Capitolo XXX Le rovine degli Khmer

Dieci giorni dopo il dottore, quasi perfettamente guarito da quella terribile malattia che fa annualmente grandi stragi nella Birmania e nel Siam, lasciava la capanna del capo degli Stienghi, dove era stato ricoverato.
Aveva ben sofferto il povero italiano!… Era rimasto ventiquattro ore sepolto fra le foglie secche della foresta, e quella cura strana lo aveva salvato da una morte più che certa.
Il caldo, sviluppato da quelle foglie in fermentazione, aveva arrestato di colpo la paralisi che lo aveva colpito alle gambe e che avrebbe dovuto salire fino al cuore.
Una cura strana questa se si vuole, ma che aveva avuto pieno effetto. Infatti dopo due settimane il dottore, ridotto nei primi giorni ad un’ombra di se stesso, poteva camminare senza fatica e riprendere il viaggio verso la città misteriosa del Re lebbroso, alla ricerca del famoso driving-hook.
Durante la malattia Len-Pra non aveva quasi mai abbandonato il capezzale del dottore, e forse la sua presenza aveva contribuito più che tutti i rimedi ad affrettare la guarigione.
“Dottore” disse un pomeriggio Lakon-tay entrando nella stanza abitata dal giovane italiano. “È giunta l’ora della partenza ed i cavalli sono pronti per fare una lunga galoppata. Domani giungeremo alla città del Re lebbroso, che è più vicina di quanto possiate immaginare. Credete di poter resistere?”
“Non mi sono mai sentito meglio d’oggi,” rispose Roberto. “Le mie gambe hanno riacquistato la loro agilità con quella cura indiavolata. Perbacco! Come cuocevo bene in quella buca! Non credevo di dover imparare un po’ di medicina da questi selvaggi.”
“Senza il capo degli Stienghi, non so, mio caro dottore, se io sarei riuscito a salvarvi. Dobbiamo essergli riconoscenti”
“Gli faremo un bel regalo.”
“Gli ho già dato un fucile e centinaia di tical e credo che non vi sia al mondo uomo più contento di lui. Possedere un’arma da fuoco era il sogno più ardente della sua vita.”
“Si accontenta facilmente quel brav’uomo! E Len dov’è?”
“Vi aspetta nella barca.”
“Quando è giunto il pilota?”
“Ieri sera coi cavalli e con i nostri bagagli.”
“Ecco un galantuomo come ve ne sono pochi. Un altro al suo posto ne avrebbe approfittato per fuggire.”
“A suo tempo ricompenseremo anche lui.”
“E dei miei rapitori, più nessuna notizia?”
“Sono scomparsi senza lasciare tracce visibili. Stamane sono tornati gli ultimi esploratori che il capo aveva mandato verso Ong-cor per interrogare le tribù di quei luoghi, ma nulla hanno potuto sapere sulla direzione presa dal puram.”
“Siete dunque profondamente convinto che sia stato Mien-Ming a farmi rapire?”
“Non ho più alcun dubbio: siete ormai un rivale troppo pericoloso, non è vero, dottore?” chiese il generale, guardandolo e sorridendo.
Il giovane arrossì come una fanciulla e rispose a mezza voce: “Grazie, generale: io l’amo.”
“E Len ricambia il vostro amore. Avrò così due figli invece di una. Amatela, Roberto, essa vi farà felice.”
“Sì, immensamente felice,” rispose il dottore.
“Orsù, partiamo: Len-Pra ci aspetta.”
Il capo li attendeva fuori, circondato dai più ragguardevoli personaggi della tribù, col fucile a bandoliera ed il corno pieno di polvere appeso alla cintura.
Mosse incontro al generale, dicendogli:
“Auguro a te e all’uomo bianco un viaggio felice, e non dimenticare che se hai bisogno di gente valorosa, gli Stienghi sono tuoi amici.
