Capitolo II – L’almea

Le tenebre allora erano calate. Al nord, sulla cima delle creste del monte Auli, appariva la luna la quale vedevasi spandere un incerto chiarore al di sopra delle oscure boscaglie del Gemanje, e in cielo salivano le stelle che riflettevansi vagamente sull’azzurra e placida corrente del Bahr-el-Abiad. Alcuni Sennaresi ed alcuni Arabi gironzavano ancora o sedevano in mezzo alle vie o a ridosso ai muricciuoli delle capanne, fumando nel scibouk o nei narghilèh.

I due ufficiali scesero verso la riva presso la quale galeggiava una dahabiad a sei remi montata da alcuni barcaiuoli. Vi entrarono e si fecero traghettare alla sponda opposta, sbarcando ai piedi delle foreste, i cui rami giganteschi e fronzuti si curvavano graziosamente sulle acque.

— Dove sono i cammelli? chiese Notis.

— A cinquecento passi da qui, rispose Abd-el-Kerim, distrattamente.

— Hai preso con te il mio schiavo Takir?

— No, l’ho lasciato al campo onde preparasse la tua tenda.

— Allora chi li guarda? Se tu gli hai lasciati soli non so se li troveremo ancora. Gli Arabi, amico mio, non sono fiori di galantuomini.

— Non aver timori, Notis. Gli ho affidati ad un sudanese di mia conoscenza.

S’arrampicarono sulla riva che veniva giù quasi a picco, tutta cosparsa di canneti e di enormi radici che s’intrecciavano confusamente le une colle altre e s’internarono sotto le oscure vôlte della foresta. Notis prese un sentieruzzo appena appena visibile, ed Abd-el-Kerim gli si mise dietro in silenzio e colla fronte aggrottata, come se un grave pensiero lo tormentasse.

Quanto il greco procedeva con passo spedito, altrettanto l’arabo camminava lento e come svogliato. Anzi quest’ultimo di tratto in tratto si fermava, voltavasi indietro e mirava con occhio triste e cupo le rive del fiume e i dintorni, tendendo attentamente l’orecchio.

Dopo una ventina di minuti, il greco scorse, semituffato fra le piante, una zeribak, specie di recinto formato da pali nei quali si radunano usualmente gli armenti per proteggerli contro gli assalti delle bestie feroci. Egli si arrestò, armando per precauzione il suo revolver.

— Olà, Abd-el-Kerim, dove siamo noi? chiese egli.

L’arabo che era lontano, non l’udì e per conseguenza non rispose. Notis si volse indietro e lo vide fermo in mezzo al sentiero che guardava fissamente le rive del Bahr-el-Abiad.

— Che può avere Abd-el-Kerim? mormorò egli. Poco fa, quando gli parlai di mia sorella era diventato gaio e pareva felice. Come ora è diventato triste? Si direbbe che ha lasciato qualche cosa a Machmudiech… si direbbe che s’allontana a malincuore.

Egli tornò indietro in punta di piedi e osservò minutamente il compagno. S’accorse che aveva gli occhi rivolti al villaggio e precisamente verso il caffè. Fece un gesto di sorpresa e fors’anco d’impazienza.

— Oh!… esclamò egli.

Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto.

— Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo.

— Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità.

— Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari.

Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente.

— Che hai Abd-el-Kerim?

L’arabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda.

— Tu guardavi fisso fisso Machmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè?

— Bah! per curiosità.

— Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio?

— Perchè, e l’arabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto.

— Non so, mi pareva…

— Non ho alcuna cosa che m’interessi a Machmudiech. Tiriamo innanzi, Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a Hossanieh.

Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano.

Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e d’un tarabisc rosso sul capo.

— I mahari? chiese brevemente l’ufficiale.

— Sono pronti.

Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata all’anello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. S’accontentano di un nulla, d’un pezzo di pane, d’un pugno d’orzo o di datteri o di un fastello d’erbe secche e spinose, e son felici quando l’arabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici d’una parola affettuosa, d’una semplice carezza.

Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava nel mezzo e fornita dinanzi e di dietro di un pezzo di legno rotondo, posto orizzontalmente, che serve di appoggio al cavaliere, e appendendo ai loro fianchi i fucili remingtons, le borse di cuoio e le otri contenenti il cibo o l’acqua, viveri indispensabili in Africa, dove le città sono rarissime e i villaggi assai scarsi.

Nel mentre che il greco esaminava le cinghie della sua cavalcatura, Abd-el-Kerim con un cenno impercettibile chiamava a sè il sudanese,

— Hai veduto passare alcuno? chiese rapidamente e sotto voce.

