Capitolo XVII I piani del puram

Due ore dopo Lakon-tay ed i suoi compagni giungevano alla scialuppa carichi di noci di cocco e di squisitissimi manghi.
Feng, che li aveva preceduti, aveva già mandato nella boscaglia parte dei battellieri per scuoiare e fare a pezzi il bufalo. Nessun pericolo poteva minacciarli, poiché i compagni del morto erano stati già veduti riattraversare la palude per raggiungere un’altra isola che si scorgeva un po’ più a nord-est. Altri animali non erano approdati. Solo dopo il mezzodì i battellieri fecero ritorno con degli enormi pezzi di carne sanguinante. Avevano scelto le parti migliori, non avendo sale sufficiente per conservarla tutta, né tempo disponibile per seccarla.
La stagione delle piogge non era lontana e Lakon-tay non voleva fare delle lunghe fermate, essendo il lago Tuli-Sap ancora così distante.
Dopo una colazione abbondante, la scialuppa riprese la sua corsa, per giungere al villaggio prima che la sera calasse. I battellieri, ben pasciuti e riposati a sufficienza, le impressero una tale velocità, che raggiunsero la borgatella segnalata dal pilota qualche ora prima che il sole tramontasse.
Anche quella non era che una miserabile stazione fluviale, composta di una ventina di capanne piantate su pali per difesa dagli assalti delle tigri, e abitata da qualche centinaio di raccoglitori d’olio e di cercatori di polvere d’aquila.
Lakon-tay fece rizzare le tende all’estremità del villaggio dove la scialuppa era approdata, e fece alcune compere di riso, l’unica derrata che esisteva ed anche in scarsa quantità, giacché, come abbiamo detto, i Siamesi al pari dei contadini cinesi non domandano di più per vivere, tanto sono sobri.
Appena terminata la cena il pilota chiese a Lakon-tay il permesso di assentarsi. Doveva recarsi ad una fattoria poco lontana per accaparrare una partita di pimento che avrebbe imbarcato al ritorno.
“Se tardo, non preoccupatevi per me,” aveva detto, nell’allontanarsi. “Conosco il paese.”
Feng, che temeva potesse correre qualche pericolo, non già da parte degli abitanti bensì delle belve, si offerse di accompagnarlo, ma ne ebbe un rifiuto reciso.
Il pilota, attraversata la borgata, prese un sentiero che serpeggiava fra alcune risaie, seguendo un argine abbastanza largo.
Se qualcuno lo avesse seguito, si sarebbe forse accorto che quell’uomo aveva ben altre preoccupazioni che quella di accaparrarsi una partita di pimento.
Si arrestava di frequente, guardandosi alle spalle, e cercava di tenersi sempre celato dietro le alte canne palustri che fiancheggiavano l’argine, come se temesse di venire spiato.
Giunto all’estremità della risaia, balzò nell’acqua e stette parecchi minuti immobile, osservando attentamente il sentiero che aveva fino allora percorso.
“Nessuno mi ha seguito,” mormorò. “Non hanno alcun sospetto su di me.”
Diresse lo sguardo verso est, fissandolo su un gruppo di vaste capanne che sorgeva in mezzo ad una piantagione di banani, sormontato da un’antenna dipinta in rosso.
“È quella la fattoria di Mien-Ming,” disse. “Sono parecchi anni che non vengo qui, eppure la riconosco ancora.
Sarà già arrivato il padrone? I cavalli sono stati scelti con cura e la mia scialuppa si è fermata abbastanza a lungo presso le isole.”
Attraversò l’ultimo tratto della risaia, guazzando nel fango e tenendo gli sguardi fissi sui gruppi di canne in mezzo ai quali poteva tenersi imboscata qualche tigre affamata, poi prese terra sul margine d’una piantagione d’indaco.
