Il maharatto era stato già varie volte nella regina del Bengala con Tremal-Naik, con Yanez e con Sandokan, quindi la città non gli era ignota,
Sua prima cura fu di correre all’ufficio telegrafico per avvertire la Tigre della Malesia di quanto stava svolgendosi nell’Assam, poi si recò ad una banca a farsi scontare un chèque di diecimila rupie, e finalmente, abbastanza stanco, prese alloggio, col compagno, in uno dei migliori alberghi dello Strand, strada breve, quasi senz’alberi, eppure frequentata, specialmente verso il tramonto, da tutti i ricchi inglesi e dai principi indiani con sfarzosi equipaggi.
«Possiamo finalmente permetterci il lusso d’una buona cena» disse Kammamuri. «I nostri affari sono finiti. Appena riceveremo il telegramma della Tigre della Malesia faremo le nostre valigie, che per ora non abbiamo, e torneremo al più presto alla capitale. Sono inquieto assai. Che cosa succederà lassù? Che quel cane di Sindhia abbia già scatenata l’insurrezione? Ah!… Se il maharajah avesse pensato prima ai Tigrotti di Mòmpracem le cose sarebbero andate forse diversamente». «Così terribili dunque sono quegli uomini?» chiese Timul.
«Senza di loro la rhani non avrebbe scacciato Sindhia, quantunque validamente aiutata dai suoi montanari. Sono guerrieri straordinari, temuti assai perfino dagli inglesi, e che una volta lanciati, non si arrestano più». «E che giungano davvero?» «Oh, non vi è da dubitare».
Si fecero condurre in una vasta stanza fornita di due letti, e si fecero servire colà una buona cena, non volendo mostrarsi nel salone che era frequentato da troppi inglesi, e non desiderando affatto suscitare delle curiosità che potevano essere pericolose, non essendo improbabile che Sindhia avesse degli amici anche a Calcutta, essendoci rimasto per tre anni in un ritiro di pazzi, e dove avrebbe dovuto ancora trovarsi.
Terminato di mangiare, esaminarono attentamente le due porte, e trovatele ben chiuse, dopo una fumata, si cacciarono sotto le lenzuola colpiti da un sonno di piombo. Erano già due notti che non si riposavano su un letto. Alle cinque del mattino il campanello squillò a lungo nella loro stanza.
Kammamuri, in un baleno si vestì, aprì la porta dietro la quale qualcuno bussava, e si trovò di fronte ad un servo il quale gli consegnò un telegramma. Diede una rupia di mancia, strappò la busta, ed avendo imparato a leggere, quantunque molto tardi, osservò attentamente.
«Che cosa ti dicevo io, Timul?» disse al giovane cercatore di piste, che si era pure vestito. «Tu non sai leggere?» «No, sahib».
«Ecco che cosa si risponde da Labuan al mio dispaccio: «Parto immediatamente con cento uomini. Sandokan». «Cento soli!…» esclamò Timul. «Valgono per mille, mio caro». «E quando saranno qui?»
«Non prima di venticinque o trenta giorni. Mòmpracem è un po’ lontana dall’India, e poi l’oceano è un po’ sempre cattivo laggiù». «Noi ritorneremo subito alla capitale, sahib?»
«Prima voglio informarmi in qual modo Sindhia è fuggito dal ritiro dei pazzi, poiché la rhani pagava una grossa mesata purché lo sorvegliassero strettamente».
«E se fosse ancora qui? Noi, una prova che l’ex rajah si trovi nell’Assam non l’abbiamo ancora avuta».
«Ma mille circostanze e mille fatti lo indicano. D’altronde lo sapremo ben presto. So dove si trova la palazzina dei pazzi, poiché una volta, al suo proprietario ho versato, per conto della rhani, cinquantamila rupie da mettersi a disposizione di Sindhia».
«Io, se fossi stato il maharajah, avrei impedito a sua moglie di dargli un solo mohr».
«Sindhia è parente della rhani, e poi tutti i principi spodestati hanno diritto a certi riguardi. Andiamo: se sbrigheremo presto i nostri affari, riprenderemo la via dell’alta India col treno che parte alle otto e cinquanta».
Terminarono la loro toletta, si fecero servire un thè con biscottini e lasciarono l’albergo dopo d’aver dispensate laute mance, figurando anche essi come principi.