— Sì, disse il sudanese.

— Chi?

— Due persone su di un mahari dal mantello fosco.

— Erano?…

— L’ignoro, ma una pareami una donna.

Abd-el-Kerim sussultò. La sua faccia, che poco prima era tetra, s’illuminò di un raggio di gioia. Con un gesto congedò il sudanese.

— In sella Notis, diss’egli.

I due ufficiali fecero inginocchiare i mahari emettendo un semplice khh! khh! sospirato e s’arrampicarono sulle gobbe sedendosi colle gambe incrociate.

— Allàh vi guardi, disse il sudanese,

— Ih! ih! gridò Notis.

I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava all’ovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere l’equilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.

L’oscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che s’attortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che s’arrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.

I mahari eccitati dalla correggia dei cavalieri, che serve nel medesimo tempo di frusta, in meno di quindici minuti attraversarono la foresta, la quale stendesi in lunghezza, sì a destra che a sinistra del Bahr-el-Abiad, da Chartum fino ad Machadat Abu Zet, su due miglia o poco più di larghezza. Sbucati nelle grandi e aride pianure di Gemaije, animate solo da qualche gruppo di palme, da qualche acacia tisica e da miserabili tugul o capanne, allungarono il passo filando come giganteschi e silenziosi fantasmi verso gli ondulati terreni del sud, in direzione d’Hossanieh.

Notis che galoppava a pochi passi di distanza da Abd-el-Kerim, s’avvide subito che questi dava segni strani d’inquietudine della quale non sapeva ancora indovinare la cagione. Lo vedeva spesso rizzarsi in sella come volesse abbracciare maggiore orizzonte, spingere lo sguardo a destra, a manca e dinanzi, e talvolta fare un gesto quasi di scoraggiamento e di stizza. Più volte lo vide portare ambe le mani agli orecchi e piegarsi verso terra come uno che cerchi raccogliere qualche lontano rumore.

— Che mai può avere? andava chiedendosi il greco tormentando la correggia del mahari e figgendo sempre gli occhi addosso al compagno. Si vede che ha qualcosa che lo preoccupa ma cerca di nascondermelo. Quegli occhi fissi sul villaggio, anzi sul caffè, proprio in quel medesimo luogo ove danzò…. Potrebbe essere vero?…

Un terribile sospetto balenò nella mente di lui, sospetto che gli fe’ gelare il sangue nelle vene e montare, nel medesimo tempo, una fiamma in viso. Un truce e sinistro lampo animò i suoi occhi che s’accesero come due carboni.

— Ah!… mormorò egli.

Trasse dalla sua borsa un pizzico di tabacco, lo arrotolò in un fogliolino di carta, ne formò una sigaretta che accese, malgrado la rapidità vertiginosa del mahari, mandò in aria tre o quattro boccate di fumo, e volgendosi verso Abd-el-Kerim:

— A che pensi cognato mio? gli chiese, affettando la massima noncuranza.

— A mille cose, rispose l’arabo.

— Tu pensi a mia sorella Elenka, Abd-el-Kerim, te lo dirò io.

L’arabo stette un momento muto, come non avesse capito.

— Non puoi ingannarti, rispose di poi. La fiamma che nasce nel cuore, non si spegne neanche in sogno.

— Ed io sai a chi penso?

— Leggere il pensiero dell’uomo non è dato che ad Allah e al suo profeta.

— Penso a quell’adorabile almea che vidi danzare a Machmudiech.

Sulla bruna pelle dell’arabo passò un fremito.

— A Fathma, articolò sordamente egli.

— Sì, a Fathma. Come la trovasti tu?

— Mi pareva avere dinanzi…

Voleva aggiungere una uri di Maometto, ma le parole gli morirono sulle labbra.

— Una bella donna, vuoi dire.

— Presso a poco. E come mai tu pensi a lei?

— Perchè?… Credo di non dir troppo, se ti confesso che i suoi occhi mi hanno affascinato e che la sua voce mi toccò il cuore.

Se fosse stato giorno Notis avrebbe potuto vedere le labbra dell’arabo contrarsi e la sua faccia diventare cinerea.

— Ah!… si sforzò di dire Abd-el-Kerim.

«Quella creatura ti ha morso il cuore?

— Di’ invece che vi ha gettato una scintilla dentro.

— E questa scintilla sarebbe?

— D’amore.

L’arabo diede un sì violento strappo alla correggia che il mahari fu forzato ad alzare la testa. Notis se ne accorse.

— Che diavolo hai Abd-el-Kerim?

