Quando Lakon-tay si svegliò, il pilota stava preparando il tè, tranquillo come se nulla fosse accaduto, mentre Feng continuava a russare, placidamente avvolto nella sua coperta di lana.
“Non è successo niente durante la notte?” gli chiese.
“No, signore. Io non ho veduto nessuno aggirarsi intorno all’accampamento.”
“E Feng?”
“Feng ha dormito sempre, signore. Non so che cosa abbia bevuto ieri sera prima di coricarsi; mi sono provato a scuoterlo per svegliarlo, ma non ha aperto gli occhi, e io allora l’ho lasciato dormire.”
“Ciò è strano. Feng non ama i liquori.”
“Prova tu a svegliarlo, padrone.”
“Che sia ammalato?” mormorò il generale.
S’accostò al fedele servo, gli tolse di dosso la coperta e lo scosse replicatamente, dicendogli:
“Diventi un poltrone, Feng. Orsù, alzati, il sole si è già levato.”
Lo Stiengo rimase immobile cogli occhi chiusi e continuò a russare.
“Che cosa può aver bevuto questo giovane?” si chiese il generale, assai sorpreso per quel sonno profondo e così prolungato. “Che qualche serpente lo abbia morso? In tal caso il suo sonno sarebbe agitato e la sua respirazione non sarebbe così regolare.”
“Pilota!”
“Eccomi, signore.”
“Va’ a svegliare il dottore; egli saprà trovare certo la causa di questo letargo inesplicabile.”
Kopom s’avvicinò alla tenda dell’italiano, vi entrò, e subito mandò un grido di stupore.
“Signore, l’uomo bianco non c’è più.”
Lakon-tay impallidì.
“Sei cieco? È impossibile che non vi sia.”
“Vieni a vedere, padrone.”
Il generale corse verso la tenda e constatò coi propri occhi che Roberto era veramente scomparso e che con lui era scomparsa la carabina, che ordinariamente teneva presso il giaciglio.
“Che sia andato a cacciare sulle rive del lago?” si domandò il generale, un po’ rassicurato non vedendo la carabina. “Sentiamo un po’, pilota: hai sempre vegliato tu?”
“Ho dormito qualche ora, un po’ prima dell’alba,” rispose Kopom, fingendosi confuso.
“Allora sarà andato a cacciare i pellicani.”
“Chi, padre?” chiese Len-Pra, uscendo dalla sua tenda.
“Il signor Roberto.”
“Senza di me!” esclamò la fanciulla, facendo un piccolo gesto di rammarico.
“Gli spiaceva di svegliarti, a quanto pare. Caccerai più tardi; noi ci fermeremo qui fino a domani.”
“Mi rincresce però che non sia qui, poiché ho bisogno di lui.”
“C’è Feng che dorme ancora e non riesco a svegliarlo.”
“Che sia stato colto dalla febbre dei boschi?”
“Lui, uno Stiengo! E poi non presenta alcun sintomo di febbre: non ha né brividi, né sudori freddi.”
“Che cosa avrà allora quel bravo ragazzo?”
“Non ci capisco nulla, Len.”
“Manda il pilota a cercare il dottore. Non sarà andato molto lontano.”
“Vado, padrone,” disse Kopom. “Il lago è vicino e tornerò presto.”
Mentre il furfante si allontanava correndo, il generale e la fanciulla si provavano ancora a svegliare lo Stiengo, senza però riuscirvi.
Il figlio dei grandi boschi umidi dormiva sempre e russava placidamente, come se avesse chiuso appena allora gli occhi.
Lakon-tay esaminò attentamente le membra dell’addormentato e trasalì vedendo su un braccio una leggera puntura nerastra che spiccava nettamente in mezzo ad una macchia rossastra, grande come una moneta da una lira.
“È stato morso da qualche insetto!” esclamò.
“Da qualche scolopendra o da uno scorpione?” chiese Len-Pra.
“Non saprei. Credo comunque che non vi sia motivo per inquietarsi. Il sonno è tranquillo e Feng non dormirà certo eternamente.”