Kammamuri noleggiò un mail-cart, vettura leggera, capace di portare tre persone avendo un sedile anche di dietro, e che è tirata da tre cavalli, e si recò innanzi tutto all’ufficio telegrafico per comunicare a Yanez la buona nuova avuta dalla Malesia, poi si fece condurre sulla immensa spianata del forte William, tutta ingombra di elegantissimi bungalow, dai tetti acuti e circondati da giardini magnifici, e si arrestò dinanzi ad una costruzione di stile mongolo, con ampie terrazze, alte cupole lucenti ed altissime cancellate.
«Era stato mandato qui a curare la sua pazzia» disse a Timul, dopo essere disceso. «Come vedi, il posto era splendido anche per un rajah spodestato». «È piena di pazzi questa villa, sahib?»
«Sì, ma di persone che possono pagare anche venticinque rupie al giorno. Sono quasi tutti indiani ricchissimi».
Diede ordine al cocchiere, che era un ragazzotto meticcio, di aspettarlo, poi entrò nel giardino che circondava la splendida dimora, essendo il cancello aperto. Un indiano però, di forme erculee, vegliava, seduto su una panca di pietra, all’ombra d’un folto banano, e fu pronto a slanciarsi incontro ai due visitatori, credendoli forse altri due pazzi da ricoverare.
«Càlmati» gli disse subito Kammamuri. «Vengo da parte della rhani dell’Assam. Dov’è il dottor Stewenson?»
«È stato chiamato a Baroda, sahib» rispose il portiere. «Voi siete stato ancora qui, un’altra volta, cinque o sei mesi or sono, è vero?»
«Precisamente: tu hai una buona memoria. Ho portato molto danaro per l’ex rajah Sindhia. Ricordi anche questo?» «Sì, sahib».
Kammamuri gli fece scivolare in mano un mohr d’oro e si sedette sulla panca di pietra gustando per qualche momento la frescura che regnava sotto il gran banano. «Dunque è fuggito, è vero?» gli chiese a bruciapelo.
«Sì, sahib. La nostra vigilanza è stata inutile, come sono state inutili le nostre ricerche. L’ex rajah manca da tre mesi». «È stato aiutato da qualcuno?»
«È fuggito una notte, nel momento in cui si scatenava uno spaventevole uragano, ma dei suoi amici dovevano aspettarlo al di là del cancello con delle vetture, poiché al mattino abbiamo trovato numerosi solchi». «Era guarito?»
«Sì, sahib. Ormai non beveva più nessun liquore, ed era tormentato da un sogno». «Di riconquistare la perduta corona!» «Precisamente». «Venivano delle persone a trovarlo?»
«Sì, dei bramini, i quali confabulavano molto a lungo con lui, tanto che il dottore cominciava ad inquietarsi. Già prevedeva una fuga». «Ah!… Dei bramini!…» fece Kammamuri. «Quanti?» «Cinque o sei». «Non sapresti riconoscerne qualcuno?» «Certo, se si…»
L’erculeo portinaio si era bruscamente interrotto, poi si era slanciato verso il cancello rimasto aperto.
Proprio in quel momento un bramino, tutto vestito di seta bianca, passava sull’ampio viale che si stendeva dinanzi alla costruzione mongola. Anche Kammamuri e Timul erano balzati in piedi ed avevano guardato a lungo il preteso sant’uomo, che se ne andava a lenti passi. Due grida erano sfuggite loro: «Il bramino del treno!…»
In un lampo attraversarono il cancello e tagliarono la ritirata dinanzi e di dietro al bramino il quale si era subito arrestato, guardandoli sdegnosamente. «Signor sacerdote» disse Kammamuri, con voce rabbiosa. «Ci riconoscete?»
«Chi siete? Dei paria forse?» chiese il furfante. «Brahma non elargisce le sue benedizioni ai rettili delle foreste indostane. Andate per la vostra strada, galantuomini, se siete veramente dei galantuomini».
«Per la morte del tuo dio!…» urlò il maharatto, saltandogli addosso ed afferrandolo pel petto. «Non ci conosci più?»
«Io non vi ho mai veduti» rispose il sacerdote. «E se mi seccate ancora un po’ ricorrerò alla polizia». «Ah!… Canaglia!…»
Kammamuri si frugò nelle tasche ed estrasse il porta-sigari che gli era stato regalato dal bramino nel treno, colla speranza di fargli fumare dei sigari bene imbottiti di oppio.
