Capitolo XXI Un dramma in mezzo alla foresta

Il potente quadrumane, nel ritirarsi, aveva aperto un solco abbastanza largo nella muraglia di verzura per permettere ai due cacciatori e alla fanciulla di penetrare nella fitta boscaglia senza aver bisogno di far uso dei loro coltellacci.
In mezzo a quel caos di vegetali, che proiettavano un’ombra fittissima, perché le immense foglie dei sagù, degli areca e dei banani selvatici intercettavano i raggi solari, doveva avvenire un lotta formidabile. Si udivano urla strozzate, suoni rauchi, scricchiolii di rami e scrosciare di foglie secche. Chi poteva aver assalito quel poderoso quadrumane, dotato di una forza così straordinaria?
Procedendo cautamente e nel più profondo silenzio, il generale, Roberto e la bella siamese giunsero in breve all’estremità del solco aperto dal thu-vac, e sboccarono in un piccolo spiazzo, coperto, a venti metri di altezza, da foglie mostruose che impedivano quasi alla luce del sole di penetrare.
In quella semioscurità, due animali lottavano con furore, rotolandosi al suolo, urlando spaventosamente: il thu-vac ed una superba tigre reale.
Quest’ultima, evidentemente spinta dalla fame, aveva osato assalire il quadrumane fidando nella propria agilità e nella robustezza delle unghie; invece aveva trovato un avversario degno di lei.
Probabilmente l’aveva assalito a tradimento, sperando di abbatterlo di colpo, e, sia che avesse preso male lo slancio o che il thu-vac l’avesse scorta a tempo, era stata afferrata dalle braccia potenti del quadrumane.
“Ecco che ha trovato da divertirsi, mormorò il dottore. Giacché al thu-vac piace lottare, atterri la tigre se ne é capace. Io non vorrei trovarmi al suo posto.”
“Ed io nemmeno al posto della tigre,” rispose sottovoce Lakon-tay.
“Potrebbe riuscire a vincerla?”
“Ne sono convinto.”
“E in quale stato si troverà dopo la vittoria?”
“In pessimo stato di certo; la tigre non si lascerà stritolare senza distribuire in abbondanza colpi d’artiglio.”
“Me ne accorgo,” rispose il dottore.
E infatti la belva non lesinava le unghiate. Quantunque dovesse essere quasi soffocata e dovesse sentirsi spezzare ad una ad una le costole, si dibatteva furiosamente per sottrarsi a quella stretta irresistibile e rigava profondamente la pelle del quadrumane, strappandogli ad un tempo lembi di carne e fiocchi di pelo.
Il thu-vac, sotto quei colpi, urlava spaventosamente e non allargava le braccia, anzi stringeva con maggior vigore, facendo scricchiolare le ossa dell’avversaria.
Una zampata gli aveva strappato mezza pelle del volto assieme ad un occhio e a buona parte del naso; una seconda gli aveva aperto una ferita orribile sulla spalla destra, che metteva a nudo parte della scapola, e una terza gli aveva straziato il petto.
Pur grondante di sangue e così atrocemente conciato, il quadrumane, convinto della vittoria finale, non si lasciava scappare la belva e raddoppiava le strette per fracassarle la spina dorsale.
Era però caduto al suolo e si rotolava fra le radici e le foglie secche, ora rimanendo sotto ed ora sopra la tigre.
La lotta non doveva durare molto. La belva, coi fianchi semifracassati, i polmoni compressi dalle dita di ferro del thu-vac che s’affondavano nel pelame, facendo penetrare le unghie nella carne, aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite e rantolava colla bocca spalancata, vomitando getti di schiuma sanguigna.
I colpi di zampa diventavano sempre più radi e non cadevano più col vigore iniziale. Già la morte della fiera pareva imminente, quando da una macchia vicina si slanciò fuori, con un balzo fulmineo, una seconda tigre, di dimensioni maggiori della prima.
“In guardia!” sussurrò Lakon-tay, armando precipitosamente la carabina. “Ecco un vicino troppo pericoloso, che potrebbe prendersela anche con noi.”
La belva, che doveva essere un maschio, a giudicare dalle forme più muscolose, si arrestò un momento in mezzo allo spiazzo, poi con un secondo slancio si precipitò addosso al thu-vac, nel momento in cui questi si voltava, cacciandosi nuovamente sotto l’avversaria. Con un tremendo colpo d’artiglio, il tigre strappò quasi l’intera cotenna del povero lottatore, mettendogli a nudo il cranio.