Cercò un sentiero e, scopertolo, si avviò verso la fattoria. Colà non aveva da temere un assalto improvviso, essendo le piante bassissime, tuttavia per maggior precauzione si tolse dalla spalla la lancia ed impugnò il coltellaccio dalla lama quadrata ed affilatissima.
Appena ebbe raggiunto i primi gruppi di banani, estrasse un pi e lanciò alcuni fischi stridenti. Alla terza nota udì un’altra chiarina rispondere a breve distanza.
“Il padrone è giunto,” mormorò.
Rispose con una nota più acuta, poi attese.
Non erano trascorsi dieci minuti, quando un uomo seguito da altri due, armati di carabine e di coltellacci, sbucò fra le immense foglie d’un gruppo di banani: era Mien-Ming.
“Tu, Kopom!” esclamò il puram di Bangkok, facendo un gesto di stupore.
“Sì, signore,” rispose il Cambogiano, sorridendo. “Ho preso tutte le precauzioni per giungere in tempo all’appuntamento che mi avevi dato. Che cavalli possiedi! Credevo di non trovarti qui.”
“Dunque?” chiese il puram.
“Tutto è riuscito secondo i tuoi desideri, signore. Ormai Lakon-tay mi ha in sua compagnia, e non lo lascerò più senza tuo ordine.”
“Il balon?”
“Rubato e poi affondato in mezzo al Men-Sak.”
“Non hanno alcun sospetto?”
“Da quanto ho potuto apprendere, hanno dato la colpa ai pirati.”
“E i battellieri?”
“Si sono ubriacati senza farsi pregare. Io però al tuo posto, invece d’un sonnifero, avrei mescolato un po’ di quel veleno che ha mandato all’altro mondo i poveri S’hen-mheng.”
“Avrei forse fatto nascere dei sospetti!”
“Non ne hanno alcuno, signore.”
“Nemmeno su di te?”
“Chi vuoi che supponga di trovare Kopom sull’alto corso del Men-Sak? E poi, non sono a sufficienza trasfigurato, dopo che mi sono sfregiato così bene il viso e lasciato crescere i capelli? Guarda, padrone: ho tre tagli sulla guancia destra e altrettanti su quella sinistra.”
“Infatti sei quasi irriconoscibile,” disse Mien-Ming, “e ammiro il tuo sacrificio.”
“Per te, signore, mi sarei tagliato un braccio.”
“Saprò un giorno ricompensarti come meriti ed innalzarti alla carica di mandarino, purché tu riesca a condurre a buon fine i miei disegni.”
“Sono pronto a tutto: ordina.”
“È necessario sbarazzarsi, innanzi a tutto, dell’uomo bianco.”
“Rappresenta il pericolo maggiore per te, signore. Se non m’inganno, Len-Pra lo ama già.”
Un’orribile contrazione alterò il viso giallastro del puram.
“Lo ama!” gridò.
“Ed il generale lo ha in grande stima.”
“È necessario farlo scomparire,” disse Mien-Ming, con voce cupa.
“Non sarà cosa facile, signore. È un mago ed il veleno non avrebbe alcun effetto su di lui. Sai che ha salvato anche Lakon-tay.”
“Lo so,” rispose il puram, digrignando i denti. “Quei maledetti bianchi sarebbero capaci di far risuscitare anche un uomo morto. Eppure bisogna che quell’uomo scompaia, o io perderò per sempre Len-Pra.”
“Prepariamogli un agguato.”
“E come? In qual luogo?”
Kopom non rispose: pareva che riflettesse profondamente.
“Ah! Se non vi fosse Len-Pra,” disse poi, “m’incaricherei io di farlo scomparire; ma la fanciulla ed il generale lo accompagnano sempre, e poi vi è quel maledetto Stiengo che deve essere più furbo d’un serpente.”
“Feng?”
“Sì, Feng,” rispose Kopom. “Ho più paura di lui che di tutti gli altri.”
“Sai dove si dirigono?”