«Ti ricordi, sacerdote, di avermi dato questo, poco dopo che il treno lasciasse Bogra?» «Tu sei pazzo!…»
«Ed il macchinista insieme al fuochista dov’è fuggito? Siete saltati a terra un momento prima che la jungla prendesse fuoco, o meglio che venisse incendiata dagli amici di Sindhia!…» «Sindhia!…» esclamò il bramino senza scomporsi. «Chi è?» «L’ex rajah dell’Assam» urlò Kammamuri, tenendolo sempre stretto. «Tu sei pazzo!…» Poi vedendo il gigantesco portiere che si avvicinava, gli disse:
«Andate a chiamare due guardie per arrestare questi briganti che pretendono di avermi conosciuto in non so quale angolo del mondo».
«Vi conosco anch’io, signor sacerdote» disse il guardiano della villa dei pazzi. «Venivate a trovare, assai sovente, l’ex rajah dell’Assam».
«Io!… Siete tre pazzi fuggiti da quella villa? Si sa che là dentro curano le persone che hanno il cervello guasto».
Incrociò le braccia sul petto, strappandosi alla stretta del maharatto, e disse con voce minacciosa, guardando tutti, uno ad uno, bene in volto:
«Che cosa volete da me? Dei denari? Vi avverto che i bramini non ne portano mai nelle loro tasche perché non ne hanno bisogno. Volete la mia vita? Prendetela, ma non venite a raccontarmi di avermi conosciuto».
«Assassino!…» urlò Kammamuri. «Tu ed i tuoi banditi, nella Jungla Gialla, avete abbruciate cento persone».
«Dove si trova questa jungla che porta un colore così simpatico?» chiese il sacerdote con voce ironica, facendo un passo indietro, come se tentasse di fuggire.
«Ah!… Furfante!… È ora di finire questa commedia!…» gridò Kammamuri, scaraventandogli in pieno viso il porta-sigari. «Tu non conosci noi che ti abbiamo affumicato per parecchie ore, e non conosci nemmeno più il portiere dell’asilo dei pazzi del dottor Stewenson?»
«Io non vi ho mai veduti e vi farò arrestare, canaglie. Voi tentate qualche ricatto».
«Un ricatto!… Ho diecimila rupie in tasca in tante banconote inglesi, e tu vorresti far credere che ti ho fermato per depredarti? Giù la maschera, bramino: sappiamo già chi tu sei».
Il sacerdote, sempre calmo, si volse verso il portiere dell’asilo dei pazzi dicendogli: «Andate a chiamarmi due guardie».
«No, sahib» rispose il gigante, scuotendo energicamente la testa. «Anch’io vi ho riconosciuto, e venivate, insieme ad altri tre bramini sospetti, a trovare il pazzo dell’Assam». «Ti farò cacciare, pezzo di coccodrillo!… Dov’è il tuo padrone?» «È ben lontano in questo momento e non tornerà così presto». «Lo aspetterò».
«Dove? Qui?» chiese Kammamuri, il quale lo sorvegliava attentamente, tenendo una mano sul calcio d’una delle sue pistole.
«Anche qui. Voglio che il dottore cacci via questo miserabile che osa alzare la voce dinanzi ad un bramino».
«Ecco una bella occasione» disse il maharatto, volgendosi verso il portiere.
«Prendi quest’uomo, portalo fra i pazzi e làscialo là finché tornerà il tuo padrone. Ecco altri due mohr pel suo mantenimento».
«Va bene, sahib» rispose il gigante afferrando il sacerdote per le spalle. «Ti prometto che sarà trattato bene quanto l’ex rajah».
«Giù le tue zampe impure!…» urlò il bramino, scaldandosi per la prima volta. «Va’ a prendere le scimmie, canaglia!» «Prendo voi intanto». «Ma io non sono pazzo».
«Tutto lo indica, signore. E poi basta guardarvi gli occhi. Ne ho veduti ben pochi di così brutti». «Giù le tue zampe impure!…» gridò per la seconda volta l’assassino.
Il portiere, invece di obbedire se lo prese in braccio come se fosse un ragazzo ed entrò correndo nella graziosa villa, gridando: «Presto!… Una doccia assai fredda!… C’è un pazzo furioso!…»
A quel grido, tre infermieri, pur essi indù, ma di forme massicce, uscirono correndo dalla porta della palazzina, muniti di camicia di forza e di corde. In un momento si gettarono sul bramino, il quale pareva che fosse diventato realmente pazzo, poiché urlava come una belva e tirava pugni e calci, lo presero quasi di volo e lo portarono via malgrado le sue proteste e le sue maledizioni.