“Perbacco! Che pettinata!” mormorò Roberto.
Il thu-vac mandò un urlo orribile, che si propagò lungamente sotto le volte di verzura.
Aperse le braccia lasciando sfuggire l’avversaria e tentò di rizzarsi in piedi per far fronte a quel nuovo nemico. Il tigre aspettava quella mossa per dargli il colpo mortale: e come glielo diede! Gli strappò addirittura la gola, squarciandogli le vene del collo, poi chiuse la bocca attorno al cranio del moribondo, stritolandoglielo.
S’udì un crac sinistro, ed il povero lottatore cadde per non più rialzarsi.
“Che belve terribili,” mormorò il dottore. “Generale, lasciamole godersi la loro vittoria.”
“È quello che stavo per proporvi,” rispose Lakon-tay. “Quella non è la selvaggina che cercavamo.”
Mentre il tigre s’appressava alla compagna che brontolava sordamente, stesa fra le foglie, come se fosse incapace di rimettersi in piedi, i due cacciatori e Len si ritrassero silenziosamente, ansiosi di riguadagnare il sentiero aperto dagli elefanti.
Disgraziatamente il dottore, che era l’ultimo e si guardava alle spalle, temendo di vedersi piombare addosso il vincitore, non fece attenzione ad un ramo basso e lo urtò colla canna della carabina.
Quel rumore, quantunque lieve, non sfuggì all’udito del tigre, il quale rispose con un rauco miagolio.
“Siamo stati scoperti,” disse Lakon-tay, voltandosi rapidamente e gettandosi dinanzi a Len. “Non muovetevi, dottore!”
Dal luogo dove si trovavano, potevano ancora scorgere attraverso i rami e le foglie il piccolo spiazzo e anche le due tigri.
Il maschio non si trovava più presso la compagna, che gemeva sempre, distesa al suolo.
Aveva fatto alcuni passi innanzi, accostandosi al solco aperto dal thu-vac, e si teneva ritto a quindici soli passi dai cacciatori, cogli orecchi tesi, la testa alta, guardando verso i cespugli.
“Ci ha scorti,” disse Len-Pra.
“O fiutati,” rispose il dottore.
“Ci assalirà?”
“Può darsi; ma noi sosterremo il suo attacco, è vero, generale?”
“È solo, e non mi pare che la sua compagna, dopo la terribile stretta del thu-vac, sia in grado di poterlo aiutare. Tuttavia aspettiamo, e se possiamo ritirarci senza impegnare la lotta, sarà meglio per noi.”
Il tigre conservava una immobilità assoluta; solamente la sua bella coda inanellata si agitava mollemente, sfiorando il suolo. Pareva che cercasse di raccogliere qualche nuovo rumore che lo confermasse nei suoi sospetti.
“Generale,” mormorò il dottore, che tormentava il grilletto della carabina. “Guadagniamoci quella splendida pelle. L’animale si presenta bene per un buon tiro. Sono sicuro di colpirlo al cuore.”
“E se, malgrado la ferita, ci piombasse addosso? Hanno una vitalità straordinaria quelle belve.”
“Non sbaglierò.”
“Ed io tiro con voi, dottore,” disse Len-Pra, alzandosi sulle ginocchia. “Sarebbe un peccato lasciarci sfuggire una così bella occasione.”
“Io rimarrò di riserva,” disse il generale. “Badate di non mancare la belva.”
Il dottore e la giovane alzarono i fucili, mirando con estrema attenzione, ma il tigre, sia che i suoi occhi acuti avessero scorto, anche attraverso il fitto fogliame, lo scintillio delle due canne, sia che avesse intuito il pericolo che lo minacciava, con uno scatto improvviso si gettò dietro un cespuglio, scomparendo agli sguardi di Roberto e di Len-Pra.
Quasi nello stesso tempo la femmina, che pareva avesse ricuperato improvvisamente le sue forze, si rialzò bruscamente, balzando leggera verso l’estremità del solco aperto poco prima dal povero lottatore.
“Che gioco è questo?” si chiese il dottore, punto rassicurato da quella manovra, e rialzando la carabina. “Il maschio che fugge e la moribonda che prende il suo posto! Generale, ci capite qualche cosa voi?”
Lakon-tay corrugò la fronte e fece un mezzo giro a sinistra, scrutando il folto fogliame.