Ricordati della grande pagoda centrale, dalla cupola dorata e dalla statua gigantesca: solamente là, sotto la prima pietra potrai trovare l’uncino d’oro e in nessun altro luogo. Se non è stato già preso da altri, cosa che non credo, sono certo che tu lo troverai. Addio.”
I guerrieri scortarono il generale e l’uomo bianco fino al fiume, dove una barca li aspettava per condurli sulla riva opposta, e dove già si vedevano i cavalli tenuti per la cavezza da Feng e dal pilota.
Len-Pra era già nella piroga.
“Andiamo, dottore,” disse la fanciulla. “L’aria dei grandi boschi vi gioverà più di quella della vostra capanna.
“Lo credo anch’io, Len,” rispose Roberto, sedendole accanto.
La piroga si staccò dalla riva, accompagnata dalle grida festose dei guerrieri, attraversò rapidamente il fiume sotto la poderosa spinta di quattro vigorosi battellieri e s’arrestò sulla riva opposta, dove erano i cavalli.
Il pilota, nel vedere il dottore, strinse i denti e una fiamma cupa balenò nei suoi occhi.
“È uno stregone che possiede qualche amuleto,” mormorò con ira. “Quest’uomo rovinerà il mio mandarinato, ma io ora non esiterò come il puram a farlo fuori.”
Salirono a cavallo e si misero in marcia, dopo aver salutato un’ultima volta il capo degli Stienghi, che stava ritto sulla riva opposta, tenendo ben alto il fucile.
La foresta umida si prolungava anche al di là del fiume, ma era meno folta e l’aria vi poteva circolare meglio.
Era cosa prudente attraversarla al più presto. Dopo il tet, il dottore poteva essere colto dalla febbre dei boschi, non meno pericolosa e forse più difficile da guarire.
Perciò affrettarono il passo, desiderosi di raggiungere le belle pianure di Theuc-Thio al di là delle quali, in un’altra e foltissima boscaglia, s’innalzavano le imponenti rovine della vecchia Angkor e della città del Re lebbroso.
Stavano anche in guardia, temendo qualche nuovo tiro da parte dell’astioso e vendicativo puram.
Quantunque gli esploratori del capo Stiengo avessero percorso parecchi giorni di seguito quelle foreste, spingendosi molto lontano, e non avessero più trovato alcuna traccia dei rapitori, pure nessuno era tranquillo, e temevano qualche nuova imboscata.
I loro timori, almeno per quel giorno, non ebbero alcuna conferma. Quando alla sera, dopo aver percorso una quindicina di miglia, si arrestarono ai confini della foresta umida, nessun fatto era avvenuto che potesse aumentare le loro inquietudini.
“Che quella canaglia abbia rinunciato ai suoi progetti?” chiese il dottore a Lakon-tay, mentre Feng ed il pilota preparavano l’accampamento e Len-Pra s’occupava della cena.
“Può darsi,” rispose il guerriero, “tuttavia stento un po’ a crederlo.”
“Conosco troppo bene quell’avventuriero, come conosco la sua tenacia.”
“Che ci aspetti in qualche altro luogo?”
“E dove? Domani mattina noi giungeremo alla città del Re lebbroso, da cui non distiamo che una diecina di miglia.”
“È già così vicina?”
“Guardate laggiù, oltre quel corso d’acqua che taglia la pianura; non vedete delle case?”
“Sì.”
“Là si trova Theuc-Thio, una delle ultime borgate del Siam. E presso quella, un po’ a nord, si trovano le rovine della capitale del regno scomparso.”
“Che Mien-Ming ci aspetti là?”
“Se lo troviamo, gliela faremo pagare, dottore, a buoni colpi di carabina. Non ha con sé che sette od otto bricconi, che non resisteranno a lungo ai nostri tiri. Ai primi colpi scapperanno come lepri, ed è per questo che ho rifiutato una scorta che il capo Stiengo mi voleva offrire.”
