Quando Abd-el-Kerim giunse agli avamposti il sole cominciava a far capolino fra le gigantesche foreste del Nilo e il campo a svegliarsi. Qua e là, dalle tende, uscivano soldati sbadigliando e stiracchiandosi le membra intorpidite; alcuni si affacendavano a pulire o a insellare i loro briosi cavalli che caracollavano nitrendo; altri alzavano i mahari o i cammelli conducendoli ai pozzi per abbeverarli, e altri ancora accendevano i fuochi pel rancio del mattino, o portavano legne, o portavano paglia, o facevano un po’ di pulizia, o lucidavano i fucili, gli jatagan o le daghe, o i cannoni. Dappertutto vedevansi ufficiali andare e venire, scintillanti per gli ori, affannarsi a portare o a dare ordini, a cambiare le sentinelle, a radunare le compagnie per farle manovrare; dappertutto udivasi un cicaleggio allegro, canzoni monotone e cadenzate, voci che salmodiavano i versetti del Corano accompagnate dalla voce nasale dei muezzin d’Hossanieh che percorrevano il campo, e ragli d’asini, e nitriti di cavalli e muggiti di buoi.
Abd-el-Kerim, colla faccia aggrondata, pensieroso, taciturno, attraversò la triplice fila di tende e andò a sedersi vicino alla sua, su di un tronco di palmizio atterrato, prendendosi la testa fra le mani.
Il povero arabo sentivasi tutto scombussolato dagli avvenimenti della notte e come ammalato. Una terribile lotta fervevagli nel cuore, lotta gigantesca nella quale si cozzavano furiosamente due passioni egualmente grandi: l’amore per la bella Elenka alla quale egli aveva giurato fedeltà e l’amore per Fathma, l’incomparabile creatura dagli occhi di fuoco che l’aveva suo malgrado affascinato.
Egli trovavasi per così dire equilibrato fra due abissi in uno dei quali tendeva le braccia la greca e nell’altro l’araba, due abissi che sì l’uno che l’altro l’attiravano, due abissi che gli mettevano le vertigini entrambi.
Aveva un bel dire che a Elenka aveva promesso la sua mano, aveva un bel dire che Elenka aveva gli occhi neri e pieni di fuoco, che Elenka era bella, che Elenka era incomparabile, divina, ma non riusciva a scacciare nè a eclissare dalla sua mente le fiera figura dell’almea, nè sapeva cancellare, nè estirpare quegli occhi che in certo qual modo erano impressi vivamente nel suo cuore o che lo tormentavano come fossero due carboni accesi collocati sulle sue carni.
Invano cercava di frapporre fra sè e l’almea delle tenebre, invano ritorceva i suoi sguardi portandoli su Elenka, invano mormorava il caro nome della greca, invano sforzavasi di frenare i tumultuosi battiti del suo cuore, invano richiamava alla mente le sinistre e minacciose parole di Notis. Egli vedevasi sempre dinanzi la superba immagine dell’almea col fucile in mano, come l’aveva veduta in mezzo alla pianura puntare calma e terribile il leone che volteggiavale d’intorno; parevagli di sentirsela ancora fra le braccia col capo appoggiato dolcemente al suo petto, trasportato sul dorso del veloce mahari coi capelli neri e profumati attorcigliati al collo; parevagli di ascoltare il debole suo respiro, il battere del suo cuoricino, il fremito delle sue membra, e provava emozioni violente, sconosciute, ignote, voluttuose, e sentivasi il sangue turbinare più rapido nelle vene, un fuoco strano accendersegli nel petto, fuoco che mettevagli la febbre indosso, fuoco che prendeva proporzioni gigantesche, che divorava e la memoria di Elenka e quella di Notis.
