Capitolo XI – La capitale in fiamme

Yanez s’ingannava.

Si era appena ritirato in una vecchia casamatta semisfondata, dove il cacciatore di topi ed il fedelissimo rajaputo avevano improvvisato alla meglio una tavola, portando un quarto di zebù fumante e molte bottiglie di birra, quando le artiglierie di Sindhia ricominciarono a tuonare con un crescendo un po’ inquietante.

I suoi artiglieri sparavano peggio delle reclute con trenta giorni d’istruzione, tuttavia le palle cominciavano a fioccare anche sul bastione, abbattendo, di quando in quando, qualche merlatura. La maggior parte si sotterrava nelle scarpate, e non trattandosi di bombe, si addormentavano subito dopo d’aver lanciato in aria qualche sprazzo di zolle erbose.

Yanez era subito balzato fuori, lasciando l’arrosto, che d’altronde non lo interessava molto, non essendo mai stato un mangiatore, ed a rischio di farsi spaccare in due da qualche proiettile, si era messo ad osservare attentamente le bande che fronteggiavano, a soli mille e cinquecento metri, il grosso bastione.

«Per Giove!…» esclamò. «Si direbbe che quel cane di Sindhia ha indovinato che io mi trovo qui. Deve aver fatto portare i suoi migliori pezzi da questa parte. Ah!… Vuoi una lezione!… Sono sempre il famoso artigliere dei prahos di Mòmpracem. Che nessuno faccia fuoco. Penso io solo a rispondere. Mi pagherà duramente questa colazione così bruscamente interrotta».

Come abbiamo detto, sul bastione aveva fatto radunare venti pezzi, la metà dell’artiglieria che possedeva, servita da un centinaio e più di montanari. Si fece dare una miccia e cominciò, dopo aver prese rapidamente le mire, un fuoco infernale.

I colpi non si succedevano che uno ad uno, però i proiettili cadevano proprio in mezzo all’accampamento avversario, facendo non poche vittime. Già fino da principio l’artiglieria dell’ex rajah, dopo alcuni spari, era tornata silenziosa. I suoi uomini avevano subito compreso di trovarsi impotenti dinanzi a quel magnifico fuoco che si succedeva ora a palla ed ora a mitraglia.

Non si erano date per vinte le bande. Sindhia doveva aver comandato l’attacco generale, poiché anche sugli altri bastioni tuonavano le artiglierie alle quali rispondevano, alla meglio, quelle degli assedianti. Si erano formati dei grossi gruppi muniti di lunghe scale di bambù da gettarsi attraverso ai fossati, non essendovi più ponti, e si preparavano a slanciarsi a gran corsa.

Yanez continuava a sparare tranquillamente i suoi pezzi che i montanari, abbastanza pratici, subito ricaricavano, mentre Tremal-Naik, famoso tiratore di carabina, si divertiva ad abbattere, di quando in quando, un nemico, borbottando ad ogni colpo: «Sarà sempre uno di meno».

I banditi di Sindhia, truppe non troppo solide quantunque, come si sa, formate da gente facile a subire il fascino dei bramini, ad ogni colpo di cannone si disperdevano, però non tardavano a riunirsi ed a riprendere la corsa, sparando all’impazzata. Facevano però dei magri progressi, ed anche dalle altre parti gli attacchi ai bastioni si succedevano con un gran disordine, un enorme spreco di polvere e di palle, malgrado la presenza dei rajaputi traditori, i quali si sforzavano d’infondere animo a quell’accozzaglia di furfanti.

I montanari di Sadhja, quantunque assai inferiori di numero, protetti dalle merlature, spazzavano il terreno dinanzi a loro, sparando a più di mille passi con grande successo. A mezzodì gli assedianti si trovavano nelle medesime condizioni del mattino. Forse, sapendo la città difesa dal terribile maharajah che un giorno aveva vinto il loro signore, si arrestavano di frequente per poi fare delle corse indietro quando i cannoni tuonavano.