“Da un battelliere che ho interrogato abilmente, ho saputo che hanno intenzione di arrestarsi a Ka-ho-lai.”
“Se potessimo preparare un agguato all’uomo bianco quando saranno impegnati fra le montagne! È necessario che scompaia; quella fanciulla deve diventare mia, dovessi distruggerli tutti. La passione che mi rode ormai è diventata così gigante, che non indietreggerei dinanzi ad alcun delitto.
Len-Pra o la morte: ecco ormai il mio motto.”
“Aspetta che giungano nella città del Re lebbroso,” disse Kopom. “Tu mi hai detto che conosci tutte le entrate segrete di quegli antichi palazzi.”
“È vero: sono nato in quei dintorni e quelle immense rovine mi sono familiari,” disse il puram.
“Ma che esista il driving-hook?”
“Tutti lo affermano.”
“E glielo lascerai trovare?” chiese Kopom.
“Chi ti dice che essi possano giungere alla città del Re lebbroso? No, non lascerò trionfare Lakon-tay. Io ho suggerito al talapoino quel sogno, colla speranza di allontanarlo senza Len. Mi sono ingannato stupidamente e bisogna rimediare a quanto ho fatto. Ah! Len-Pra, quanti tormenti mi costi! E tuo padre ha rifiutato la mia mano, la mano d’un uomo potente quasi quanto il re!…”
“Per concederla ad un uomo bianco, ad uno straniero.”
“Kopom, bisogna che quell’uomo scompaia dalla circolazione. Vieni alla mia fattoria, e a meno che non sia un gran stregone, egli non vedrà la città del Re lebbroso, né tornerà mai più a Bangkok!”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Due ore dopo, Kopom usciva dalla fattoria e riprendeva la via che doveva condurlo alla risaia e di là al villaggio.
Il furfante pareva lietissimo, perché fischiettava fra i denti e di quando in quando si fregava le mani come persona soddisfattissima.
“Saliamo,” mormorava, guazzando fra il fango e le acque corrotte delle risaie. “Sì, avrò anch’io il mio cappello col cerchio d’oro e le rosette, e certo non mi accontenterò di un cerchio solo.
Kopom non è uno scimunito e vedo già in lontananza apparire i distintivi di puram. Se Mien-Ming dal nulla è salito così in alto, perché io, che valgo quanto lui, se non di più, non riuscirò un giorno a raggiungerlo? Onori e ricchezze! Ecco la mia ambizione.
Che importa se ho il viso sfregiato? Bisogna ben fare qualche sacrificio per riuscire! Il mio sogno comincia a realizzarsi, e mi vedo già alla corte, possente e temuto quanto lo stesso re.”
Così monologando, il briccone attraversò la risaia e raggiunse la borgatella senza fare alcun cattivo incontro, quantunque le belve feroci ronzino ordinariamente quasi sempre intorno ai villaggi, in attesa di fare un buon colpo.
Feng lo attendeva accanto al fuoco, acceso nel centro dell’accampamento, assieme agli uomini del primo quarto di guardia.
“Hai trovato la fattoria, pilota?” gli chiese.
“La fattoria sì, ma il pimento no. Altri l’hanno accaparrato prima di me,” rispose Kopom, fingendosi irritato. “Ecco una perdita considerevole per me.”
“Il padrone saprà ricompensarti.”
Kopom alzò leggermente le spalle ed entrò nella sua barca, sdraiandosi fra i suoi due battellieri.
L’indomani la scialuppa lasciava la borgatella, dopo aver fatto provvista di frutta, di noci di cocco, durion, banane e d’una certa quantità di kang, riso dal granello piccolissimo e aromatico, assai apprezzato dai Siamesi. Il capo della borgatella vi aveva aggiunto anche dei galli selvatici che un cacciatore aveva ucciso nella notte sugli argini della risaia e delle zucche piene di liquore zuccherino chiamato toddy.