Lo avvolse nella coperta di lana e lo portò sotto una tenda, dicendo:
“Lasciamolo tranquillo: penserà il dottore a svegliarlo.”
Vuotarono alcune tazze di tè, mangiarono qualche biscotto e misero un po’ in ordine le tende, in attesa che il pilota ritornasse.
Erano entrambi un po’ preoccupati, specialmente Len-Pra, per l’assenza del dottore. Quantunque sapessero che era molto amante della caccia, non riuscivano a convincersi che potesse essersi allontanato dall’accampamento senza avvertirli; infatti nulla aveva detto la sera innanzi.
Passò un’ora, poi due, ed il pilota non si fece vedere. Le loro inquietudini si tramutarono in una vera angoscia.
“Padre,” disse Len, che impallidiva a vista d’occhio. “Che sia successa qualche disgrazia al nostro amico? A quest’ora dovrebbe essere già di ritorno.”
“Si sarà forse allontanato troppo,” rispose il generale, che non voleva allarmare la fanciulla. “Giungerà, non dubitare, e con una mezza dozzina di pellicani.”
Un’altra ora trascorse, poi finalmente il pilota comparve all’entrata del recinto. Pareva pensieroso.
“L’hai trovato?” gli chiese Len-Pra, correndogli incontro.
“No, signora,” rispose il miserabile, facendo un gesto di scoraggiamento.
“Non l’hai visto?” gridò Lakon-tay.
“Ho percorso più di due miglia, seguendo la riva del lago, senza poterlo rintracciare.”
“Non hai udito alcuno sparo?”
“Nessuno.”
Len-Pra, che era ora diventata livida e sul cui viso si leggeva un dolore intenso, guardò suo padre con smarrimento.
“È perduto,” singhiozzò, portandosi le mani al cuore. “Disgrazia! Disgrazia!”
“Non disperiamo così presto, Len,” disse il generale, cercando di nascondere la propria commozione. “Si sarà allontanato troppo o si sarà cacciato addirittura nella foresta. Mi stupisce soltanto il fatto di non aver udito in queste tre ore nessun colpo di fucile. Che cosa ne dici, pilota?”
“Non ti nascondo, padrone, che questa assenza prolungata m’inquieta.”
“Che sia stato ferito da qualche animale?”
“È impossibile, signore.”
“No, non lo crederei mai,” disse la giovane siamese. “Egli è un cacciatore troppo abile e non sbaglia mai.”
“Talvolta una capsula avariata può perdere il cacciatore,” rispose Lakon-tay.
“È vero,” disse Kopom, che si mostrava profondamente afflitto.
“Padre,” disse Len. “Andiamo alla sua ricerca.”
“Le notti sono umide e non ci sarà difficile trovare e seguire le sue orme,” disse il generale, dopo una breve riflessione. “Se poi…”
Si interruppe bruscamente, vedendo uscire dalla tenda Feng.
Il bravo giovane era ancora mezzo intontito da quel sonno troppo prolungato e sbadigliava in modo da slogarsi le mascelle.
“Feng!” esclamarono tutti e tre.
“Padrone,” disse lo Stiengo, mentre avanzava barcollando. “Che cos’è avvenuto? Mi sembra di essere come ubriaco, eppure non ho bevuto altro che dell’acqua ieri sera… Toh! il sole così alto!”
“Hai dormito molto infatti,” rispose Lakon-tay. “Qualche insetto ti ha morsicato la scorsa notte. Senti dei brividi?”
“No, signore. Mi sento invece benissimo, solamente la mia testa è un po’ pesante, come se avessi bevuto un vaso colmo di toddy.
E l’uomo bianco dov’è, che non lo vedo?”
“Ti sei svegliato in buon punto, amico, poiché ho bisogno proprio di te. Uno Stiengo sa trovare una pista, specialmente se è recente.”
“Che cosa intendi dire, padrone?”
“Intendo dire che devi aiutarci a cercare il dottore, scomparso da stamane.”