«Io credo», disse Yanez a Tremal-Naik, il quale non aveva cessato di far tuonare la sua carabina, «che per quest’oggi potremo fare colazione e più tardi anche pranzare. Ha molta gente quel Sindhia, ma sono tutti malfermi in gambe, e se non vi fossero i rajaputi a quest’ora non ci sarebbe più un combattente dinanzi a noi».

«Infatti, finora non hanno dimostrato grande coraggio» rispose il famoso “Cacciatore della Jungla Nera”. «Sono però molti, e se si decidessero, una notte, a correre furiosamente all’attacco, non so che cosa accadrebbe di noi».

«Se potessimo resistere fino all’arrivo di Sandokan!… Conto i giorni e mi pare che si raddoppino».

«Deve essere in mare e già da tempo. Sai che il tuo fratellino bruno, come lo chiami, non ha l’abitudine di esitare mai. Non so però se Sindhia ci lascerà un paio di settimane di tregua. Deve premergli troppo la conquista della capitale».

«Una bella capitale troverà!…» disse Yanez. «Delle rovine fumanti sulle quali i suoi guerrieri potranno arrostirvi dei quarti di selvaggina. Andrà tutto in aria. Se tutto finirà bene torneremo ad edificare. Il denaro non manca».

Aveva lasciata cadere la miccia, non essendovi più bisogno di far tuonare le artiglierie.

Le bande di Sindhia, dopo essere giunte a mille passi dai bastioni, erano scappate rifugiandosi negli accampamenti. L’ex rajah non doveva essere certamente contento del suo primo attacco alla capitale, nemmeno però i difensori erano tranquilli.

Khampur non si vedeva giungere con altri montanari; Sandokan era ancora lontano ed i viveri mancavano già nella città assediata. E vi erano tante bocche da mantenere!… Guai se tutta la popolazione fosse rimasta!…

Quei bravi montanari però non pareva che s’inquietassero tanto per la mancanza di viveri. Davano una caccia spietata ai cani ed ai gatti, saccheggiavano i giardini e si contentavano. Dopo la distruzione dei gatti sarebbero venuti i topi, e ci contavano per prepararsi delle schidionate di quei grossi roditori.

Yanez poi aveva serbato per sé e per gli amici il suo serraglio che era sfuggito all’incendio del palazzo imperiale. Vi erano dei leoni, quattro tigri, dei nilgò e diversi animaletti piuttosto rari, come i pangolini, quindi pel momento la carne non poteva mancare.

«Mangeremo degli arrosti un po’ duri» disse il portoghese a Tremal-Naik il quale, più di tutti, sembrava preoccuparsi della grande penuria di viveri. «Che cosa vuoi farci? Andranno giù egualmente innaffiati dalla birra che invece abbonda».

«Tu hai avuto il torto di lasciar fuggire gli abitanti con tutti i loro zebù e le altre bestie da tiro».

«Dovevano bene mettere in salvo le cose più preziose per sottrarle alle mani adunche dei banditi di Sindhia. Dopo tutto è meglio che la popolazione se ne sia andata, poiché non avrei potuto né difenderla a lungo, né mantenerla, e tanto meno incendiare la città». «Eppure non sono affatto tranquillo» disse Tremal-Naik.

«Lo so io il perché. Abbiamo ancora da assaggiare quel quarto di zebù che il rajaputo ed il cacciatore di topi ci hanno preparato fino da questa mattina». «Ci rifaremo ora».

Il figlio di Khampur li raggiunse in quel momento, accompagnato da una piccola scorta. «Respinti dappertutto?» gli chiese Yanez. «Sì, gran sahib, ma sono molti, troppi. E mio padre tarda!…» «Che gli altri montanari abbiano paura di Sindhia?»