Con quelle provviste e la carne del bufalo, che era stata arrostita perché si conservasse meglio, la spedizione poteva giungere a Sarawan senza fare altre fermate.
La scialuppa, spinta vigorosamente dai quattordici remi, si trovò ben presto lontana dalla borgatella.
Il fiume cominciava a restringersi, pur avendo ancora una larghezza considerevole, che variava fra i cinque ed i seicento metri.
Di quando in quando comparivano degli isolotti coperti di manghi e di bambù, e siccome erano popolati di uccelli acquatici, il dottore e Len non mancavano di salutare quei volatili con qualche colpo di fucile per aumentare le provviste.
Anche sulle rive gli uccelli erano abbondanti, non pochi bufali si mostravano nelle paludi. Vedendo la scialuppa avanzarsi, la guardavano coi loro piccoli occhi iniettati di sangue, poi fuggivano al galoppo, rifugiandosi sotto i boschetti o in mezzo alle canne.
A mezzodì, mentre Feng stava servendo la colazione, uno spettacolo inatteso s’offerse agli sguardi dei naviganti.
Una banda di elefanti, con parecchi piccini, sbucò improvvisamente da una foresta che aveva preso il posto delle eterne paludi, e si immerse nel fiume per attraversarlo. Si componeva per la maggior parte di maschi, guidati da due femmine di statura colossale.
Scorgendo la scialuppa, quei giganti, che si trovavano quasi già in mezzo al fiume, si arrestarono dando segni d’inquietudine e barrendo con fragore, poi si misero a fuggire disordinatamente.
Tuttavia maschi e femmine non abbandonarono i piccini. Se li cacciavano innanzi, spingendoli colle proboscidi e tentando di sollevarli, onde nella precipitosa ritirata non corressero il pericolo di affogare.
“Che peccato non poterli cacciare,” disse il dottore, che tormentava il grilletto della sua carabina.
“Siamo ancora troppo vicini ad Ajuthia e qualcuno potrebbe denunciarci,” rispose Lakon-tay. “Come vi dissi, tutti appartengono al re ed è vietato ucciderli. Quando saremo giunti fra le foreste del settentrione, non vi impedirò di affrontare quei colossi.”
“È d’altronde una legge saggia, che si dovrebbe applicare anche in altre regioni, per impedire la distruzione di quei preziosi animali così utili all’uomo,” disse il dottore.
“Li uccidono, altrove?” chiese Lakon-tay, sorpreso da quelle parole.
“Li massacrano su larga scala, generale. In Africa per esempio, e notate che gli elefanti africani sono più alti e più robusti di quelli asiatici, la razza già tende a scomparire. Tutti gli anni se ne uccidono cinquanta ed anche sessantamila.”
“Per mangiarli?”
“Più per impadronirsi dell’avorio, di cui si fa una grande esportazione. Circa 800.000 chilogrammi di avorio vengono introdotti ogni anno in Europa, ma a quale prezzo!”
“Sessantamila elefanti!” esclamò Lakon-tay. “Non sanno dunque ammaestrarli quei popoli?”
“Anticamente sì: numidi e cartaginesi, due popoli ormai scomparsi, se ne servivano nelle guerre e li caricavano di torri piene d’arcieri. Nello scompiglio avvenuto mille anni or sono, l’arte di addomesticarli andò perduta ed ora, in tutta l’Africa, non ne esiste uno che serva all’uomo di aiuto nei lavori più gravosi.”
“La razza finirà collo scomparire.”
“È già immensamente diminuita, ed è probabile che fra cinquanta anni, se non mettono un freno all’avidità dei cacciatori d’avorio, l’elefante africano non esisterà più.”
“Peccato,” disse il generale. “Distruggere degli animali così preziosi, così docili che rendono all’uomo tanti servigi! Dove volete trovare degli ausiliari più vigorosi e anche più intelligenti?