Il portiere attese che tutti fossero scomparsi, poi tornò verso Kammamuri e Timul, i quali ridevano a crepapelle.
«Signori» disse. «L’uomo è al sicuro. Finché non giungerà il dottore non vi darà più alcun fastidio. È già sotto la doccia e ne riceverà ben altre. Bramino!… Ma che bramino!… È un uomo sospetto. Deve essere un amico di quella canaglia di Sindhia». «Si direbbe che tu hai qualche rancore contro l’ex rajah».
«Sono assamese, sahib, e quel cane mi ha ucciso mio padre per provare la potenza d’una nuova carabina che gli aveva regalato il maharajah di Baroda. Se non ci fosse stato il dottore, non sarebbe uscito vivo da questo asilo di pazzi». «Credi tu che sia fuggito per dare battaglia alla rhani?» chiese Kammamuri. «Sì, sahib: egli vuole riprendersi la corona». «Con quali forze?» «Non so». «Con quali denari?»
«Si sussurra che gli inglesi abbiano messo a sua disposizione delle grosse somme, purché rovesci il maharajah dalla pelle bianca». «Infatti, il maharajah è un loro vecchio nemico». «Che cosa posso fare per voi, sahib?»
«Mandarmi un telegramma alla capitale sullo stato di salute del bramino» rispose Kammamuri, mettendogli in mano un altro mohr. «Non lo lascerò fuggire. Piuttosto lo ammazzerò con un pugno». «Non domando tanto. Quell’uomo potrà forse un giorno esserci utile». «Sul suo viso ha scritto una parola che io ho bene decifrata, sahib». «Continua». «Furfante».
«Puoi aver ragione. Noi questa sera ripartiamo ed aspetteremo il tuo telegramma». «Contate sulla mia parola».
Kammamuri ed il giovane cercatore di piste tornarono verso il mail-cart, ed al conduttore diedero il segnale della partenza, però il ragazzotto non fece fischiare la frusta, anzi trattenne con mano abbastanza ferma, i tre cavalli scalpitanti ed impazienti di mettere in moto le loro zampe nervose.
«Perché non si va?» chiese il maharatto stupito. «Ti ho detto di riprendere la corsa».
«Una parola prima, sahib» disse il giovane cocchiere, il quale pareva assai preoccupato. «Vi sono laggiù, seduti su una panca, all’ombra d’una mangifera, due uomini che non mi persuadono affatto. Devono aspettarvi». «Noi?»
«Durante la vostra assenza sono venuti da me a domandarmi se voi eravate due assamesi». «E tu che cos’hai risposto?» chiese Kammamuri.
«Che non sapevo nulla, e si sono allontanati bestemmiando e pronunciando parole minacciose».
«Chi possono essere, sahib?» chiese Timul, il quale cominciava pure a preoccuparsi.
«Due amici del bramino» rispose Kammamuri. «Non credevo che Sindhia avesse delle spie così abili. Ci aspettano!… Va benissimo. Noi armiamo le pistole, e tu ragazzo lancia i cavalli a corsa sfrenata e portaci diritti alla stazione. Là dentro nessuno verrà certo ad assalirci. Erano armati?» «Avevano pugnali e pistole, sahib» rispose il minuscolo cocchiere.
«Hai paura, tu? Siamo bene armati e siamo dei tiratori straordinari, e vedrai che quei due malandrini passeranno un brutto momento». «Allora lancio i cavalli». «Avanti».
Il leggero mail-cart partì rapido come una saetta, sollevando una fitta nuvola di polvere.
Aveva appena percorsi trecento metri, quando due uomini si alzarono dietro un sedile di pietra, collocato all’ombra d’una magnifica mangifera, impugnando delle pistole e gridando con voce minacciosa: «Ferma!…» «Spara, Timul!…» gridò Kammamuri.
Otto pistolettate rimbombarono sul mail-cart, avvolgendo tutti in una nube di fumo.