«Ah, no, gran sahib. Il nostro paese è assai montagnoso, e non è facile raccogliere subito i guerrieri. I messi hanno da attraversare delle distanze considerevoli, e la concentrazione dei combattenti è sempre lenta. Non temere: i montanari di Sadhja si faranno uccidere, se sarà necessario, fino all’ultimo, per la loro rhani, pur di conservarle la corona dell’Assam che per diritto le spetta». «Tu dunque sei convinto che tuo padre giungerà?» «Sì, gran sahib. Non ha che una parola e la manterrà. Ho però un timore». «Quale?» «Che giunga troppo tardi in nostro aiuto».

«Per Giove!… Sandokan in ritardo, tuo padre pure… Bah!… Andiamo a fare colazione, giacché i banditi di Sindhia ci lasciano un po’ tranquilli». «Una parola, gran sahib». «Parla pure». «E se la città venisse presa?»

«Coi tuoi montanari sforzerai qualche linea degli assedianti e muoverai incontro a tuo padre». «E tu, gran sahib?»

«Non occuparti di me. Qui, sotto questa città, vi è un asilo quasi inviolabile, e sarà là che aspetterò il mio fratello bruno». «Noi non ti lasceremo solo».

«Quell’asilo non potrebbe contenervi tutti, e poi la grande questione è sempre quella dei viveri. Mi lascerai una dozzina dei tuoi uomini ed io ne avrò abbastanza». Il giovane guerriero scosse la testa. «Mio padre mi ha detto di non abbandonare il maharajah».

«Ed il maharajah, se le cose andranno male, ti dirà di ritornare alle tue montagne». «Io ti obbedirò, però col cuore assai rattristato».

«Quando io ti dirò forza le linee e mettiti in salvo coi tuoi uomini, tu lo farai. Io parlo in nome della rhani». «Ti ho detto, gran sahib, che obbedirò».

«Ed allora possiamo finalmente dare un colpo di dente a quella coscia di zebù che ci aspetta da tante ore».

Entrarono nella casamatta, insieme a Tremal-Naik, al cacciatore di topi ed al rajaputo fedelissimo, diventati di punto in bianco valletto, cuciniere, combattente, e giacché le bande di Sindhia se ne stavano tranquille nei loro accampamenti, attaccarono la colazione innaffiandola con delle bottiglie di birra tratte dalle cantine del bungalow ampiamente provviste.

Veramente gli assedianti non erano tutti tranquilli. Dei pessimi artiglieri si provavano, di quando in quando, a lanciare qualche palla attraverso la città, sfondando solamente qualche tetto. Venne la sera, ma le bande non diedero segno di vita. Era una sera oscura, alquanto tempestosa.

Durante la giornata il caldo era stato intenso, e dopo tramontato il sole, grosse masse di vapori si erano radunate nella profondità del cielo, abbassandosi poi gradatamente verso la terra.

«Questo è il momento di aprire per bene gli occhi» disse Yanez, il quale passeggiava dietro ai venti pezzi allungati sul bastione, in compagnia di Tremal-Naik. «Temo che le bande di Sindhia approfittino di questa oscurità per accostarsi a noi e tentare un disperato assalto».

«I fossati sono larghi e profondi e tutti i ponti sono stati tagliati a tempo» rispose il famoso cacciatore.

«Si fa presto coi bambù, che qui nascono dovunque, a fabbricare delle scale leggère e solidissime ed anche dei ponti volanti». «I bastioni sono alti».

«Lo so, ma noi, devo purtroppo riconoscerlo, siamo troppo pochi per difendere tutta l’immensa cinta della città». «Diventi pessimista!»

«Niente affatto, e poi i montanari sono avvertiti, in caso di estremo pericolo, di dare fuoco a tutto e dopo di scappare. Noi non correremo alcun pericolo». «E se Sindhia conoscesse l’esistenza delle immense cloache?»

«Chi, quell’ubriacone? Si sarà occupato di gin, di brandy, di whisky e non già della città sotterranea. Non lo sapevamo nemmeno noi che ci fosse. Basta tener libero il passaggio della vecchia pagoda, ma con questa imponente batteria noi sapremo sbarazzare i dintorni».

In quel momento, su un bastione che difendeva la città verso il settentrione, si udì tuonare improvvisamente il cannone.