— Fathma! Fathma! mormorò egli sospirando. Tu hai fatto nascere nel mio cuore una passione che cancellerà quella della povera Elenka! Una passione che mi mette paura, una passione che mi fa tremare!…
Si levò dal tronco d’albero girando uno sguardo indagatore sul campo come se cercasse di scoprire colei che avevagli acceso in petto una scintilla d’un amore sconfinato. I suoi occhi si fissarono su d’un uomo, un capitano dei basci-bozuk, che lo guardava sorridendo quasi beffardamente.
— Olà, che diamine te fai qui, solo soletto e pensieroso, gli chiese il capitano, incrociando le braccia sul petto con aria comica. È un bel pezzo che sono qui a guardarti, curioso di sapere come l’avresti finita.
— Ah! Sei tu, Hassarn? disse Abd-el-Kerim, ricomponendo la faccia tetra.
— In carne e in ossa, amico mio, rispose il capitano.
— Che vuoi da me?
— Che m’accompagni alle foreste del Bahr-el-Abiad per far ritornare quella compagnia di basci-bozuk, che abbiamo lasciato in un zeribak. Sono stati segnalati dei ribelli, e non vorrei che quei poveri diavoli venissero qualche notte massacrati.
— Ah!… Sono con te, Hassarn.
— Prendi la tua carabina e affrettiamoci a metterci in cammino. Viaggiare di notte in simili tempi non è prudente.
Abd-el-Kerim esitò, poi raccolse la carabina che aveva posata sulla palma e seguì senza dir sillaba Hassarn, che si era già messo in cammino. Si fermò venti volte prima di uscire dal campo, ora guardando il villaggio d’Hossanieh e precisamente la casupola di Fathma e ora la tenda del greco ermeticamente chiusa.
Il capitano dei basci-bozuk prese un sentiero aperto in mezzo a un campo di dùrah che conduceva alle grandi foreste del Bahr-el Abiad; Abd-el-Kerim gli si mise dietro, ma senza quasi sapere ove andasse e col pensiero fisso a tutt’altra cosa che alla compagnia dei basci-bozuk.
— Ehi! Abd-el-Kerim, gli chiese Hassarn, dopo qualche tratto di cammino. Che diavolo hai che sei muto più d’un pesce?
— Nulla, rispose l’interpellato seccamente.
— Penseresti per caso, a quella bella ragazza che hai condotta questa notte nel campo?
Abd-el-Kerim trasalì e lo guardò sorpreso.
— Come sai tu questo?
— Bah! fe’ Hassarn, alzando un braccio come uomo che la sa lunga. Credi tu che escano ed entrino nel campo persone senza che io lo sappia? Ti dirò che tu sei arrivato in compagnia di Notis e che la bella almea riposava fra le tue braccia. Dove sei andato a pescare quella urì?
— La trovai venendo da Machmudiech, nel momento che un leone stava per assalirla. Perdette lo schiavo e il cammello, perciò la feci salire sul mio.
— Sulle tue braccia, corresse maliziosamente Hassarn.
— Come vuoi.
— E tu uccidesti il leone?
— Puoi immaginartelo.
— Sfido io! Si trattava di far vedere la propria valentìa dinanzi a Fathma.
— Fathma? La conosci forse tu?
— E da molto tempo, Abd-el-Kerim.
— Chi è? da dove viene? Dove va?
— Corri come i miracoli di Mohammed. Ti dirò innanzi a tutto che è un’almea dagli occhi che paiono diamanti neri, dai piedi lunghi come un petalo di rosa e che ha le mani più piccole di una urì del Profeta.
— Lo so, e poi?
— E poi non ne so di più. Ti interessa molto quell’adorabile creatura?
— Molto, rispose Abd-el-Kerim con slancio appassionato.
— Oh! esclamò Hassarn. Avresti per caso dimenticata la bella Elenka?
— Non parlarmi di lei, Hassarn.
— Bada, che Elenka è una iena.
— Ed io un leone! rispose fieramente l’arabo.