“Sì, noi bastiamo per tenere testa a quei bricconi,” disse il dottore. “Anche se Mien-Ming ne avesse il doppio, non mi inquieterei. Sono i tradimenti che mi fanno paura.”
“Quando saremo dentro le mura della città, non avremo più nulla da temere. Vi sono dei palazzi in ottimo stato e noi sceglieremo il più solido. D’altronde la nostra permanenza sarà breve e appena avremo trovato il driving-hook torneremo a Bangkok a grandi marce. E se Mien-Ming oserà seguirci, avrà a che fare col re.”
“Siete dunque proprio sicuro che il driving-hook si trovi realmente nascosto in una di quelle pagode?”
“Ho avuto dal capo degli Stienghi una preziosa informazione.”
“Quale?” chiese vivamente il dottore.
“Egli mi ha narrato che nella sua gioventù, durante una visita fatta alla città del Re lebbroso per prendere il rame dorato che copre le statue di Budda, vide dinanzi ad una statua gigantesca, che sorge nel mezzo della pagoda centrale, una pietra, su cui era inciso un po’ rozzamente una specie d’uncino, simile a quello che usano i nostri mahut.
Quella pietra, di forma circolare, aveva un anello di rame nel mezzo, circondato da iscrizioni che non riuscì a decifrare, ma che gli parvero scritte in caratteri bali, l’antica scrittura usata dai Cambogiani. Io sono quindi convinto che il driving-hook si trovi sotto quella pietra, ed anche lo Stiengo è della mia idea.”
“Purché qualcuno non l’abbia preso prima di noi,” disse il dottore.
“Gli Stienghi, che qualche volta si spingono fino in quella città, non si occupano che del rame, metallo necessario alla fabbricazione delle loro armi bianche, e che è abbondantissimo nell’interno delle pagode. Io sono convinto, dottore, che noi domani avremo quel prezioso uncino.”
“E io sono pure convinto che fra qualche settimana gli elefanti bianchi accorreranno in gran numero a Bangkok, per farsi uncinare dal driving-hook del grande Budda,” rispose il dottore, ridendo. “Non è vero, generale?”
“Voi scherzate; che si mostrino o no, io tornerò egualmente trionfante e riacquisterò la popolarità, perduta per colpa di quella canaglia di Cambogiano.”
“Spero che lo farete per lo meno bastonare, se tornerà a Bangkok a rioccupare la sua carica.”
“Il re esigerà la sua testa, e nemmeno la posizione di gran giudice salverà Mien-Ming. Phra-Bard non scherza. Andiamo a cenare, dottore, poi corichiamoci. Dovete essere molto stanco.”
Si voltarono entrambi e videro a due passi il pilota, appoggiato ad una pianta, che ascoltava attentamente i loro discorsi.
“Che cosa fai tu qui?” gli chiese Lakon-tay.
“Signore,” rispose Kopom, cercando di giustificarsi. “Temo che passeremo una brutta notte.”
“Chi ci minaccia?”
“Ho udito poco fa l’urlo d’una tigre.”
“Forse che manchiamo di carabine e di munizioni?” disse il dottore
“Tranquillizzati: sai che non siamo tipi da preoccuparci per la vicinanza d’una belva.”
“È vero,” borbottò il Cambogiano, facendo una smorfia. “Sono uno stupido ad impressionarmi.”
Non era la tigre che lo impressionava: erano i discorsi uditi poco prima.
Infatti Len-Pra e Feng, interrogati, affermarono di non aver udito alcun urlo.
“Deve essersi ingannato,” concluse il dottore. “D’altronde se quella tigre oserà mostrarsi, la saluteremo con una scarica che le leverà per sempre la voglia d’importunare dei pacifici viaggiatori.”
Cenarono alla lesta, poi si coricarono, mentre Feng faceva la guardia. La notte non fu turbata da alcun spiacevole avvenimento e la tigre, inventata dal pilota per stornare qualsiasi sospetto negli animi del dottore e del generale, non si fece vedere e nemmeno udire.