Uno dei due aggressori stramazzò al suolo come se fosse stato fulminato, mentre l’altro, dopo d’aver sparato due colpi a casaccio, si dava a precipitosa fuga scomparendo in mezzo ai giardini. «Via!…» gridò Kammamuri. «Il morto non m’interessa!…»
I tre cavalli, che si erano fermati di colpo udendo tutte quelle detonazioni, ripartirono con maggior lena, percorsero tutto lo Strand e parecchie altre vie ancora, giungendo in pochi minuti alla stazione centrale di Calcutta.
«Sahib» disse il giovane cocchiere, intascando una mezza dozzina di rupie. «Devo andare a denunziare l’attentato alla polizia?»
«Làsciala in pace. Non desidero affatto che metta il naso nei miei affari. Addio, ragazzo, e mi congratulo pel tuo straordinario coraggio». «Buon viaggio, signori».
I due indiani attraversarono il superbo salone d’entrata, ingombro di passeggeri in attesa dei vari treni che dovevano disseminarli per l’India ad immense distanze, ed entrarono nel ristorante dinanzi alle cui porte passeggiavano dei policemen.
«Qui almeno saremo al sicuro da ogni attentato, e potremo attendere tranquillamente il nostro treno».
Si sedettero ad un tavolino e ordinarono della birra e dei sigari finissimi, tocos di Manilla.
«Ed ora che cosa pensi tu di questa aggressione, amico?» chiese Kammamuri al giovane cercatore di piste. «Mi è venuto un sospetto, sahib».
«Che quei due furfanti fossero il macchinista ed il fuochista del treno bruciato nella Jungla Gialla?» «Sì, padrone». «Lo avevo sospettato anch’io». «Mi stupisce però una cosa». «Quale?»
«Di aver incontrata quella gente così presto qui. Allora si trovavano sul treno di soccorso?» «È probabile. Noi non abbiamo visitate tutte le vetture». «E non ci siamo accorti di essere stati seguiti, sahib. Siamo stati poco abili».
«Io penso solamente ad una cosa: che ho compiuta la mia missione senza perdere una delle mie dita. Che cosa volevi pretendere di più?» «Prendere Sindhia, signore».
«Quel volpone era stato certamente avvertito del nostro arrivo e non si è fermato un solo minuto qui. Forse è da qualche mese o più che armeggia sulle frontiere dell’Assam preparando la rivoluzione. Noi non sapremo mai nulla colla nostra polizia che sonnecchia sempre». «Che ci sia pericolo che la rhani perda la corona?»
«Chi può dirlo? Se Sindhia vi riuscirà, dovrà piangere delle terribili perdite, poiché se i rajaputi sono stati ormai comprati, i montanari ci rimarranno sempre fedeli, ed appoggiati dai Tigrotti di Mòmpracem daranno certamente delle terribili battaglie prima di vedere la loro reginetta senza corona». «Purché vengano presto quei formidabili uomini».
«Non sarà già domani che Sindhia marcerà sulla capitale colla sua bordaglia, che deve essere stata racimolata fra i peggiori banditi del Bengala. Vi saranno paria, thugs, poiché ve ne sono ancora, fakiri, ladri e qualche cosa di peggio. Ci sarà da fare, ma il maharajah non è uomo da perdere la testa».
In quel momento da un tavolo vicino a loro cadde a terra, con grande strepito, una caraffa d’acqua, rompendosi in mille pezzi. Kammamuri e Timul, che si erano sentiti largamente spruzzare, si erano vivamente voltati.
Un half-cat, ossia un meticcio, di circa venticinque anni, vestito però elegantemente all’inglese, poiché tutti quei disprezzati non meno dei paria, come convertiti alla religione anglicana, hanno abbandonato le usanze indiane, ed abbandonati anche i vestiti, si era alzato precipitosamente, dicendo:
«Signori, scusatemi. Sono stato uno stupido. Vi prego di perdonarmi se vi ho bagnati».
«Col caldo che fa, signor mio», rispose Kammamuri, «un po’ d’acqua non fa male». «Non vorrei che voi, signori, l’aveste presa per un’offesa». «Niente affatto». «Sapete bene che noi, half-cat, non siamo più considerati come indiani». «Per me avete sempre nelle vostre vene del sangue indiano».
«Sono stato uno stupido» ripeté il giovane, cacciandosi le mani nei capelli lasciati crescere dopo la sua conversione alla nuova religione. «Vi posso offrire qualche cosa? Datemi voi un segno che noi non siamo disprezzati da tutti gli indiani».
