Capitolo III – I due rivali

Il campo egiziano era piantato in una pianura aridissima, solcata però qua e là da piccoli ruscelli e sparsa di antichi bir o pozzi, a pochi passi dalle ultime capanne o tugul del villaggio d’Hossanieh. Si componeva di un trecento tende, disposte su tre ordini, che si piegavano cingendo la gran tenda del pascià sulla quale sventolava la bandiera egiziana, e quelle inferiori ma non meno elevate, degli ufficiali.

Ottocento uomini, la maggior parte dei quali nubiani e sennaresi, con pochi pezzi d’artiglieria e una compagnia di basci-bozuk a cavallo, erano tutti quelli che occupavano il campo, sotto il comando di Dhafar pascia, uomo agguerrito ed intrepido che conosceva a menadito e l’Hossanieh e il Sudan, e che si era proposto di raggiungere, nonostante che il paese fosse battuto da numerose orde del Mahdi, l’esercito di Hicks e di Aladin pascià che operava verso El-Obeid, la capitale del Kordofan.

I due mahari, appena che ebbero fiutato la vicinanza dell’accampamento, s’affrettarono ad allungare il passo, sicché pochi minuti dopo arrivarono alle prime sentinelle, le quali conosciuto in coloro che li montavano due ufficiali, li lasciarono passare senza dare l’allerta né chiedere chi fossero.

Abd-el-Kerim s’arrestò dinanzi alle ultime capanne d’Hossanieh.

— Dove vai, Fathma? chiese egli all’almea.

— A quella casipola che vedi laggiù sull’orlo di quel campo di durah, rispose Fathma con voce dolce. Non occorre che tu mi accompagni, il leone che uccise il povero Daùd non mi minaccia più.

Notis era disceso da sella e si era avvicinato al mahari dell’arabo. Egli tese ambe le mani, sulle quali s’appoggiarono i piccoli piedi dell’almea, tanto piccoli da muovere ad invidia quelli delle chinesi, e la depose a terra.

— Ci rivedremo ancora, adorabile creatura? domandò il greco.

Un sorriso leggiadro sfiorò le labbra di Fathma.

— Se Allàh lo vorrà, rispose ella.

— Proverei gran dispiacere se tu avessi a scomparire per sempre.

— Ah!…

— Sei bella, Fathma.

— Non te lo domando.

— Sei più bella delle urì del paradiso. Ed io…

L’almea gli lanciò un’occhiata fulminea e aggrottò la fronte.

— Notis, disse l’arabo gravemente.

Il greco, che stava allungando le braccia verso l’araba, si arrestò.

— Allàh ybàrek fik, (Iddio ti benedica) disse Fathma, alzando le mani verso Abd-el-Kerim.

Si gettò la carabina ad armacollo, s’avvolse nel suo bianco taub e s’allontanò con passo rapido, con andatura fiera e maestosa facendo tintinnare graziosamente le numerose anella che ornavano le sue braccia.

— Per Allàh! esclamò Notis quasi con collera. Non ho mai trovato in vita mia un’almea simile. Da quando una donna che va a danzare pegli accampamenti, torce il viso per una parola melata?

— Ti sorprende forse? chiese Abd-el-Kerim, con un tono di voce sotto il quale sentivasi una leggiera vibrazione ironica.

— E sfido io!

— Fathma, non è un’almea comune.

— E nondimeno s’abbandonò fra le tue braccia. Ah! Abd-el-Kerim tu sei fortunato.

— Perchè?

— Avrei pagato mille piastre per sentirmela pur io adagiata sulle mie ginocchia, colla sua testolina appoggiata sul mio petto.

— Sei pazzo, Notis. Saresti per caso innamorato morto di lei?

— Non ti pare che sia bella?

— Più bella di tutte le donne che vidi da venticinque anni a oggi.

— Anche più bella di mia sorella Elenka?…

L’arabo preso alla sprovveduta si turbò e non rispose.

— Ah! fe’ il greco ironicamente. Elenka adunque la trovi inferiore a quell’almea, tu, l’innamorato, il fidanzato di mia sorella.