Immensi servigi rendono certamente anche i buoi ed i cavalli, ma che cosa sono a paragone degli elefanti, questi facchini sovrumani, che portano decine e decine di quintali sui loro dorsi poderosi, che percorrono perfino ottanta chilometri al giorno con simili carichi, che spinti alla corsa, malgrado la loro corpulenza, superano in velocità il miglior destriero dei nostri paesi, e si arrampicano su per le montagne come capre?
E quanta bontà posseggono quei giganti! Mai che abbiano uno scatto violento, mai che rifiutino un lavoro, per quanto gravoso possa essere, mai che si ribellino al loro mahut.”
“È vero,” disse il dottore. “Essi per intelligenza hanno il diritto di venire classificati dopo l’uomo, e prima della scimmia.”
“E che memoria meravigliosa hanno!… Io mi ricordo di un elefante, chiamato Tong, che apparteneva ad un mio amico, governatore di una città sul confine birmano.
Un giorno, mentre quel mio amico attraversava una jungla con parecchi elefanti, due tigri affamate si scagliarono contro la carovana. Tong, che era addomesticato da poco, invece di far fronte all’attacco fuggì, facendo cadere il suo mahut.
Diciotto mesi dopo, in una battuta di elefanti, Tong venne ripreso assieme a molti altri.
Era già ridiventato selvaggio, e si dibatteva con furore contro le elefantesse addomesticate che cercavano di atterrarlo.
Per un caso strano, fra i cacciatori si trovava il suo mahut. Costui, riconosciutolo, gli s’avvicinò, montato su una femmina, e lo prese per un orecchio, chiamandolo per nome.
Ebbene, lo credereste? Appena Tong udì la voce del suo antico domatore, non solo cessò ogni resistenza, ma dette segni di viva gioia e si lasciò docilmente condurre via.
Poche settimane dopo lavorava come nel passato, dimostrando di non aver nulla dimenticato di ciò che aveva appreso durante la sua prigionia.”
“È meraviglioso!” esclamò il dottore.
“Ed ecco un altro caso ancora più sorprendente,” disse Lakon-tay. “Un altro mio amico, un generale, aveva abituato un suo elefante a giocare coi bambini della casa, e il colosso pareva ci si divertisse assai. Li seguiva nei campi, se li metteva in groppa quando mostravano di essere stanchi, si lasciava tirare gli orecchi e pizzicare la proboscide senza aversene a male! Un giorno, mentre i fanciulli giocavano presso le rive del Menam, sul margine d’una jungla, ecco sbucare improvvisamente una grossa tigre.
Potete immaginare il terrore di quei bambini, che fra tutti e quattro non avevano vent’anni e che erano assolutamente inermi.
Che cosa fece l’elefante? Se li cacciò tutt’e quattro sotto il ventre, per paura che la tigre con un salto gli balzasse in groppa, cosa facile per quei terribili felini che sono dotati d’una agilità straordinaria; poi si mise a indietreggiare lentamente verso il fiume, con infinite precauzioni, per non calpestare i piccini che costringeva a seguirlo nella ritirata.
Per due volte la tigre tentò l’assalto finché, vedendo accorrere una scialuppa montata da parecchi uomini, stimò prudente abbandonare la partita e rintanarsi nella jungla.”
“Quanta intelligenza!” esclamarono Len-Pra e Roberto, che s’interessavano assai a quei racconti.
“E quanta docilità in quegli animali e quanta rara dolcezza e come si sottomettono volentieri all’impero materno!
Osservate: mentre tutti gli altri animali che vivono in comune subiscono la tirannia d’un maschio, è sempre una femmina che dirige le bande degli elefanti, e nessuno osa ribellarsi.”
“Invece d’un re hanno una regina,” disse Roberto, ridendo.
“È così, dottore.”
Mentre chiacchieravano, i colossi avevano attraversato il fiume ed erano scomparsi frettolosamente in mezzo agli altissimi bambù.