— Nulla, ho sostenuto il cammello che stava per inciampare contro un sasso.

— Uh! fe’ il greco. Non so come un sasso possa trovarsi fra questi terreni.

La conversazione finì li. I due mahari che avevano per un istante rallentata la corsa, la ripresero più velocemente salendo e discendendo le colline cosparse d’erbe spinose chiamate dagli indigeni alfèh, arse dai cocenti raggi del sole equatoriale

La pianura, rotta qua e là da radi ed intristiti palmizi e da qualche torrente pantanoso, andava allora allargandosi fiancheggiata all’est dalle selve che seguono il Bahr-el-Abiad nel tortuoso suo corso e all’ovest da piccole catene di montagne, dietro le quali giganteggiavano i monti Arab, Mussa, Scemela e Mantara.

A mezza notte avevano già percorso più di mezza via, e stavano per rallentare la corsa per dare un po’ di riposo ai due animali, quando in lontananza scoppiò improvvisamente una detonazione.

Abd-el-Kerim a quello scoppio sussultò.

— Hai udito, Notis? chiese egli, staccando dalla sella il remington.

— Distintamente, amico mio, rispose il greco senza scomporsi.

— Può essere qualcuno che corre un pericolo.

— E può essere stato anche un cacciatore.

— È impossibile.

— E perchè di grazia? M’hanno detto che in queste contrade amano cacciare il leone e tu sai meglio di me che quest’animale non si caccia che di notte.

— Tuttavia…

— Aggiungi che siamo in un paese sollevato a rivolta e che le spie dei ribelli non di rado vengono a ronzare attorno agli accampamenti egiziani. Lascia Abd-el-Kerim, che colui che tirò la moschettata si appicchi.

L’arabo non rispose, però eccitò il mahari e si sollevò maggiormente guardando innanzi a sè. Fu appunto elevandosi che scorse un’ombra giallastra galoppare furiosamente per la pianura.

— Oh! oh! Sta in guardia, Notis, che abbiamo un leone vicino, diss’egli.

— Quando è così, credo che faremo bene ad armare i remingtons. Spero che il signore del deserto non ardirà d’assalirci. Eh!…

Una seconda detonazione risuonò in lontananza, poi una terza un momento dopo.

— Ah! Notis, non è un cacciatore! esclamò Abd-el-Kerim. Te lo dico io.

— Hai delle idee strane, quest’oggi. Ti commuovi per due o tre fucilate!

— Abbiamo dinanzi a noi un mahari, Notis.

— Ebbene, e che vuol dir questo?

— Non sai… lo monta una donna, un uri…

— Chi? Chi?…

— È Fathma!

— Il mio amore! Vola, Abd-el-Kerim! Accorriamo!

La faccia dell’arabo si sconvolse trucemente a quelle esclamazioni, però non disse parola alcuna, Montò il remington e sferzò il cammello curvandosi in sella.

I due mahari partirono come il vento e salirono una collina che impediva di scorgere la sottostante pianura. Un quarto colpo di fucile ruppe il silenzio della notte e così vicino, da credere che colui che l’aveva esploso fosse appena a un cinquecento metri dalle alture.

Quasi subito s’udì un terribile grido:

— Aiuto!… Aiuto!…

— Ah! qual voce! esclamò Abd-el-Kerim, Corri Notis, corri!

Giunsero sulla cima della collina, e di là videro rovesciati in mezzo alla pianura un cammello e un uomo che si dibattevano disperatamente fra le sabbie, e a pochi passi da loro una donna, la quale mirava un gigantesco leone che volteggiavale vertiginosamente attorno con salti mostruosi.

— Notis!… È Fathma! gridò Abd-el-Kerim.

Con un salto da tigre si precipitò di sella, s’inginocchiò e puntò il remington. Il colpo partì. Il leone ferito alla testa fece un balzo di quindici piedi, gettando uno spaventevole ruggito.

S’arrestò colla criniera irta che lo faceva parere due volte più grosso. Sfuggì alle moschettate di Notis e di Fathma e s’avventò contro l’arabo che aveva tratto l’jatagan.

L’urto fu terribile. Uomo e leone caddero al suolo, l’uno gettando urla selvaggie e l’altro ruggendo orrendamente.

Notis volò coraggiosamente in aiuto di Abd-el-Kerim, ma prima che potesse giungervi vicino, questi erasi già sollevato coll’jatagan lordo di sangue fino all’impugnatura, calmo, sorridente, e con un piede sul corpo del leone che era morto sul colpo.

— Sei ferito?… Tu mi fai paura!