“Sì, Feng, aiutaci!” disse la giovane, afferrandogli le mani e scuotendolo.
“Egli è partito senza avvertirci e non sappiamo che cosa sia avvenuto di lui. Cerca la sua pista e seguiamola sino a quando lo troveremo, vivo o morto.”
“L’uomo bianco partito?!” esclamò lo Stiengo. “Che gli sia successa invece qualche disgrazia?”
“È quello che temiamo: cerca la sua pista, Feng, cercala.”
“Sì, padrona,” rispose il figlio delle foreste. “Io saprò trovarla.”
Vuotò due tazze di tè, che il generale gli porgeva, poi si diresse verso la tenda del dottore, guardando attentamente il suolo. Len ed il generale lo seguirono, mentre Kopom si sedeva presso il fuoco fingendo di occuparsi della colazione. Il bandito li seguiva con lo sguardo e borbottava fra sé.
Giunto alla tenda Feng girò intorno ad essa e fermò la sua attenzione su alcune orme appena visibili, che qualunque altro non sarebbe riuscito probabilmente a rilevare.
“Padrone,” disse con voce alterata. “Un uomo è venuto qui. Io vedo le tracce dei suoi piedi nudi.”
“Non sono state lasciate dal dottore?” chiese Len.
“No,” rispose lo Stiengo. “L’uomo bianco calza grossi stivali e se fosse uscito dalla sua tenda si vedrebbero ora distintamente le tracce lasciate dai chiodi. Ah!…”
“Che c’è ancora?” chiese Len, che ascoltava attentamente, col cuore stretto da una profonda angoscia.
“La traccia di quell’individuo continua fin dentro la tenda ed è più marcata qui.”
“E che cosa vorresti concludere con ciò?” chiese Lakon-tay.
“Quell’uomo doveva essere carico assai, per affondare i piedi nel suolo.”
“Che portasse…”
“Sì, padrone, portava qualcuno fra le braccia, forse l’uomo bianco.”
“Allora è stato rapito!” gridò Len, con accento disperato.
“Rapito? E da chi? A quale scopo?” disse Lakon-tay.
Lo Stiengo non rispose: pensava profondamente, tenendo lo sguardo fisso al suolo.
“Padrone,” disse ad un tratto. “Il dottore doveva avere dei nemici. La prima volta hanno tentato di assassinarlo sulle rive del Menam; la seconda volta nella foresta; ora l’hanno portato via.”
“Lui, nemici?!” esclamò il generale. “Io sì, ma lui no, è impossibile.”
“Padre,” disse Len-Pra con suprema energia. “Cerchiamolo e, se l’hanno ucciso, vendichiamolo.”
Negli occhi di quella fanciulla, ordinariamente così calma, brillava in quel momento una fiamma sinistra ed i suoi lineamenti, così dolci, erano diventati improvvisamente duri, quasi feroci.
“Sì,” disse il generale. “Noi lo cercheremo, figlia mia, e se quei misteriosi nemici lo hanno soppresso, noi li uccideremo tutti, per quanto potenti possano essere. Feng, segui la traccia lasciata dall’uomo che portava il dottore.”
“Una parola, prima, padrone.”
“Parla, ma spicciati.”
“Non trovi strano che l’uomo bianco, così robusto e così energico, si sia lasciato rapire senza lotta e senza emettere un grido?”
“Sì, è strano,” disse il generale, colpito da quella giusta osservazione.
“Sai, padrone, che cosa penso ora?”
“No.”
“Penso che non sia stato un insetto a pungermi. Mi hanno iniettato chissà quale veleno o narcotico per farmi dormire e la stessa cosa devono aver fatto all’uomo bianco. Ci hanno addormentati pungendoci.”
“Con che cosa?”
“Non saprei.”
“Io credo che tu abbia ragione, Feng,” rispose il generale. “I rapitori devono aver addormentato anche il dottore, per impedirgli di difendersi.”