«Brutto segno» disse Yanez, scuotendo la testa. «Sindhia vuole ritentare l’attacco. Apriamo, come ho detto, gli occhi».

«Apri pure, ma non ci vedrai un bel nulla» disse Tremal-Naik. «Pare che del catrame si sia mescolato alle nubi». «T’inganni, amico, guarda!…»

Delle lingue di fuoco erano improvvisamente sorte, illuminando la tenebrosa notte come in pieno giorno.

Si succedevano a centinaia e centinaia, guizzando colle selvagge contrazioni dei serpenti e lanciando in alto miriadi di scintille che cadevano però, e per fortuna, sul posto, non soffiando il più leggero alito di vento.

Sindhia aveva fatti incendiare i sobborghi della capitale, formati quasi esclusivamente di capanne, e le capanne ed i capannoni andavano rapidamente distrutti.

Nel medesimo tempo aveva provato, per la seconda volta, a lanciare i suoi banditi all’assalto, credendo di prendere Gahuati colla stessa facilità colla quale aveva espugnata Goalpara, ma i montanari, benché pochi per difendere tutta la immensa cinta e niente spaventati di venire nuovamente alle mani, non avevano tardato a rispondere con un formidabile fuoco di artiglierie e di carabina. Perfino il vecchio cannone mongolo era stato messo al lavoro e non sparava, malgrado i suoi due o trecent’anni, meno degli altri, lanciando dei grossi proiettili.

Di fronte al bastione che guardava la vecchia moschea e che era guardato da Yanez e dai suoi pochi montanari, non vi erano villaggi da bruciare, sicché da quella parte regnava una certa oscurità, non giungendo fino a quel luogo i riflessi degli incendi.

«Apriamo gli occhi!… Apriamo gli occhi!…» non cessava di ripetere il portoghese il quale sentiva da lontano i pericoli.

Mentre su tutti gli altri bastioni i montanari combattevano disperatamente, fronteggiando i rajaputi traditori, che erano i soli i quali veramente si spingessero avanti, verso la vecchia moschea il silenzio regnava sempre. Ad un tratto però, quando Yanez, quasi rassicurato che da quella parte non avvenisse nessun attacco, si preparava a montare a cavallo per fare una rapida corsa sulle larghe vie delle cinte, partirono due cannonate seguite subito da urli spaventevoli.

«Ecco i pappagalli che si fanno udire» disse il valoroso, colla sua solita flemma. «Faremo parlare la nostra batteria. Orsù, a me montanari di Sadhja!…»

I centoventi uomini si erano gettati sui pezzi e si erano messi a sparare furiosamente contro delle masse che vagamente scorgevano e che si avanzavano con grande rapidità.

Sparavano a mitraglia, strappando agli assalitori delle urla terribili, poiché quella mitraglia era composta per la maggior parte di grossi chiodi, secondo l’uso malese.

Yanez serviva due pezzi, aiutato da Tremal-Naik e da una mezza dozzina di montanari cannonieri. Aveva già sparato una ventina di colpi, quando delle linee di fuoco attraversarono il cielo terminando nei dintorni del bastione. «Razzi?» si chiese Yanez.

«Ma no» rispose Tremal-Naik. «Sono grossi fiocchi di cotone che lanciano coi fucili. Vogliono arrostirci, mio caro Yanez». «Se non c’è nemmeno una palizzata su questo bastione!» «E questa è la nostra fortuna. Le pietre non prenderanno fuoco».

«E le prime case sono lontane. Ah!… Signori banditi, nemmeno questa notte, spero, prenderete la capitale dell’Assam. Sindhia si consolerà con una bottiglia di gin».

E si era rimesso a sparare, mentre i fiocchi di cotone, che prendevano fuoco a contatto della polvere, continuavano a cadere fittissimi. Le bande di Sindhia, precedute certamente dai rajaputi, non ostante le terribili scariche dell’imponente batteria, non cessavano di spingersi innanzi, sempre urlando, forse per darsi maggiore coraggio, e giunsero finalmente sull’orlo del largo fossato.