Il capitano gli si avvicinò e ponendogli amichevolmente una mano su di una spalla:
— Abd-el-Kerim, disse. Tu questa notte hai avuto di che dire con Notis.
— Mi spiasti, Hassarn?
— Il campo ha orecchi e occhi. Se non vuoi dirmelo tu, ti dirò che ronzavate tutti e due attorno a una casupola e che questa casupola era l’abitazione di Fathma, poichè fu vista entrare. Sareste rivali?
Abd-el-Kerim non rispose. Egli era diventato improvvisamente cupo.
— Non rispondi, ma leggo nel tuo cuore come legge il Profeta e forse più, Abd-el-Kerim.
— E che leggi?
— Amore, amore e amore per…
— Per chi?
— Per Allah! Amore per Fathma!
— Zitto imprudente, mormorò l’arabo guardandosi sospettosamente attorno.
— Confessi adunque che io lessi giusto.
— Non posso negarlo. Amo Fathma.
— Ed Elenka? E Notis?…
— Cancello l’una e aborro il secondo che minaccia diventare mio rivale!
L’arabo fece un gesto di spavento. Avrebbe voluto riafferrare e ricacciare in gola quelle parole uscitegli imprudentemente dalle labbra. Sentì una fitta al cuore; chinò il capo sul petto e sospirò.
— Povero Abd-el-Kerim! esclamò Hassarn.
— Non compiangermi!… Ah!…. Se tu sapessi qual lotta ferve nel mio cuore! disse ferocemente l’arabo. Quale mai delle due?
— Tu pensi ancora ad Elenka, adunque?
— Forse. Non so, per quanto mi sforzi, non riesco a cancellarla totalmente. L’ho sempre dinanzi agli occhi, bella, divina…. Eppur non l’amo!
D’un tratto si arrestò, afferrando bruscamente la carabina. Erano allora arrivati sul limitare della grande foresta che si estendeva a perdita d’occhio dal sud al nord, seguendo il tortuoso corso del Bahr-el-Abiad.
— Che hai? gli chiese Hassarn, armando per ogni precauzione una pistola.
— Abd-el-Kerim si guardò d’attorno con circospezione, figgendo l’acuto suo sguardo sotto gli alberi che strettamente uniti toglievano quasi la vista.
— Mi sembrò d’aver udito un fruscio fra i cespugli, disse poi.
— Sarà stato qualche scimiotto. Tu sai che in queste foreste abbondano.
— Che ci sia qualche spia?
— Potrebbe darsi. Il Mahdi ha della gente coraggiosa, che non ha paura di avvicinarsi agli accampamenti egiziani.
L’arabo fece cenno al capitano di tirar innanzi, continuando a guardarsi d’attorno e aprendo con precauzione i cespugli. Dopo dieci minuti essi giunsero ad una specie di zeribak, nell’interno della quale stava accampata una compagnia di basci-bozuk a piedi.
Il sergente che la comandava si fece loro incontro.
— Che nuove? chiese Hassarn.
— Nessuna, rispose il sergente. I ribelli fino ad ora non si sono spinti fin qui ma…. non avete incontrato nessuno? Ho veduto….
— Chi? domandò Abd-el-Kerim.
— Una apparizione.
— Spiegati per Allàh! esclamò Hassarn, mosso in curiosità.
— Che so io? Ho veduto passare un fantasma, vestito stranamente, e che potrebbe darsi che fosse un ribelle. È passato or ora a cento passi da qui.
— Oh! oh! fe’ Hassarn. Chi può essere mai? Abd-el-Kerim, sei in vena di accompagnarmi, intanto che i basci-bozuk fanno i bagagli?
— Ho la mia carabina e ciò basta. Ti seguirò fino al deserto di Korosko, se tu lo vuoi.
— Basta così. Tu sergente fa levare il campo e se non ci vedi tornare, incamminati per Hossanieh. Potrebbe darsi che noi tardassimo assai e che prendessimo un’altra via.