— Tu discorri senza riflettere, disse Abd-el-Kerim, rimettendosi prontamente, come vuoi che io, che adoro Elenka, trovi che un’altra donna, che non mi interessa nè punto nè poco, la sorpassi in bellezza! Hai torto di dubitare di me.

— Sono pazzo, amico mio, lo so, a dubitare di te. Orsù, riparliamo di Fathma.

— Come vuoi Notis.

— Sai innanzi a tutto chi è e da dove venga?

— L’ignoro. So che chiamasi Fathma e nulla di più. E perchè queste domande.

— Perchè sono innamorato cotto di quella bella danzatrice.

— Di già? Corri come un mahari dei più rapidi, disse l’arabo sforzandosi a far parer calma la sua voce che invece tremavagli.

— Sento qui, nel cuore, una fiamma che comincia ad ardere. È fiamma d’amore, e temo che prenderà fra non molto proporzioni gigantesche.

L’arabo alzò le spalle e cercò di sorridere, ma senza riuscirvi.

— Se non vi eri tu, ti giuro, Abd-el-Kerim, che avrei stampato sulle sue piccole labbra un gran bacio. Ma la ritroverò e sola.

Una fiamma balenò negli occhi di Abd-el-Kerim, ma una fiamma d’ira e di sdegno. La sua fronte s’increspò e le sue mani si posarono sui calci del revolver.

— Sta in guardia, Notis! diss’egli con accento cupo.

— Credi che io abbia paura di una donna?

— Chi sa! Potrebbe darsi che su quella donna brillasse una scimitarra!

Il greco rimase di stucco, guardandolo cogli occhi stravolti. Mai aveva udito parlare Abd-el-Kerim con quel tono cupo e minaccioso e in quel modo. Credette di aver compreso male.

— Una scimitarra, hai tu detto? chiese egli.

— Sì, e la scimitarra di un uomo che ha il braccio di ferro.

— Avrei forse un rivale? Abd-el-Kerim, tu sai qualche cosa e cerchi nascondermelo.

— Non so nulla.

— Tieni a mente che io amo di già Fathma come tu ami Elenka, e forse io l’amo più ancora di te.

— Zitto, Notis, non parliamone più. È tardi, e io ho sonno.

— Eh! per Allàh! Vorrai bene dirmi qualche cosa prima.

— Non mi caverai una parola di bocca nemmeno colle tenaglie. Buona notte, amico mio. Vado a dormire nella mia tenda e tu va nella tua che trovasi a pochi passi da quella del pascià.

L’arabo non aggiunse una sillaba di più e lasciò lì Notis, dileguandosi fra le tenebre col suo mahari.

— Un rivale! esclamò il greco con mal repressa ira. E chi potrebbe mai essere?

Rimase un istante lì, pensieroso, cupo, tormentando l’impugnatura della scimitarra, poi si cacciò in mezzo alle tende e ai fasci dei moschetti, traendosi dietro il suo animale. Dopo dieci minuti s’arrestava dinanzi alla sua tenda, sulla cui entrata russava un nubiano colossale del più bel nero.

Lo svegliò, gli affidò il mahari e si gettò sulla coperta, dopo aver acceso un sigaretto. Il suo pensiero volò subito dietro all’almea.

— Ho un bel dire che quell’adorabile creatura diverrà mia, mormorò egli, ma ho certi timori dei quali, mi pare che io dovrei tener conto. Non so, ma Abd-el-Kerim mi ha parlato in una certa maniera, con un tono così grave, così strano che mi dà da pensare seriamente. Se non fossi sicuro che egli ama alla pazzia Elenka, quasi, quasi, direi che egli parlava con rabbia, che parlava come fosse mio rivale.

«Come mai egli mi ha parlato di una scimitarra che brilla su Fathma? Ciò vuol dire che vi è qualcuno che veglia sull’almea, è chiaro, chiarissimo. E chi potrebbe mai essere quest’uomo? Che abbia egli spifferato questa minaccia per indurmi a starmene lontano da quella donna?

