingemmo verso la terrazza dove i bughisi continuavano a sparare le carabine, aiutati, sia pure di malavoglia, dall’orang-kaja.
Il lilà e la spingarda erano stati prontamente guastati dopo i due ultimi colpi che avevano fatto urlare terribilmente i malesi ed i dayaki.
— Sgombrate!… — gridai. — Il fuoco sta per divorarci!… —
Nembi di scintille cadevano ormai sulle terrazze turbinando, impedendoci perfino di vedere.
Il fuoco non era lontano.
Un calore intenso si spandeva dentro le stanze, facendo crepitare ed arricciare le tende di mussola.
Fra mezz’ora tutta quella casa doveva essere in preda del fuoco.
Presi per un braccio il genovese e lo trascinai sul terrazzo. Quando Parodi però vide il lilà e la spingarda rovinare giù dalla gradinata, ebbe un impeto di ribellione.
—Io fuggire!… — gridò. — Un capitano genovese!… Oh mai!…
— Sfuggi l’amoc, — gli dissi.
Quella parola parve produrgli un profondo effetto, poichè si rizzò fra di noi guardando verso il fuoco che si avanzava.
— Lo vedo, — disse.
— Padanga?
— Ha il kriss in mano ed è ubbriaco d’oppio.
— Tu sogni, Parodi. Ci sarà, ma deve essere ancora lontano.
— Tu non conosci l’odio dei malesi.
— Ragione di più per andarcene a Balabac. —
Il disgraziato fece un gesto largo, poi alzò le spalle.
— Sono condannato, — disse. — Quello che è stato è stato. —
Che cosa voleva dire con quelle parole?
Ci doveva essere lì sotto un mistero, ma il genovese non era d’umore di raccontarmi altro.
— La brandil, — disse — fa paura agli amoc. —
Ne avevo veduto quattro o cinque sospese ad una parete, fuori sul terrazzo.
Quegli istrumenti terribili si trovano in tutte le piantagioni malesi.
Consistono in un lungo manico che finisce in una specie di forca tutta irta di spine.
Succede sovente nel Borneo che i malesi impazziscano improvvisamente per l’uso soverchio dell’oppio. Allora si lanciano come belve, armati del kriss e quante persone trovano sul loro passaggio tutte le atterrano.
Non vi è che la brandil per ridurre a dovere quei furibondi, i quali, straziati atrocemente dalle spine che aprono a loro il collo, si arrestano terrorizzati e si arrendono senza opporre resistenza.
La sorte di quei miseri è sempre decisa: un colpo di pistola nella testa e si manda l’assassino all’altro mondo, senza fargli alcun processo.
Prendemmo la valigia e attraversammo di corsa la terrazza. Simone aveva già staccato una brandil.
— Andiamo, — dissi. — Tutto ormai è perduto. —
Stavamo per scendere la gradinata, quando un urlo acutissimo, spaventoso, echeggiò verso l’estremità del giardino.
— Padanga!… — gridò Parodi, diventato livido.
Un uomo interamente nudo, più nero che olivastro, era balzato fuori dalle piante impugnando un kriss.
Spiccò cinque o sei salti poi scomparve prima che il capitano, il quale aveva armato la sua carabina, potesse far fuoco.
— Lo vedi, — mi disse con aria desolata. — Mi aspetta per togliermi la vita.
— Ci saremo anche noi, — risposi. — Siamo in buon numero e bene armati.
Simone, tieni alta la brandil onde Padanga, se ritorna, possa vederla. —
Ci precipitammo giù dalla gradinata perseguitati da nembi di scintille ed attraversammo il giardino cercando di raggiungere il fiume.
Avevamo percorsi appena cinquanta passi, quando l’urlo spaventoso si ripetè: Padanga tornava deciso a compiere la sua vendetta.
Altre grida vi risposero: dei malesi e dei dayaki lo seguivano da lontano incoraggiandolo a compiere la strage.
Trovandoci noi in mezzo a folte piante non potemmo vedere il bandito. Non doveva però essere lontano e forse si era immaginato che noi volevamo lasciare l’isola e ci aspettava sulla riva del fiume.
Avanzammo con precauzione, tenendo le carabine puntate, pronti a ricevere il pazzo con una scarica piuttosto che far uso della brandil.