Kammamuri, sempre sospettoso, dopo tanti attentati, lo aveva guardato per bene.
Il meticcio era un bel giovane, dalla pelle appena abbronzata, gli occhi nerissimi e vivissimi, vestito tutto di bianco e, almeno apparentemente, senz’armi. L’aspetto era promettente, tuttavia Kammamuri rispose subito:
«Abbiamo già mangiato e bevuto in abbondanza e, come vedete, stiamo fumando dei buonissimi sigari in attesa della partenza del treno».
«Una bottiglia di Champagne, il famoso vino francese che dà l’allegria scoppiettante, e che solamente i rajah possono bere, non vi farebbe male. Sono ricco e posso permettermi questo lusso. Orsù, accettate». «No» rispose asciuttamente il maharatto. «Non beviamo più». «Permettete che vi offra almeno un thè». Kammamuri scoppiò in una allegra risata.
«Quella bevanda è buona per lavare le budella degli inglesi sempre troppo piene di carne». «Un caffè allora». «Ci toglierebbe il sonno».
«Ah!…» disse il meticcio, con accento addolorato, «vedo bene che anche voi mi disprezzate, perché io non sono più che un mezzo indiano».
«V’ingannate, signor mio, perché noi non disprezziamo nemmeno i paria che sono uomini di carne ed ossa come tutti gli esseri umani». «Accettate almeno un sigaro».
«No, abbiamo dei Manilla che valgono meglio dei Londres, che non gustiamo affatto».
«Ah!… Fumate dei Manilla!… Ma voi allora dovete essere dei gran signori. Siete forse venuti a Calcutta a divertirvi un po’, è vero? Se volete io vi servirò di guida». «Vi ho detto che aspettiamo il treno». «E dove andate, se si può saperlo?» «A Bombay». «Quel treno è già partito, signore, già da tre ore». «Andremo in qualche altro luogo». «Non c’è che il treno che va fino a Rangpur, dopo quarantott’ore di marcia».
«Intorno a quella città si trovano delle jungle e delle tigri?» chiese Kammamuri, facendogli cenno di sedersi al suo tavolo ed empiendogli un bicchiere di birra che un garzone aveva subito portato.
«Oh, molte, signore. Ho una fattoria lassù, situata quasi alle frontiere dell’AsSam».
Così dicendo il meticcio aveva fissato intensamente il maharatto, come per vedere forse quale effetto produceva quella parola d’Assam. «Ah!… Avete una fattoria?»
«Che è sempre visitata dalle tigri. I miei fattori mi scrivono sempre che ogni volta quelle bestiacce portano via delle giovenche e perfino dei tori». «E non sono capaci di ammazzarle?» «Chi osa affrontarle?»
«Eppure io, signor mio, ho ucciso più di cinquanta di quei mangiatori d’uomini». «Allora siete dei famosi cacciatori». «Non famosi, ma molto abili e niente paurosi».
«Fa piacere discorrere con voi, signore. Fermatevi qui, e vi prometto di farvi passare una bella serata». «No, dobbiamo partire» disse Kammamuri, con voce ferma. «Per dove?» «Giacché abbiamo perduto il treno per Bombay andremo nell’alta India». «Io vorrei farvi una proposta». «Dite pure».
«Di accompagnarvi almeno fino a Rangpur per farvi cacciare la tigre sulle mie terre».
«Noi abbiamo l’abitudine di viaggiare sempre soli e di fermarci dove meglio ci conviene. Anche noi abbiamo molto denaro da spendere, e possiamo permetterci dei capricci anche principeschi». «Voi dovete essere due principi!…» esclamò il meticcio.
«No, siamo dei cacciatori, ma che posseggono fattorie ben grosse e che rendono assai». «Situate dove?»
«Un po’ dappertutto» rispose Kammamuri, facendo cenno ad un garzone di avvicinarsi e gettando sul tavolo una sterlina. Nel salone c’era un orologio. Guardò l’ora, poi disse a Timul:
«Il treno è per partire. Andremo a cacciare le tigri dell’alta India che si dice siano meno feroci di quelle del Bengala».
Si alzò quasi di scatto, fece un leggero saluto al noioso meticcio che s’inchinava quasi fino a terra chiedendo mille scuse per quella spruzzatura, ed uscì sotto l’immensa tettoia insieme a Timul.