Gettarono rapidamente dei ponti volanti, ma proprio in quel momento, una grossa mina che Yanez aveva già fatta preparare con una miccia assai lunga, scoppiò quasi sotto i loro piedi scaraventandone parecchi in aria. Il bastione, quantunque massiccio, tremò tutto e parve, per un momento, che dovesse sfasciarsi, invece resistette meravigliosamente al poderoso urto, mentre si sfasciarono completamente le bande di Sindhia, le quali, invase da un pazzo terrore, si erano slanciate a corsa vertiginosa, sorde ai comandi dei capi.

«Per Giove!…» esclamò Yanez, sparando dietro le loro schiene un ultimo colpo di mitraglia. «Dove ha trovato Sindhia questi corridori? Sono già scomparsi!…»

Delle urla fioche e dei lamenti si alzavano sulla spianata tenebrosa, semisventrata dalla grossa mina. Ci dovevano essere molti feriti al di là del largo fossato, ma i montanari temendo qualche nuova sorpresa, non si mossero. D’altronde la porta era stata barricata ed il ponte tagliato.

«Si muore laggiù» disse Tremal-Naik a Yanez che aveva fatto accendere una torcia. Il portoghese alzò le spalle, poi disse:

«Se fossimo caduti noi, quei banditi si sarebbero già gettati sui nostri corpi per aprirci le gole a colpi di tarwar. La guerra è sempre stata terribile pel debole, e pensare che i deboli veramente siamo noi». In quel momento giunse sul bastione il figlio di Khampur. «Gran sahib», disse. «Le bande di Sindhia hanno espugnato il bastione di Risar». «Ed i tuoi uomini?» chiese Yanez, il quale era diventato un po’ pallido. «Si ritirano in buon ordine».

«Raduna i tuoi montanari, fa’ incendiare la città, sfonda una qualche linea degli assedianti e corri incontro a tuo padre». «E tu, gran sahib?»

«Non pensare né a me, né ai miei pochi amici. Mi lascerai una dozzina dei tuoi, scelti fra i più valorosi».

«Se dico a mio padre che io ti ho abbandonato in mezzo alla città incendiata, mi ucciderà! Sono giovane ma non voglio morire come un vile».

«Il mio rajaputo, l’unico che mi resta, ti accompagnerà e spiegherà a tuo padre ogni cosa. Non perdere tempo, raduna i tuoi uomini e da’ fuoco a tutto». «Una città così bella!…» «Ne rifabbricheremo un’altra migliore» disse Yanez. «Va’, non perdere tempo». «Ed i cannoni?» «Li farò inchiodare». «Ti obbedisco, gran sahib».

Il giovane guerriero era rimontato sul suo cavallo ed era ripartito a gran corsa mandando altissime grida.

La fucileria diventava sempre più nutrita. I montanari, perduto il bastione, tentavano di riconquistarlo, ma le bande di Sindhia, ormai vittoriose, si rovesciavano nella città avide, più che altro, di saccheggio.

Yanez, il quale in mezzo a quel trambusto conservava il suo meraviglioso sangue freddo, fece inchiodare rapidamente i venti pezzi della batteria, affinché l’ex rajah non potesse servirsene, fece aprire la porta del bastione e gettare attraverso il fossato un ponte volante.

La vecchia moschea non si trovava che a mille passi, e da quella parte pareva che non vi fossero più nemici. Sgominati dalla grandine di mitraglia, dovevano aver raggiunti i loro compagni che erano finalmente riusciti ad entrare in città.

Yanez, alla luce di una torcia a vento, passò in rivista i centoventi montanari, ne fece uscire dalle file dodici che gli sembravano i più robusti, poi attese, a fianco di Tremal-Naik e del cacciatore di topi, il ritorno del giovane guerriero.