Parodi di passo in passo che si avanzava diventava sempre più tetro e più preoccupato.
Le due mani tormentavano nervosamente le due grosse rivoltelle americane, magnifiche armi per un buon tiratore.
Spiccò cinque o sei salti, poi scomparve…
Raggiunta l’estremità del giardino sostammo un momento, poichè dinanzi a noi si estendevano dei grossi banani e dei pombo giganteschi, i cui tronchi erano avvolti da enormi gruppi di pepe selvatico.
Temevamo che i malesi e Padanga si fossero imboscati là per tagliarci la ritirata verso il fiume.
Stavamo perlustrando lentamente, colle armi puntate, quando una luce intensa si proiettò su di noi.
La fattoria del genovese aveva preso fuoco e bruciava come se fosse una scatola di fiammiferi.
Essendo costruita quasi tutta in legno, l’elemento distruttore aveva buona presa.
Vampe gigantesche si alzavano sopra le terrazze, crepitando sinistramente colle selvagge contrazioni dei serpenti.
Guardai il genovese, il quale si era fermato. Pareva che in quel momento non si ricordasse più del terribile Padanga.
Colle braccia incrociate, gli occhi umidi, contemplava la sua casa che diroccava rapidamente sotto i morsi del fuoco.
— Vieni, — gli dissi.— Ormai tutto è finito. —
Il capitano lanciò tre o quattro imprecazioni da vero camalo, aspirò a lungo l’aria, riprese le sue rivoltelle e mi rispose con voce spezzata:
— Sì, tutto è finito.
— Andiamo a Balabac, prima che ci taglino la via.
—A Balabac? A che cosa fare? — gridò Parodi. — A rifarmi una fortuna? Sono…. sono troppo vecchio.
— Pensa a salvare la pelle per ora. —
In quel momento per la terza volta l’urlo spaventoso di Padanga echeggiò sinistramente.
— Amoc!… Amoc! — urlava il bandito. —
Lo vedemmo passare a cinquanta o sessanta passi. Balzava come una tigre malese ed impugnava sempre il kriss.
Parodi sparò a casaccio dei colpi di rivoltella i quali non ottennero nessun successo.
Il bandito si nascondeva fra le piante e non si lasciava cogliere allo scoperto.
Sostammo quattro o cinque minuti colla speranza di fargli una buona scarica addosso, poi ci avanzammo attraverso un bosco di arenghe saccarifere preceduti dall’orang-kaja.
Padanga non si era più fatto fatto vedere; però noi lo sentivamo ronzarci intorno. Il bandito aspettava il buon momento per compiere una strage pazzesca.
Udivamo di quando in quando dei fruscii dentro le macchie, ora sulla nostra destra ed ora sulla nostra sinistra.
Simone teneva ben alta la brandil e credo che al momento opportuno quel diavolo di giovanotto, sarebbe stato capace di servirsene.
Era forse la vista di quel terribile istrumento, così temuto dagli amoc, che tratteneva ancora Padanga nel suo ultimo slancio?
Sentivo però per istinto che un dramma sanguinoso non doveva tardare a svolgersi.
Quando ci rimettemmo in marcia, tutta la villa era sprofondata fra un mare di fuoco. Non erano rimaste nemmeno le terrazze.
— Ecco la mia fine!… — aveva esclamato Parodi.
Lo circondammo per impedire che il malese gli piombasse addosso a tradimento e ci avviammo verso il fiume, il quale scorreva cinque o seicento metri dinanzi a noi.
Di passo in passo che avanzavamo la foresta si sviluppava più rigogliosa, anzi si potevano chiamare due foreste, poichè mentre i giganti spingevano a cinquanta ed anche sessanta metri le loro cime coronate di immensi ciuffi di spate, alla loro base i cespugli si riunivano a prendere anche loro un buon posto.
Avevamo attraversata mezza distanza quando mi arrestai di colpo, imbracciando la carabina.
— Fermi tutti, — dissi.
— Padanga? — chiese il vecchio capitano, impallidendo.
— Ho udito un fruscìo: pareva che un uomo cercasse di aprirsi il passo fra i nepentes ed i rotang. —
Sostammo un minuto, ascoltando. Le grida dei malesi e dei dayaki erano cessate, ma non vi era da dubitare che quei banditi seguissero ancora il pazzo per infondergli maggior coraggio.