Treni andavano e venivano fischiando, rombando e sbuffando, e passeggeri accorrevano da tutte le parti seguiti da facchini indù carichi di valigie. Kammamuri chiamò uno del servizio, gli diede una rupia, sapendo bene che era l’unico modo per farsi condurre a posto senza correre il pericolo di lasciare le gambe sotto qualche macchina.
Il treno che partiva per l’India settentrionale era già stato formato e non aspettava che il segnale dato al macchinista per andarsene. Si componeva di sei immensi carrozzoni, tutti a doppio tetto, con vaste gallerie esterne e dell’immancabile carrozzone-ristorante.
I due indiani, che volevano viaggiare comodi come si conveniva alla loro posizione momentanea di principi assamesi, presero un intero scompartimento avvertendo il personale viaggiante di non volere essere disturbati da nessuno. Le rupie facevano miracoli, ed il maharatto, diventato improvvisamente prodigo, non le contava più.
Cinque minuti dopo che si erano comodamente sdraiati sulle soffici poltrone di crine vegetale, il treno prendeva lo slancio con un gran fragore di ferraglie.
«Finalmente siamo partiti» disse Kammamuri a Timul, che stava abbassando le stuoie imbevute d’acqua, promettendo la notte di essere abbastanza fresca. «Calcutta cominciava a farmi paura».
«Ed anche a me, sahib» disse il giovane cercatore di piste. «Se ci fossimo fermati una notte ancora avrebbero pescati i nostri cadaveri nell’Hugly, con dei pugnali piantati nei nostri petti».
«O avvelenati. Se avessimo accettato l’invito di quel meticcio di bere una bottiglia in sua compagnia, noi forse non saremmo qui a chiacchierare». «Ah, padrone!…» gridò TimuL. «Si è arrestato il treno? A me pare che proceda con una velocità spaventosa». «Se ci avesse seguiti?» «Chi? Il meticcio?» «Sì, quell’half-cat».
«È venuta anche a me questa idea, e siccome tutte queste vetture comunicano le une colle altre, tu dovresti fare una passeggiata per le gallerie. Guarda, osserva e ritorna presto… Ah!… Adagio, mio caro. Ricarica prima le tue pistole. Noi non abbiamo più pensato a dare da mangiare a queste brave armi che ci hanno salvata già tante volte la vita».
«Io stavo per commettere una imperdonabile imprudenza. Grazie, sahib. Tu hai gli occhi su tutto».
Ricaricò le sue armi, accese un altro sigaro e passò sulle gallerie guardando dentro le vetture occupate da un buon numero di viaggiatori. La cosa era facile, poiché tutte le stuoie erano state calate, affinché la fresca aria notturna potesse entrare liberamente.
Kammamuri si era messo allo sportello osservando la campagna che pareva fuggisse.
Il treno aveva lasciata anche la Città Nera, abitata dalla popolazione indù e correva, pulsando sempre più fortemente, attraverso ad immense pianure coltivate a risaie. Pochi gruppi d’alberi, per la maggior parte palmizi, si profilavano sul cielo superbamente stellato.
Dall’Hugly, non molto lontano, giungevano, di quando in quando, dei buffi d’aria umida, assai fresca, impregnata però d’un odore di cose corrotte. Kammamuri stava per finire il suo sigaro, quando si vide comparire dinanzi Timul col viso sconvolto. «Hai corso qualche pericolo?» gli chiese premurosamente. «Nessuno, sahib. Si cammina bene sulle gallerie e non si può cadere». «Mi sembri spaventato». «L’ho veduto». «Il meticcio?» «Sì, sahib: occupa il carrozzone di coda, che precede la vettura-ristorante». «Non ti sei ingannato? Questi half-cat si rassomigliano un po’ tutti».
«No: era proprio lui, in uno scompartimento riservato, e quando io l’ho veduto stava cambiando il vestito chiaro con uno da sipai».
«Per la morte di tutti i thugs!… Che l’abbia proprio con noi quel bandito? Dove ha trovato tanta gente devota quel cane di Sindhia? Non bastavano i bramini ed i paria: ora entrano in scena anche i meticci. C’è da perdere la testa». Gettò via con collera il suo pezzo di sigaro, poi chiese: «Ti ha veduto?» «No, era troppo occupato a trasformarsi». «Tu però lo riconosceresti anche sotto la divisa dei sipai?»