Fumava rabbiosamente e faceva dei gesti minacciosi. Ad un tratto un grido gli sfuggì: «La mia capitale brucia!…»

Una gran lingua di fuoco, poi due, poi dieci, poi cento s’alzavano in direzione del bastione conquistato dalle bande di Sindhia. I montanari, pur continuando a sparare, nella loro ritirata ardevano tutto. Prima furono le capanne, poi i villini, poi i bungalow, poi i palazzi. Il fuoco si avanzava terribile, implacabile, tutto divorando ed impedendo agli assalitori di avanzarsi.

Gigantesche nubi di fumo si alzavano da ogni parte, seguite subito da una fitta pioggia di scintille e da detonazioni. I depositi delle polveri dei bastioni saltavano insieme ai cannoni forse ancora carichi.

Yanez e Tremal-Naik, appoggiati alle loro carabine, guardavano, non senza provare una grande stretta al cuore, l’incendio il quale dilagava con furia spaventevole, anche perché molti quartieri di Gahuati erano formati da capannoni abitati dalla povera gente. Una profonda ruga si era disegnata sull’ampia fronte del portoghese.

«Andiamo, finché la via è libera ed il fuoco ci protegge le spalle?» chiese Tremal-Naik. «Non aspettiamo troppo, Yanez».

«Sindhia me la pagherà» rispose il portoghese, il quale pareva che in quel momento pensasse a ben altre cose. «Che quell’ubriacone debba proprio spuntarla e togliere alla rhani la corona? Oh, no!… Io credo che la lotta non sia proprio finita, quantunque io sembri completamente sconfitto». «Yanez, partiamo» ripeté Tremal-Naik.

«Aspetta che veda la mia capitale bruciare» rispose il portoghese. «E poi il figlio di Khampur non è ancora tornato». «I suoi uomini combattono in mezzo alle fiamme».

«Quei montanari sono degli eroi che valgono le Tigri della Malesia. C’è del buon sangue sulle montagne».

Il galoppo sfrenato di un cavallo si fece udire in quel momento, ed il figlio di Khampur salì di gran volata la scarpata del bastione, balzando agilmente a terra.

«Gran sahib» disse con voce un po’ rotta dall’emozione. «I tuoi ordini sono stati eseguiti. La tua grande e bella città viene divorata dal fuoco».

«Era necessario per arrestare le orde di Sindhia» rispose Yanez. «Che cosa fanno i tuoi uomini?» «Si ritirano sempre combattendo». «Sono stretti dai nemici?» «No, perché la linea di fuoco li protegge».

«Raccoglili tutti e corri incontro a tuo padre. Il mio rajaputo, come ti ho detto, ti accompagnerà e gli spiegherà il motivo della tua ritirata. Prendi con te anche questi uomini, che io ho già scelto i miei e fuggi. Le ritirate, talvolta, sono necessarie e servono a preparare altre vittorie. Tu sei un valoroso e sarai un giorno un grande guerriero». «Se vedrò la rhani e tuo figlio che cosa devo dire loro?»

«Dirai a mia moglie che non s’inquieti per me. D’altronde sa che il mio asilo non sarà attaccabile. Va’, va’, prima che ti taglino le vie».

«Io spero di vederti presto, gran sahib» rispose il giovane guerriero, che aveva le lagrime agli occhi. «Addio: io uscirò dal bastione d’oriente che non è guardato che da poche centinaia di banditi che noi spazzeremo via con un solo urto».

Le scariche di moschetteria echeggiavano ormai vicinissime. I montanari, protetti da quelle linee di fuoco che diventavano, di momento in momento, sempre più spaventose, si ritiravano in buon ordine non facendo economia di cartucce.

Il figlio di Khampur, accompagnato dal gigantesco rajaputo, scese correndo la scarpata del bastione, fece colle mani al maharajah un ultimo saluto e scomparve in mezzo al fumo.

Due minuti dopo Yanez vide i montanari sfilare a gran passo di corsa e dirigersi verso il bastione d’oriente. Non sparavano più, poiché ormai il fuoco aveva arrestate le bande di Sindhia.