“Doppio attacco,” diss’egli, “e che impegna anche la riserva. Come sono astute queste dannate belve!”
“O movimento aggirante?” chiese Roberto.
“Vera tattica guerresca, dottore, e senza aver fatto alcuna scuola di guerra.”
“A meno che le tigri non ne abbiano una!”
“Non scherzate, dottore. Siamo minacciati da due lati.”
“Faremo fronte d’ambo le parti. Voi due occupatevi del maschio, mentre io cerco di spedire all’altro mondo la femmina. Attenti soprattutto alle sorprese.”
“Sono generale,” rispose Lakon-tay, sorridendo.
La tigre si era a poco a poco avanzata fino a trenta passi dal gruppo formato dai due cacciatori e dalla giovane cacciatrice, fermandosi presso un folto cespuglio.
La povera bestia, che aveva provato le strette formidabili del quadrumane, non pareva in grado di tentare un fulmineo assalto. I suoi fianchi, già compressi dalle braccia del thu-vac, battevano febbrilmente e dei rauchi brontolii le uscivano dalla gola. Doveva avere parecchie costole fracassate; pure era ancora in grado di affrontare una nuova lotta.
Scorgendo i cacciatori si accovacciò, guardando con curiosità quei nuovi nemici, risoluta, a quanto sembrava, a sacrificarsi per salvare il compagno.
I suoi sguardi si fissarono particolarmente sul dottore. Abituata certamente a trovarsi di fronte degli uomini dalla pelle scura, sembrava non poco sorpresa di vedersi dinanzi un uomo che aveva la pelle bianca.
Il dottore, che aveva messo un ginocchio a terra, si prestava a quella investigazione con una calma straordinaria, che indicava un coraggio eccezionale e soprattutto un sistema nervoso molto saldo.
Aveva abbassato nuovamente la carabina e cercava un buon punto per fare un colpo superbo, mentre Lakon-tay e Len-Pra sorvegliavano attentamente le macchie di destra, dove supponevano si celasse il maschio.
Il dottore stava per far fuoco, quando la belva, che si era raccolta su se stessa come se volesse tentare un salto disperato, volse pian piano la testa in altra direzione.
“Generale,” disse Roberto. “Il pericolo sta a sinistra! Il maschio ci ha giocati. Guardatevi!”
Poi, senza attendere altro, premette risolutamente il grilletto e fece fuoco.
“Bel colpo, dottore!” esclamò Len-Pra.
Fu veramente un colpo magnifico. La tigre, colpita al capo, si rizzò improvvisamente, come toccata da una scarica elettrica, mandando un rauco miagolio, poi cadde pesantemente al suolo senza agitarsi. La palla l’aveva fulminata.
Quasi nello stesso momento si udì uno scricchiolio di rami e sì vide balzare in mezzo allo spiazzo il maschio.
Vedendo la compagna morta, mandò quel grido impressionante, spaventevole, che una volta udito non si dimentica più mai: haa-oug! Poi si raccolse su se stesso e scattò improvvisamente.
Lakon-tay, vedendolo attraversare lo spazio con velocità fulminea, fece fuoco, sperando di arrestarlo al volo.
Il proiettile colpì il tigre al fianco destro, fracassandogli forse qualche costola; ma non era sufficiente per arrestare una tale belva, che al pari dell’orso grigio dell’America del nord può sfidare parecchie palle.
Il tigre cadde a soli dieci passi dal cespuglio che riparava i cacciatori, ma per riprendere quasi subito lo slancio.
Il momento era terribile e il pericolo gravissimo, tanto più che Lakon-tay si trovava coll’arma scarica e il dottore non aveva terminato di ricaricare la propria carabina.
Vi era Len-Pra. La coraggiosa fanciulla, vedendo che la belva si preparava a scattare, si rizzò dietro al padre e al dottore che si erano gettati dinanzi a lei per proteggerla, puntò la pesante carabina e mirò freddamente, con calma straordinaria.
Doveva avere dei nervi ben solidi quella brava siamese, per conservare un tale sangue freddo dinanzi a quella fiera, che è la più tremenda di quante ne esistano.
S’udì una detonazione secca ed il tigre fu veduto rizzarsi bruscamente come un cavallo che s’impenna sotto un improvviso colpo di sperone, poi cadere.
“Grazie, Len-Pra,” disse il dottore, tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte. “Grazie, coraggiosa fanciulla: vi dobbiamo la vita.”