— Non aver timore, Notis, disse Abd-el-Kerim. Il leone è morto senza che abbia avuto il tempo di toccarmi le carni.

— Tu sei stato pazzo assaltarlo coll’jatagan.

— In questa notte e in questo posto avrei lottato con dieci leoni.

Afferrò il suo mahari per la correggia e si diresse a rapidi passi verso Fathma che si era inginocchiata accanto all’uomo. Notis lo seguì.

— Es-selàm-alekom (la salute sia con te) disse l’arabo all’almea.

Fathma alzò il capo, lo guardò per alcuni istanti con quei due occhi che fiammeggiavano, si rizzò in piedi e tendendo la sua piccola mano verso di lui.

— Sei un eroe! gli disse.

— Grazie, Fathma.

L’almea gli si avvicinò ancor più.

— Ah! tu sei quello che vidi a Machmudiech.

— Non t’inganni. Ecco qui il mio compagno.

— Allàh vi compensi del bene che mi avete fatto. Senza di voi sarei a quest’ora morta.

— E della tua morte non me ne sarei giammai consolato, adorabile creatura, disse galantemente Notis.

L’almea crollò il capo e un sorriso sfiorò le sue labbra, ma parve un sorriso amaro, forzato e forse anche ironico.

— Dove ti rechi? le chiese l’arabo.

— Al campo d’Hossanieh.

— Come noi. Mi pare che il tuo mahari e il tuo schiavo sieno morti,

— Il leone li ha uccisi.

— Vuoi salire sul mio mahari? È un animale forte e le mie braccia sono capaci di sostenere il leggero tuo corpo. Vi starai come in un angareb.

— E perchè no sul mio? domandò Notis.

— L’eroe è sempre più forte, disse l’almea.

Il greco aggrottò la fronte e strinse le pugna con dispetto.

— Ah! mormorò egli. Eroe!… Lo vedremo, Abd-el-Kerim!

L’arabo salì sul mahari, allungò le braccia all’almea e la trasse in groppa, facendola sedere sulle proprie ginocchia e circondandola delicatamente colle braccia. Notis da canto suo s’accomodò sulla sella del suo animale.

— Va, mio nobile amico, disse Abd-el-Kerim, prendendo la correggia a facendola fischiare nell’aria. Tu sei abbastanza forte per portarci entrambi.

I mahari ripigliarono la disordinata loro corsa in mezzo alla pianura, divorando la via con crescente rapidità.

Fathma, abbandonata fra le braccia dell’arabo che talvolta se l’accostava al petto in modo da sentire i battiti del suo picciol cuore, non diceva parola. Solo di tratto in tratto girava la testa verso colui che la reggeva, figgeva i suoi neri e grandi occhi sul di lui volto, e le sue labbra coralline aprivansi a un sorriso affascinante.

Abd-el-Kerim, nel sentirla appoggiata così mollemente sulle ginocchia, nel sentire la lunga e nera capigliatura sferzargli il volto, e talvolta circondare e arrestarsi intorno al suo collo, nel respirare l’ardente alito di lei, nel guardarla, provava delle emozioni così strane, così voluttuose, così dolci, che parevagli talvolta di sognare. Il sangue gli montava alla testa e gli circolava più rapido nelle vene, il cuore battevagli febbrilmente, i suoi occhi si fissarono involontariamente su lei, e, per quanto facesse, non riusciva a staccarneli.

In mezzo a quelle emozioni che a poco a poco facevansi più forti, l’immagine abbagliante della fiera Elenka s’oscurava, sfumava, scompariva. Persino l’immagine di Notis s’abbuiava e cancellavasi, e a segno che l’arabo credevasi di essere solo con Fathma a percorrere la pianura.

— Fathma, disse d’un tratto egli, con una voce nella quale suonava un accento infinitamente accarezzevole.

L’almea, nell’udirsi chiamare, si scosse e volse il capo verso di lui.

— Fathma, dove andrai quando saremo a Hossanieh?

— Perchè? chiese ella.

— Perchè?… Ma…

— Ti interesserebbe forse il saperlo?

L’arabo sussultò e ammutolì.

— Rimarrò in Hossanieh.

Abd-el-Kerim la trasse vivamente sul petto. Egli si chinò verso di lei, come volesse dirle qualche cosa, ma non ne ebbe il tempo.

— Abd-el-Kerim! gridò Notis in quell’istante.

L’arabo tremò e si volse indietro come se una vipera l’avesse morso.

— Siamo in vista del campo!

Un profondo sospiro uscì dalle sue labbra.

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