«Perdo la mia capitale, ma forse salverò ancora il mio piccolo impero» disse il portoghese a Tremal-Naik, il quale contemplava lo spaventoso incendio che sempre più dilagava, avvolgendo tutta la città d’una nuvolaglia nerissima. «Ora pensiamo a noi».

«Sarebbe tempo» rispose il famoso cacciatore. «Tu non credi che ci siano più nemici intorno alla vecchia moschea?» «No, sono scappati tutti dopo le ultime cannonate».

Si volse verso il cacciatore di topi il quale pareva che aspettasse qualche ordine. «I montanari hanno gettato il ponte attraverso il fossato?» «Sì, Altezza» rispose il baniano.

«E tu sei proprio convinto che noi non ci cucineremo come dentro un forno quando saremo nelle cloache?» «Io rispondo: vi è troppa acqua là sotto».

«Pensa che questo incendio può durare anche tre o quattro giorni, poiché le case sono molte». «Vi ripeto, Altezza, che io rispondo della salvezza di tutti». «Allora andiamo». Diede un ultimo sguardo alla sua capitale diventata un vero mare di fuoco. Crollavano bungalow, crollavano palazzi, rovinavano con immenso fragore pagode e moschee, sollevando enormi folate di scintille che il vento travolgeva.

I colpi di fuoco erano cessati. Le bande di Sindhia, arrestate di colpo da quell’inferno, non avevano, a quanto pareva, fatto alcun tentativo per dare la caccia ai montanari. Yanez sospirò due o tre volte, poi seguì Tremal-Naik ed il cacciatore di topi.

I dodici montanari avevano improvvisato un ponte e li aspettavano dall’altra parte del fossato, spiando ansiosamente la vasta pianura che i bagliori dell’incendio, di quando in quando, illuminavano. «Ci siete tutti?» chiese il portoghese. «Tutti, gran sahib» risposero i montanari ad una voce. «Sono cariche le vostre carabine?» «Tutte». «Mettiti alla testa del drappello, baniano. Apri gli occhi».

«Sono vecchio, però ci vedo ancora bene» rispose il cacciatore di topi. «Morrò dopo i cent’anni».

I quindici uomini si misero rapidamente in marcia dirigendosi verso la vecchia moschea mongola sulle cui cupole, di tratto in tratto, si proiettavano i riflessi dell’incendio.

L’aria era diventata quasi d’un colpo solo ardente. Nembi di cenere cadevano sulle sterminate pianure del sud, cenere calda che inaridiva subito i vegetali, piccoli e giganteschi, e foltissime nuvole, impregnate di mille strani odori, si allungavano smisuratamente in tutte le direzioni, turbinando ed accavallandosi come se fossero spinte da un vento di tempesta. Pareva che nel loro seno balenassero perfino dei lampi.

«Avanti!… Avanti!…» ripeteva Yanez, il quale si sentiva soffocare. «Aprite sempre gli occhi!…»

Attraversarono a passo di corsa la pianura che li separava dallo sbocco del fiume nero, avvolti di tratto in tratto da folate di scintille, e giunsero dinanzi alla vecchia moschea.

Proprio in quel momento le pesanti nuvole di fumo si squarciarono e proiettarono sulla pianura una luce intensissima.

«Degli uomini!…» gridò Yanez, che conduceva il drappello insieme al cacciatore di topi.

Cinque o sei banditi, paria o fakiri, si erano improvvisamente mostrati presso la moschea.

«Che nessuno ci sfugga od il segreto del nostro rifugio sarà svelato!…» gridò Yanez precipitosamente.

I montanari misero un ginocchio a terra, mirarono qualche istante, poi le loro carabine rombarono insieme a quelle dei capi. I banditi, crivellati di proiettili, caddero l’uno accanto all’altro, per non risollevarsi più mai. La scarica li aveva fulminati prima che avessero avuto il tempo di servirsi delle loro armi.

Il drappello, temendo che nei dintorni vi fossero altre sentinelle, si slanciò a corsa furiosa verso la moschea, raggiunse l’uscita del fiume nero e scomparve dentro le immense cloache.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.