La giovane siamese arrossì di piacere, mentre lasciava cadere al suolo l’arma ancora fumante di cui si era così ben servita in quel momento terribile, e guardò sorridendo il dottore, che appariva estremamente commosso.
Lakon-tay, che era diventato pallidissimo, strinse fra le braccia la figlia, dicendole con voce quasi tremante:
“Tu sei ben degna di tuo padre, Len-Pra. Hai nelle vene sangue di guerrieri.”
“Un semplice colpo di fucile sparato a tempo,” disse la giovane, ridendo.
“Che nemmeno un vecchio cacciatore sarebbe stato capace di sparare,” rispose il generale.
“No,” disse Roberto, “nessuno avrebbe potuto avere un tale sangue freddo, ve lo dico io, Len-Pra.”
“Ecco un elogio che non scorderò mai, perché detto da un uomo bianco,” disse la siamese.
“Un elogio che vi meritate, Len; se siete la più bella fanciulla che io abbia veduto nel Siam, siete pure la più valorosa, e le donne d’Europa potrebbero ben invidiarvi.”
Il generale, che pareva più commosso ancora del dottore, guardava i due giovani cogli occhi umidi.
Aveva compreso ormai che non era più solo una dolce amicizia la loro; un affetto ben più tenace, ben più ardente, ormai univa il giovane europeo e la figlia delle regioni tropicali.
Vedendoli guardarsi con aria imbarazzata, ma cogli occhi ardenti, credette opportuno intervenire.
“Andiamo a vedere le tigri, dottore,” disse. “Sono due belve superbe, ve l’assicuro.”
Mentre si volgeva per raggiungere lo spiazzo dove le due fiere giacevano a pochi passi l’una dall’altra, Roberto si chinò verso la fanciulla.
“Vi amo, Len,” le sussurrò all’orecchio.
La giovane abbassò gli occhi, arrossì, poi rispose con un filo di voce:
“Sarebbe un sogno troppo bello, dottore. Io amata da un europeo!”
Due lagrime le tremolavano sotto le lunghe ciglia.
“Venite, Len-Pra,” disse Roberto. “Vediamo dove avete colpito il tigre che contava di banchettare colle nostre carni.”
Attraversarono l’ultimo tratto del sentiero aperto dal povero lottatore e giunsero sullo spiazzo.
Il tigre era caduto contro un cespuglio: proprio in mezzo alla fronte aveva un foro rotondo, da cui usciva un po’ di materia cerebrale assieme ad alcune gocce di sangue.
“Che precisione!” esclamò il dottore. “Come avete fatto, Len-Pra, a sparare un simile colpo, mentre le braccia degli uomini tremavano?”
“Sì,” disse il generale, guardando la fanciulla con orgoglio. “Un colpo superbo, figlia mia, che io non avrei potuto tirare, specialmente in quel momento.”
“Un caso, padre,” rispose la giovane.
“E l’altra?” disse il generale. “Come è stata conciata dal lottatore!… Non deve avere due costole intatte.”
“Eppure non era meno pericolosa del maschio,” disse il dottore. “Queste fiere hanno il diavolo in corpo e anche colla spina dorsale fiaccata spiccano dei salti. Che vitalità straordinaria!…”
“Abbiamo fatto un bel massacro, dottore, eppure non ci siamo guadagnata la cena.”
“Vi rinuncio volentieri, pur di avere queste due superbe pelli. L’occasione non mancherà per procurarci delle bistecche. Per oggi accontentiamoci delle tigri.”
“Manderemo il pilota e Feng a scuoiarle. Orsù, in ritirata. Per oggi possiamo essere soddisfatti.”
Un quarto d’ora dopo i due cacciatori e Len-Pra facevano ritorno all’accampamento, dove trovarono Feng che soffiava a tutta lena sotto una pentola da cui usciva un profumo appetitoso.
“Pare che il mio servo non abbia perduto il suo tempo,” disse il generale. “Che cosa bolle lì dentro, Feng?”
“Un bel tucano, signore,” rispose lo Stiengo.
“Sei un bravo ragazzo. Noi non avremmo potuto mettere nella pentola che due pelli di tigre, e temo che non avrebbero fatto un brodo bevibile. È vero, dottore?”
“Pieno di parassiti, generale,” rispose Roberto, ridendo.
“A tavola, signori,” disse lo Stiengo. “Il tucano è cotto a puntino.”

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