All’indomani, dopo il tè, ripartirono al trotto, ansiosi di arrivare dentro la famosa città del Re lebbroso e di cominciare subito le ricerche.
Attraversarono le ultime pianure, girando al largo di alcune borgatelle, poiché non avevano alcun interesse a fermarsi in quei luoghi, e alle sette, dopo aver avvistato in lontananza Angkor, l’attuale capitale della provincia omonima, che sorge su una landa sabbiosa e si estende fino ai primi contrafforti della catena dei monti Sowrais, si cacciarono nell’immensa foresta, che da secoli e secoli copre le rovine dell’antico regno degli Khmer.
Cominciarono ad apparire i primi ruderi delle immense città, che un tempo sorgevano in quella regione ed erano state così floride e popolose. In mezzo alle macchie, fra alberi, rotang, bambù ed erbe altissime, di tanto in tanto apparivano pagode e archi trionfali diroccati, pezzi di bastioni ormai crollanti, torri tronche, acquedotti sfasciati che attestavano la civiltà e la ricchezza di quel regno, scomparso così misteriosamente nella notte dei tempi.
“Quante rovine!” esclamò il dottore. “Si direbbe che un terremoto tremendo abbia d’un sol colpo distrutto tutte le città del regno degli Khmer.”
“Può darsi che siano stati i fuochi centrali della terra a far crollare ogni cosa,” rispose il generale. “Voi sapete che il nostro suolo è sempre in convulsione, al pari di quello birmano.”
“Qui vi sono rovine di città immense.”
“E ben altre ve ne sono più a sud, in prossimità del lago. A tre giornate da Angkor, l’attuale capitale di questo distretto, io ho visitato gli avanzi di tre altre città che un tempo devono essere state vastissime e ho anche visto un tempio grandioso, sostenuto da un numero infinito di colonne e sormontato da cinque torri. Una vera meraviglia.”9
“Allora anche nella città del Re lebbroso troveremo dei monumenti imponenti?”
“Meravigliosi, ve lo assicuro, dottore.”
“Siamo ancora lontani?”
“Tre o quattro miglia, così mi ha detto Feng.”
“Lo Stiengo dunque l’ha già visitata?”
“L’ha vista soltanto da lontano. Al galoppo, dottore! Forse fra poche ore noi avremo in nostra mano il driving-hook.”
La foresta diventava sempre più folta, ma le rovine aumentavano ad ogni passo.
Vi erano delle vere montagne di rottami, ormai coperti dalle piante parassite e dai cespugli, e nascosti in mezzo alle macchie più folte. La vegetazione ormai tutto aveva coperto da secoli e secoli.
Man mano che il drappello s’avvicinava alla città del Re lebbroso, raddoppiava le precauzioni, temendo sempre una sorpresa da parte di Mien-Ming e della sua banda. Avanzavano con estrema prudenza, scrutando attentamente le macchie e tenendo le carabine già armate dinanzi alla sella.
Len-Pra era stata messa nel mezzo del drappello per tenerla al riparo da una scarica improvvisa, ed il pilota era stato incaricato di aprire la marcia, avendo egli detto di conoscere la via. Feng, invece, si era messo alla retroguardia, coi cavalli di ricambio che portavano i viveri, le munizioni e le tende.
Tuttavia pareva che l’immensa foresta non fosse abitata da alcun essere umano. Non si vedeva che qualche cervo fuggire precipitosamente attraverso i cespugli; e qualche cinghiale.
Verso mezzodì il drappello sbucò improvvisamente su una vasta pianura, dove si alzavano delle mura altissime, difese da torri imponenti, dietro le quali giganteggiavano pagode colossali e costruzioni grandiose.
“La città del Re lebbroso!” gridò Feng. “Padrone, il driving-hook è ormai nostro.”
“Mano alla carabina,” rispose il generale, “e facciamo la nostra entrata nella capitale degli Khmer.”

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