Guardai il genovese: era diventato pallido come uno spettro. Quell’uomo sentiva ormai la morte.
Provai a sparare un colpo a mitraglia verso i cespugli che qualcuno doveva aver cercato di attraversare. Nessun grido rispose alla fragorosa detonazione. Avevo fulminato il pazzo o l’avevo sbagliato?
— Signor Emilio, — mi disse Simone. — Volete che vada a vedere?
— Per cadere in qualche imboscata? No, mali, presto al fiume, giacchè non ci hanno tagliata la ritirata.
Radunai il gruppo, ricaricai la carabina e ci spingemmo nuovamente innanzi, aprendoci il passo attraverso i bassi cespugli.
Udivamo già l’acqua del fiume frangersi contro le ghiaie.
Ancora pochi passi e Padanga poteva gettare in mare il suo kriss.
Ci arrestavamo però sovente. Sentivamo che il pericolo non era ancora scomparso.
Spuntava l’alba quando giungemmo sulla riva del fiume.
Colà vi erano quattro grosse scialuppe armate di remi ed anche d’alberetto, che servivano pel trasporto delle canne da zucchero.
— La più grossa! — gridai a Simone.
Il mali, lesto come una scimmia, balzò nella scialuppa e con pochi colpi di remo la condusse fino a noi.
— Imbarcate! — comandai.
Mi volsi e vidi Parodi colla brandil alzata.
— Che cosa fai? — gli chiesi. — Presto, salta!… —
Non si mosse: pareva che ascoltasse qualche rumore.
— Vieni!… — gli gridai.
Ad un tratto l’urlo spaventoso del pazzo squarciò nuovamente l’aria a pochi passi da noi.
Fu un lampo. Padanga, agile come le tigri del suo paese, si era gettato furiosamente sul capitano e gli aveva piantato il pugnale nel cuore.
Facemmo fuoco tutti ad un tempo e l’assassino cadde sul corpo della sua vittima, crivellato di palle.
In quell’istante urla altissime si alzarono al di là delle macchie.
I malesi ed i dayaki, accorrevano per vendicare forse il pazzo?
Sollevammo il cadavere del disgraziato capitano, lo deponemmo nella scialuppa e ci allontanammo a gran forza di remi, sparando alcuni colpi.
Dieci minuti dopo eravamo in mare.
Sulla spiaggia si erano radunati a gran furia quattro o cinquecento indigeni fra malesi e dayaki e distinsi fra quelle canaglie una donna: era la vedova Parodi.
Non so chi mi abbia trattenuto dal farle fuoco contro, perchè era ancora a buon tiro.
Ormai avevo capito tutto.
La bellissima selvaggia aveva voluto sbarazzarsi del’uomo bianco troppo vecchio per lei, scaraventandogli fra i piedi il feroce malese, onde impadronirsi di tutto.
Cose che succedono laggiù, dove tutti, più o meno, sono ladri o pirati.
I dayaki ci scagliarono addosso una bordata di frecce lanciate colle gravatane, però nemmeno una ci raggiunse.
Avevamo spiegata frettolosamente la vela, e la scialuppa filava ormai rapidissima su un mare abbastanza tranquillo.
Fortunatamente i malesi non avevano pensato a darci la caccia su qualche loro praho meglio armato e più lesto della nostra scialuppa.
Alle sette di sera entravamo nella baia di Balabac, dove si trovava, sempre in riparazione, il Risoluto.
Non essendovi che un console inglese, gli rimettemmo la valigia del disgraziato capitano, dopo d’averne firmata tutti noi la consegna.
Conteneva duecentomila lire in cartelle di rendita olandese, ma non ho mai saputo quando giungessero a Genova.
Seppellimmo il povero capitano nel minuscolo ma pittoresco cimitero di Balabac, coi dovuti onori, e dieci giorni dopo, non avendo più nulla da fare a Balambangan, ora che Parodi era morto, spiegammo le vele per Brunei, dove trovammo facilmente buon carico per conto d’una casa inglese residente a Canton.
Della bellissima e perfida dayaka poi, non ne ho saputo più nulla.
Emilio Salgari.
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