«Se è vero questo, hai sbagliato Abd-el-Kerim. Gli occhi di Fathma si sono impressi nel mio cuore in modo tale, che nessun altro amore sarebbe capace di velarli. Vi è una fiamma che arde nel mio petto, fiamma appena accesa e che è di già immane!…

Egli si levò a sedere e guardò attorno. Gli parve vedere ovunque degli occhi fiammeggianti che lo fissassero: gli occhi dell’almea. Scattò in piedi come spinto da una molla, staccando la sua carabina.

— Egli mi ha parlato di un rivale, diss’egli con ira. Andrò ad assicurarmene e guai a lui, se lo trovo ronzare nei dintorni della casupola!…

Saltò via il nubiano che era tornato ad addormentarsi, e uscì con passo silenzioso. Si guardò attorno sospettosamente, ma non vide che i soldati di guardia che vigilavano accanto ai fuochi. Tese gli orecchi, ma non udì che il fragoroso russar dei negri che dormivano sotto le tende e il sibilo del vento che agitava gli stendardi infioccati.

— Tutti dormono, mormorò egli. A noi due, o mio incognito rivale!

Attraversò il campo e s’arrestò alle prime capanne di Hossanieh. Si gettò a terra per non esser visto da alcuno, e si mise a strisciare lentamente, senza fare più rumore di un serpente, tenendosi nascosto dietro le macchie di mimose. Ben presto si trovò nei pressi della casupola di Fathma, un’abitazione col tetto di paglia e le pareti di legno fiancheggiata da una rekùba, sorta di tettoia sostenuta da pali, sotto la quale si riposano ordinariamente i cammelli ed i viaggiatori.

Si alzò e guardò attentamente dinanzi, di dietro, a dritta e a manca, ma non vide anima viva ronzare all’intorno. Alzò gli occhi verso le finestre, ma le vide oscure e socchiuse. Respirò.

— Che mi abbia ingannato? E con quale scopo? mormorò.

Fece il giro della casupola per due o tre volte, e stava per allontanarsi, quando vide un’ombra che moveva verso quella volta. Impallidì e afferrò rapidamente la carabina.

— Il rivale! esclamò egli con voce sorda.

Esitò, poi si cacciò sotto la rekùba e guadagnò, senz’essere stato scoperto, una macchia di leguminose arborescenti nascondendovisi nel mezzo.

— Chi sei? chi sei tu, che vieni a disputarmela? si chiese egli.

L’individuo che veniva innanzi in punta di piedi, e spesso girava la testa attorno come un uomo che teme di essere scoperto, era alto dal portamento svelto, vestito da ufficiale, ma con una bianca farda avvolta attorno il petto. Una carabina pendevagli da una spalla e portava in una mano un oggetto allungato, che Notis non giunse bene a distinguere.

Egli si fermò dinanzi la rekùba e stette lì immobile, guardando le finestre della casupola, poi girò e rigirò parecchie volte attorno, tornò a fermarsi, prese l’oggetto allungato che era una rabâda, sorta di chitarra e trasse alcuni suoni melanconici, flessibili.

— Ah! esclamò Notis, sardonicamente. Si vede che il mio rivale non manca di buon gusto. Per Allàh! Egli vuol fare una serenata sotto le finestre della bella con la chitarra. Guardati! Potrebbe darsi che io irrigidissi le tue dita con una palla del mio remington.

In quell’istante quell’uomo si pose a cantare. Alla prima sillaba Notis fe’ un balzo guardando trucemente il cantore.

— Sogno io forse? si chiese egli.

La canzone continuò, cadenzata, dolce. Notis tremò tutto e sentì i capelli rizzarglisi sulla fronte.

— Abd-el-Kerim! Abd-el-Kerim!…

La voce gli si soffocò. Una grossa nube gli passò dinanzi agli occhi.

— Ah! traditore!…

Alzò il remington, l’armò e mirò Abd-el-Kerim che continuava a cantare frammischiando alla sua canzone il nome di Fathma. Dopo qualche secondo l’abbassò.

— E mia sorella? E la povera Elenka? E la sua fidanzata?… Ah! miserabile!… Eri tu quel rivale di cui mi parlavi! Ma da quando?… Come?… Come è possibile che egli abbia obbliata mia sorella?… Tuoni di Dio!…

Per la seconda volta alzò il remington e per la seconda volta l’abbassò.