Arabo e turco volsero le spalle alla zeribak, internandosi nella foresta, seguendo un sentieruzzo appena visibile pel quale era passato il fantasma. Avevano tutte e due le ali ai piedi come se si trattasse di inseguire qualche persona più che importante.
— Chi può essere mai questo fantasma, si chiedeva Hassarn. Che sia qualche capo di ribelli?
In quell’istante Abd-el-Kerim, che camminava innanzi, tornò ad arrestarsi, urtando bruscamente il turco che gli veniva dietro.
— Fermati, per mille demoni! esclamò egli con voce alterata.
— Che hai veduto? chiese Hassarn sorpreso.
— Zitto!…
In lontananza si udiva il suono del tamburello che l’eco delle foreste ripeteva distintamente. Abd-el-Kerim impallidì come un cadavere.
— Odi Hassarn? domandò egli con un filo di voce.
— Sì, che odo. Deve essere qualche arabo che suona il tamburello.
— No, non è un arabo! esclamò vivamente Abd-el-Kerim.
— Come lo sai tu?
— È una donna, io l’ho udito ancora questo tamburello, disse l’arabo con maggior animazione.
— Per Allàh! Andiamo a vedere, Abd-el-Kerim.
L’arabo lo afferrò vigorosamente per le braccia e lo tenne fermo.
— Tu non sai di quale donna io intenda parlare, gli disse.
— Parla di quella che vuoi, io vado innanzi.
— Quella che suona è Fathma!….
Il turco lasciò sfuggire una esclamazione di sorpresa.
— Hassarn, continuò Abd-el-Kerim, lasciami solo. Tu non puoi essere testimone a quello che io dirò all’almea.
— Tu sei pazzo. Io voglio vedere Fathma.
— Hassarn, tu non lo farai, disse recisamente l’arabo.
— Ma disgraziato, e non pensi che sei promesso a Elenka.
— Io spezzo il nodo e mi getto corpo e anima fra le braccia di Fathma. Ho il sangue che mi brucia le vene e il cuore che batte per l’almea. Lasciami solo.
Il turco lo guardò con compassione.
— Tu ti perdi, Abd-el-Kerim, gli disse con dolce rimprovero. Fa come vuoi; io ti aspetterò ai piedi delle colline sabbiose.
L’arabo chinò il capo sul petto; poi rialzandolo con gesto risoluto:
— Vo’ gettar la mia vita ai piedi di Fathma, disse e si allontanò a rapidi passi, dirigendosi verso il luogo ove risuonava il tamburello.
Aveva la testa in fiamme e il cuore battevagli precipitosamente; parevagli di essere ubbriaco e camminava quasi senza volerlo, meccanicamente, attirato da quel suono come il serpente viene attirato dal flauto dell’incantatore.
In breve tempo giunse in una vasta radura contornata da maestosi tamarindi sulle cui cime strillavano numerosi scimmiotti. Egli si fermò frenando a grande stento un grido di gioia.
Là, sulle rive di un ampio stagno cosparso di grandi foglie di loto sacro, se ne stava ritta l’almea col tamburello in mano, i capelli neri sciolti sulle spalle e una bianca farda gettata pittorescamente su di un braccio. Vista così, sotto una pioggia di raggi solari che si riflettevano sui monili e sui braccialetti d’oro che le cingevano il collo e le nude braccia, la si sarebbe presa per una apparizione celeste, per una urì del paradiso di Mohammed il profeta.
Abd-el-Kerim sentì mancarsi le forze. Esitò, volle fuggire, ma gli fu impossibile e si spinse macchinalmente innanzi, senza fare il menomo rumore. S’arrestò a pochi passi dall’almea che continuava a sbattere il tamburello con un ritmo cadenzato e malinconico. Egli tese le braccia avanti.
— Fathma!… Fathma! mormorò con voce tremante.
L’almea si volse verso di lui.
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