“Padre,” disse Len-Pra. “Non perdiamo altro tempo e diamo subito la caccia a quei miserabili prima che si allontanino troppo.”
Insellarono rapidamente i tre migliori cavalli, presero le loro armi e un po’ di viveri, raccomandarono al pilota di non lasciare l’accampamento e infine seguirono la traccia scoperta, conducendo gli animali a mano. Feng, che non alzava gli occhi un solo istante, giunse così fino alla pagoda, ma qui la traccia non era più visibile.
L’uomo che portava il dottore doveva essere entrato nella vecchia pagoda, ma qui non si poteva più scorgere alcuna orma sul pavimento di pietra.
“Facciamo il giro della pagoda,” disse Lakon-tay. “Vi è un altro cortile dall’altra parte.”
Passando in mezzo a cumuli di rottami, ben presto giunsero nel secondo cortile che era meno spazioso del primo ed aveva numerose brecce: qui videro il suolo erboso e umido coperto da tracce ben visibili, lasciate da un drappello di cavalli.
“I rapitori erano a cavallo,” disse Feng.
“Ti sembrano molti?” chiese il generale.
“Sarei quasi certo di non ingannarmi, se facessi salire il numero di quei cavalli a dieci. Se avessi tempo potrei precisarlo meglio.”
“No, no, avanti, Feng!” esclamò Len-Pra. “Abbiamo già tardato troppo.”
“Raggiungiamo i cavalli, padrone,” rispose lo Stiengo. “Possiamo seguire queste tracce anche galoppando.”
Balzarono tutt’e tre a cavallo e allentarono le briglie, I rapitori avevano superato la cinta del cortile passando attraverso una breccia, poi erano penetrati nella foresta, dirigendosi verso il lago.
Le orme lasciate dai cavalli sull’umidissimo terreno della foresta erano così visibili, che Feng non aveva bisogno né di scendere, né di arrestarsi per seguirle.
Dieci minuti dopo giunsero sulle rive del lago. Là i rapitori avevano fatto una sosta. Per quale motivo? Bisognava saperlo.
Feng smontò da cavallo e perlustrò la riva per qualche centinaio di passi.
“Padrone,” disse ad un tratto. “Qui è approdata una barca.”
“Da che cosa lo arguisci?”
“Ecco qui questo buco che deve essere stato fatto da un remo e… che cos’è che brilla sulla sabbia?”
Spiccò tre o quattro salti, si curvò poi rapidamente al suolo e raccolse qualche cosa che fece scintillare ai raggi del sole.
“Padrone,” disse poi, accostandosi rapidamente al generale. “Conosci questo?”
Così dicendo mostrava un cerchio d’oro ornato di fiori pure d’oro e che era aperto da una parte, simile a quello che era sul cappello conico del generale.
Lakon-tay nel vedere quel gioiello mandò un grido.
“Il distintivo dei puram!” Poi rimase lì, cogli occhi sbarrati e fissi sul cerchio d’oro, colla bocca aperta, le mani raggrinzite, i lineamenti alterati da una collera tremenda.
“Che cos’hai, padre mio?” chiese Len-Pra.
“Il miserabile! Dovevo immaginarmelo!” esclamò finalmente Lakon-tay, con voce strozzata. “Questo cerchio lo ha tradito!”
“Di chi parli, padre?”
“Un puram solo poteva tramare una simile infamia e nutrire verso di noi, e soprattutto verso quel povero dottore, un odio così implacabile.”
“Ma chi? Parla, padre mio.”
“Mien-Ming, il puram di Bangkok, l’uomo che voleva la tua mano e che io ho messo alla porta, conoscendo troppo bene la malvagità e la doppiezza del suo animo. Ma ti tengo ormai in mano, canaglia, e per quanto tu sia possente e goda i favori del re, saprò fartela pagare.”
“Mien-Ming! Il puram Cambogiano!” esclamò Len-Pra.