Soltanto uno si era fermato dietro un gruppo d’alberi, per sorvegliare le mosse della scialuppa; poi, vedendola proseguire, anche quello se ne andò al trotto, aprendosi un largo solco in mezzo alla vegetazione. Si era però appena internato quando un clamore assordante scoppiò fra quelle canne giganti.
Si udivano barriti formidabili, accompagnati da fischi stridenti, poi si videro i bambù agitarsi in tutti i sensi e cadere a gruppi.
“Che cosa accade là sotto?” chiese Roberto.
Lakon-tay fece segno al pilota di accostarsi ad un isolotto che si trovava quasi in mezzo al fiume.
Pareva che una terribile rissa fosse scoppiata fra gli elefanti ed altri animali che non si potevano ancora scorgere.
I clamori diventavano assordanti e le canne continuavano a cadere, assieme alle palme che vi crescevano nel mezzo; di quando in quando delle proboscidi apparivano al di sopra dei vegetali, poi s’abbassavano violentemente.
“Che degli uomini abbiano assalito quei colossi?” chiese Len.
“No, non sono uomini,” disse Lakon-tay, che ascoltava attentamente. “Chi oserebbe cacciare degli animali che sono proprietà del re? Ah!… Ora comprendo. Udite questi fischi stridenti?”
“Sì, generale.
Gli elefanti sono stati sorpresi da qualche coppia di rinoceronti. Sono certo di non ingannarmi.
Quei bruti odiano a morte gli elefanti e, quando si presenta l’occasione, li assalgono con cieco furore, tentando di sventrarli.
Guardate, ecco i colossi che indietreggiano verso la riva.”
La banda usciva a corsa sfrenata dalla macchia, colle proboscidi tese, barrendo spaventosamente.
“Fuggono!” esclamò il dottore.
“O prendono invece posizione, per caricare a loro volta su terreno scoperto?” disse Lakon-tay.”
I pachidermi infatti non pareva avessero intenzione di attraversare di nuovo il fiume. Giunti sulla riva, che in quel luogo era sgombra di vegetali d’alto fusto, si schierarono su una sola linea di fronte alla macchia. Alcuni pareva fossero stati assai maltrattati, perché perdevano sangue dai fianchi. Uno anzi si era separato dai compagni e barriva lamentosamente, versandosi acqua sul petto.
“Deve aver ricevuto un buon colpo di corno,” disse Lakon-tay, che lo osservava. “Le ferite che producono i rinoceronti sono spaventevoli. Ah!… Eccoli!”
Due animali di forme tozze, con gambe corte e grosse, il corpo lordo di fango disseccato, il muso armato di un doppio corno, uno lungo più di mezzo metro e l’altro cortissimo, erano improvvisamente balzati fuori dalla macchia.
Quei pericolosi animali, che misuravano ognuno quasi quattro metri di lunghezza, senza spaventarsi dell’atteggiamento risoluto degli elefanti, caricavano all’impazzata.
Con una velocità straordinaria e un’agilità incredibile per corpacci così tozzi, piombarono addosso ai loro avversari, tentando di sfondare la linea e di avere buon gioco.
Miravano soprattutto a raggiungere i piccini, che si erano nascosti dietro le madri; ma la loro furiosa carica non ebbe l’esito sperato.
I pachidermi, stretta la fila, li accolsero con tali colpi di proboscide, da strappare ai due bruti urla di dolore.
Uno fu rovesciato per ben due volte, poi orrendamente calpestato dai pachidermi inferociti; l’altro, dopo aver tentato invano di sventrare la guida della truppa, tornò al galoppo verso la macchia, urlando spaventosamente.
I colpi di proboscide dovevano avergli spezzato parecchie costole.
“Ben prese,” disse il dottore, mentre gli elefanti a loro volta si cacciavano fra i bambù. “Ecco una severa lezione data a quegli intrattabili e brutali devastatori delle foreste.”

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.