Un freddo sudore scorrevagli abbondantemente per la fronte e un tremore fortissimo agitava le sue membra. Impeti di ira lo assalivano e sentivasi spinto da una pazza voglia di fare, con una palla di fucile, scoppiare la testa all’arabo. Tuttavia non si sentì capace di puntare per la terza volta il remington e d’assassinare il traditore.

Alzò la testa come se avesse preso una pronta risoluzione, e si mise a strisciare, a carpone, fino a che ebbe raggiunta una piantagione di durah. Di là camminò sempre senza produrre il menomo rumore, fino sulla via che menava agli avamposti del campo, imboscandosi dietro a una macchia d’alte erbe spinose.

— Passerai di qui, Abd-el-Kerim, disse con accento minaccioso. Ti affronterò.

L’arabo cantava sempre, con maggior dolcezza, con tono più malinconico, e ogni volta che pronunciava il nome dell’almea, il greco sentivasi il sangue accendere e il cuore battere più precipitosamente. Tutti i colori dell’arcobaleno passavano uno per uno sulla sua faccia tetra.

Cominciava all’oriente a biancheggiare, quando Abd-el-Kerim si tacque. Notis lo vide aggirarsi per qualche tratto attorno alla casupola, colla testa sempre alzata verso le finestre che si tenevano ostinatamente chiuse, poi raccogliere la carabina e prendere la via del campo. Un beffardo sogghigno sfiorò le sue labbra collericamente strette.

L’arabo s’avvicinava a rapidi passi e pareva pensieroso e scoraggiato. Quando fu a pochi metri di distanza, Notis balzò fuori e gli si presentò dinanzi come una spaventevole apparizione.

— Alto là, Abd-el-Kerim!… gl’intimò brutalmente.

L’arabo nel vederselo lì, colla testa alta, in una posa minacciosa, fece un salto indietro portando involontariamente la mano sull’impugnatura dell’jatagan. Impallidì orribilmente e fece un gesto di sorpresa e di spavento.

— Notis! esclamò egli, con un fil di voce.

— Sì, proprio Notis, il fratello di Elenka, della tua fidanzata, rispose il greco con ira mal repressa.

Essi stettero a guardarsi in silenzio, ma cogli sguardi provocanti.

— Che facevi, Abd-el-Kerim, sotto le finestre di quella casupola? chiese Notis, ironicamente.

— Avevo la febbre indosso e sono andato a passeggiare per le vie d’Hossanieh.

— Tu menti, Abd-el-Kerim!

L’arabo si turbò e tornò ad impallidire, ma più per la collera che per la paura.

— Te lo dirò io, giacchè tu nol sai, che facevi, disse Notis, alzando la voce. Tu suonavi la rabâda e cantavi una canzone d’amore.

— E che ci trovi di strano?

— Ma disgraziato, non sapevi adunque che tu cantavi sotto le finestre di Fathma?

— Ebbene?… chiese Abd-el-Kerim con calma.

— Ciò vuol dire che quel rivale di cui mi parlavi sei tu, tu, Abd-el-Kerim!

— Follie.

— Tuoni di Dio, non mentire! Tu cantando pronunciavi il nome dell’almea!

— Ah! tu sai questo?…

— Abd-el-Kerim, rammentati di mia sorella Elenka. Ella è greca.

— Ma il Corano…

— Non parlare di Corano, nè di poligamia. Elenka non avrà che un marito o tu non avrai che una moglie. Il Profeta udì i tuoi giuramenti.

— Elenka!… Elenka!… balbettò l’arabo.

— Saresti capace tu di dimenticarla per Fathma?

— Non parlare d’Elenka, Notis, disse l’arabo sordamente.

Il greco fece tre passi indietro e alzò la mano verso di lui.

— Abd-el-Kerim! disse egli gravemente. Sta in guardia!…

— Notis!…

— Sta in guardia! È l’ultima mia parola!

Il fratello d’Elenka lo mirò per un minuto cogli occhi scintillanti, poi gli volse le spalle e s’internò in mezzo al campo di durah.

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