«Subito, sahib. Anche fra vent’anni quell’uomo saprei ritrovarlo senza ingannarmi, fosse vestito anche da rajah». «Allora non può essere che una spia di Sindhia». «Non so più che cosa dire, sahib».
«Che anche questo treno sia destinato a finire fra le fiamme? Tutto c’è da aspettarsi da parte di quelle canaglie sempre pronte a qualunque tradimento. Questo affare, mio caro Timul, comincia a preoccuparmi assai».
«Sahib, siamo in due, ed il meticcio occupa, come noi, uno scompartimento riservato». «Leggo nei tuoi occhi qualche cosa di terribile» disse il maharatto.
«Aspettiamo che si addormenti, cacciamogli in gola un fazzoletto e gettiamolo dal treno. Le tigri o gli sciacalli potranno fare una buona cena». «E se il personale viaggiante ci sorprendesse?» «Agiremo con estrema prudenza». «Nelle vetture hai veduto degli ufficiali inglesi?»
«Nessuno, sahib: il treno è carico di buoni borghesi che vanno nell’India settentrionale a respirare un po’ d’aria fresca. Le alte montagne dell’Himalaya non sono lontane da Rangpur».
Kammamuri si accarezzò due o tre volte il mento, socchiuse per un po’ gli occhi, poi riaprendoli più scintillanti di prima, disse a voce bassa:
«Sì, noi prenderemo quell’uomo e lo getteremo alle tigri. Aspettiamo che tutti siano bene addormentati e che russino insieme alla macchina. Il passaggio sulle gallerie non presenta ostacoli?»
«Nessuno, sahib: si può passare dall’una all’altra spiccando un salto che non spaventerebbe nemmeno un ragazzo».
«Sono deciso» disse Kammamuri. «Quell’uomo non vedrà le frontiere dell’Assam. Hai fatto portare della birra?»
«Sei bottiglie con carne fredda e panini burrati. Se vuoi cenare non hai che da dirmelo». «Io cenerei con una coscia di quel maledetto half-cat».
«Diventi antropofago, padrone?» chiese il giovane cercatore di piste, sorridendo. «Sai bene che gli inglesi ti condannerebbero subito alla forca».
«Calcutta è già assai lontana, e qui guardie non ve ne sono, e poi non potrei presentare una così strana selvaggina ai cuochi della vettura-ristorante senza farli urlare. Preferisco la carne fredda, ma come ti ho detto, quel furfante non ci seguirà fino a Rangpur od a Bogra».
Guardò il suo vecchio orologio d’argento, un dono di Tremal-Naik, che contava trent’anni almeno, e disse:
«Sono già le dieci: come passa presto il tempo in treno. Possiamo allora cenare e prepararci i letti».
Le lampade già da tempo erano state accese e lanciavano fasci di luce sulla campagna deserta che la macchina divorava, avvolta in una nuvolaglia di fumo e di scorie.
Non vi erano pel momento più città o grossi centri. Jungle e risaie occupavano tutto, piene di serpi le une e di batraci noiosi le seconde.
I due indiani cenarono tranquillamente, come uomini che hanno l’animo perfettamente tranquillo, ma soprattutto dei nervi ben solidi, si vuotarono un paio di bottiglie di birra, poi uscirono sulla galleria. Anche Kammamuri aveva caricate le sue pistole.
Il treno aveva lasciate le basse pianure e cominciava a filare fra grandi macchie di latanie e di palmizi.
Nelle vetture regnava un grande silenzio. Solamente la macchina rombava sempre con un fragore infernale, divorando migliaia di miglia. Il maharatto aveva acceso un nuovo sigaro e lanciava in aria nuvolette di fumo profumato, che il venticello notturno subito disperdeva. Lo finì, poi disse a Timul: «È il momento di tentare il colpo. Hai paura?» «No, sahib. Il mio cuore non trema affatto». «Allora andiamo a vedere che cosa fa quel cane di meticcio». «Dormirà come tutti gli altri». «Lo credi tu?» «Avrà sonno anche lui».
«Le spie non dormono quasi mai, amico. Saremo ben bravi se riusciremo a sorprenderlo». «Io sono pronto, sahib».
«Andiamo» disse Kammamuri, con voce decisa. «Quell’uomo, come ti ho detto, non vedrà le frontiere dell’Assam nemmeno da lontano. Sono esasperato. Sono stati troppi i tradimenti».
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