“Sì, non può essere che lui, ne sono certo. È lui che ha cercato dapprima di far assassinare il dottore sulle rive del Menam, sospettando nell’uomo bianco un rivale; è lui che gli ha teso poi quell’agguato nelle foreste della valle, ed è lui che lo ha fatto ora rapire.”
“E forse è lui che ha fatto morire gli elefanti sacri, per rovinarti, padrone,” aggiunse Feng.
“Sì, può essere stato capace anche di quello,” disse Lakon-tay.
“Padre,” disse Len-Pra. “Dobbiamo agire subito e far arrestare quel miserabile.”
“E da chi, povera fanciulla? Siamo privi di qualsiasi aiuto nel territorio degli Stienghi, un paese selvaggio, dove non ci sono funzionari Siamesi.”
“Non è vero, padrone,” disse in quel momento Feng. “Dimentichi che sono uno Stiengo anch’io, che la mia tribù è una delle più numerose e delle più potenti e che io sono parente del capo? In ventiquattro ore noi possiamo giungere sulle rive del Kun-Boreye, chiedere l’aiuto del capo, quindi catturare e anche far uccidere quel maledetto Cambogiano.”
“Tu sei la nostra salvezza, Feng.”
“Allora partiamo senza troppo indugiare,” disse Len-Pra. “Dove si dirigono le orme dei cavalli?”
“Verso nord, padrona.”
“Avanti al galoppo,” comandò la coraggiosa giovane. “Vedremo se quei miserabili hanno tentato di varcare il Kun-Boreye.”
I tre cavalli, vigorosamente sferzati, partirono ventre a terra seguendo la riva del lago. Nessuno si preoccupò del pilota, il quale d’altronde aveva viveri sufficienti per qualche settimana, armi per difendersi e dei buoni animali per fuggire in caso di pericolo.
Per tre ore galopparono, seguendo sempre le tracce dei rapitori, le quali erano visibilissime sulla riva sabbiosa, poi deviarono a causa di una palude che pareva avesse un’estensione enorme e che non era popolata che da miriadi di pellicani e di cormorani.
Verso le quattro del pomeriggio, dopo un breve riposo, entrarono in una foresta umida che costeggiava la palude, una di quelle pericolose boscaglie che aveva incontrato il disgraziato dottore durante la sua marcia.
“Queste sono le foreste preferite dai miei compatrioti,” disse Feng, che cavalcava dinanzi a tutti. “Kun-Boreye non deve essere lontano.”
“Avanti sempre,” rispose Len-Pra. “Finiremo per raggiungere quelle canaglie.”
S’ingannava, perché verso le sei essi giunsero su un terreno quasi inondato, dove non era più possibile seguire le tracce dei fuggiaschi. Sotto la foresta vi era più d’un piede d’acqua, che nascondeva completamente le orme lasciate dai cavalli di coloro che avevano rapito il dottore.
Feng si era arrestato brontolando.
“Che cosa pensi di fare ora?” chiese Lakon-tay.
“Quest’acqua che scende verso il lago deve aver cancellato le tracce,” disse lo Stiengo con voce sorda.
“Da dove viene?”
“Non lo so, padrone. Ho però un timore.”
“Quale?”
“Temo che ben presto aumenti.”
“Perché?”
“L’atmosfera è pesante e ben presto scoppierà qui un uragano. Noi Stienghi non c’inganniamo mai.”
“Siamo lontani dal tuo villaggio?” chiese Len-Pra.
“Non credo.”
“Saprai ritrovarlo?”
“Sì, quantunque vi manchi da sei anni.”
“Attraversiamo la foresta e raggiungiamo le rive del Kun-Boreye,” disse il generale. “Un uragano sta per scoppiare ed è necessario cercare un rifugio. So quanto siano terribili le bufere che scoppiano in queste regioni.”
Feng stava per frustare il cavallo, quando lo trattenne invece violentemente, dicendo: “Gli abitanti dei boschi. Saranno amici o nemici? Padrone, padroncina, prendete le armi!”
Capitolo XXVIII In cerca del dottore
10 Marzo 2020 Di Leave a Comment
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