Capitolo IX – Lo Sciék Abù-el-Némr

Erano le quattro del mattino quando Fathma si svegliò. Il sole alzavasi allora sull’orizzonte, rapidamente, versando torrenti di luce incandescente sul paese circostante che presentava un magnifico colpo d’occhio, tutto affatto speciale delle regioni dell’alto Nilo.

Il fiume scendeva tranquillo tranquillo descrivendo una gran curva, fra due magnifiche rive, coperte di superbi alberi, che si specchiavano quasi con civetteria nelle trasparenti acque, prolungando capricciosamente i loro rami sui quali andavano, venivano e saltellavano con sorprendente agilità numerose schiere di scimmie-leoni dal pelame cenerino azzurro, con una folta criniera affatto simile alla giubba dei leoni e il muso e le natiche d’un bel colore carneo.

Sugli isolotti sabbiosi sonnecchiavano pacificamente colossali ippopotami, grossi più dei rinoceronti, con testa enorme, muso assai rigonfio, nari larghe e sporgenti, gambe brevissime ma grossissime e la pelle cosparsa di rade setole e così grossa da sfidare le palle di fucile.

Alcuni di quei mostri talvolta si tuffavano con un fragore formidabile, portando sulla schiena i loro piccini grandi quasi quanto un bue e ricomparendo poco dopo nitrendo come cavalli.

Per l’aria volteggiavano invece stormi di fenicotteri, di pellicani, di ibis bianche e nere, di tantali, di anastomi, di pivieri e di falchi, che si incrociavano in mille differenti guise con un gridio incessante, precipitandosi di tratto in tratto nel fiume per uscirne quasi subito con un pesciolino nel becco.

Fathma e Omar, dopo di essersi rinforzati con una sorsata di merissak, visto che le rive erano deserte, s’affrettarono a spingere la zattera verso quella di destra e sbarcarono caricandosi delle armi, delle munizioni e di quanti viveri potevano portare.

— Dove andiamo? chiese l’almea, indecisa sulla via da prendere.

— Questo è il bello a sapersi, rispose Omar, imbarazzatissimo. A mio parere bisognerebbe guadagnare il villaggio più vicino per procurarsi dei cavalli o dei cammelli, senza i quali non riusciremo a raggiungere El-Obeid, Se ben mi ricordo a una quindicina di miglia da qui trovasi Sciula.

— Vi potremo entrare? Temo che i ribelli l’abbiano occupata.

— Lo so bene io, ma non c’è altra via da scegliere. Chissà forse i ribelli non l’hanno ancora assalita. Ad ogni modo ci avvicineremo con precauzione.

— La via sarà libera poi?

— È difficile saperlo. Sono certo che prima di giungervi incontreremo dei ribelli.

— La situazione nostra non mi sembra brillante.

— È quello che penso pur io, mormorò Omar sospirando. Mettiamoci nelle mani di Allàh che tutto può; è quanto ci resta da fare.

— Quando è così mettiamoci in cammino, disse Fathma risolutamente. Arma il fucile e apri per bene gli occhi. Che Allàh ci protegga.

Essi salirono la sponda e s’inoltrarono coraggiosamente sotto le foreste, aprendosi a gran pena il passo fra quegli immensi vegetali, dai tronchi colossali i cui rami s’intrecciavano a perdita d’occhio come gli archi gotici di una cattedrale sconfinata. Regnava là sotto un caldo soffocante, una temperatura da stufa che toglieva il respiro e che faceva zampillare addirittura il sudore dalla fronte degli intrepidi viaggiatori. Un silenzio lugubre rendeva la marcia più penosa, più monotona.

Dopo di aver percorso più di un miglio, essi si trovarono dinanzi ad una foresta di baobab. Nulla di più meraviglioso della vista di questi giganti delle boscaglie africane, ai quali non si esita a dare una longevità di seimila anni, dal tronco sproporzionato che supera spesso i venticinque metri di circonferenza dai rami bassissimi ma immensi che formano da soli un boschetto picchiettato da capsule legnose che sembrano zucche, lunghe venticinque o trenta centimetri, di tinta verdognola, coperte di bianca peluria, e delle quali sono ghiottissime le scimmie.

Fathma e Omar si erano arrestati ai piedi di uno di quei colossi per prendere un po’ di riposo, quando a sei o settecento metri lontano echeggiò improvvisamente una detonazione seguita poco dopo da un formidabile ruggito e da un grido straziante.

Scattarono simultaneamente in piedi coi fucili in mano, gettando un rapido sguardo all’intorno paventando di veder sbucare dai cespugli qualche banda di ribelli

— Che è successo? chiese ansiosamente Fathma, riparandosi prudentemente dietro una fitta macchia.

— I ribelli forse! esclamò Omar che tremava, suo malgrado, verga a verga.

— No, ho udito il ruggito del leone.

— Ma la detonazione? E quel grido?

— Che sia stato qualche cacciatore?

— Non credo, disse Omar. Quale cacciatore può avventurarsi in queste foreste battute dalle orde del Mahdi? Fathma ripieghiamoci sul fiume prima che capitino malanni.

— Ripieghiamoci, ma sta bene attento. Vi sono dei pericoli in aria.

Stavano per ritornare nella foresta di palme e di tamarindi, quando udirono una voce lamentevole gridare ripetutamente:

— Aiuto! aiuto!..

— Fathma si fermò bruscamente stringendo forte forte il braccio dello schiavo.

— Vi è qualcuno in pericolo, diss’ella…

— Lascialo che muoia, rispose il negro. Che dobbiamo farci noi?…

— Forse quell’uomo non è un ribelle.

— Peggio per lui. Non possiamo esporre le nostre vite per soccorrere uno sconosciuto. Vieni con me Fathma, spicciamoci a guadagnare il fiume.

L’almea scosse il capo.

— Aiuto!… Aiuto!… ripetè la voce lamentevole.

— Non è possibile abbandonare così un povero uomo, Omar, disse Fathma. Accada ciò che vuole, io vado a soccorrerlo. Forse quell’uomo può esserci ancora di qualche utilità, forse… Vieni, io lo voglio!

Vi era tanta autorità in quel comando che Omar non ardì opporsi altro. Uscirono dalla macchia e si slanciarono di corsa verso il luogo ove erasi udita l’invocazione disperata.

Cinque minuti dopo giungevano in una piccola radura circondata da bauinie. Là in mezzo eravi un leone che si dibatteva nelle ultime convulsioni della morte, colla testa bruttata di sangue a pochi passi da lui stava sdraiato per terra un bel negro, di statura alta colle braccia e le gambe ornate di anelli d’oro, un ricco turbante ricamato d’argento sul capo e una farda rossa avvolta intorno al corpo. Gemeva lugubremente e colle mani stringevasi fortemente la gamba destra scarnata fino all’osso. Un torrente di sangue nero e spumoso sfuggiva a rapide pulsazioni dall’enorme ferita

Appena egli scorse Fathma e Omar si rovesciò all’indietro raccogliendo un pistolone che puntò rapidamente verso di essi.

— B’Allai! (perdio!) bestemmiò egli facendo fuoco.

La palla andò a forare il fez di Omar, un pollice appena sopra la testa. Fathma puntò il fucile verso il ferito.

— Se ti muovi ti ammazzo come un cane! diss’ella con un tono di voce da non mettere in dubbio la minaccia.

A quella voce il volto del ferito s’alterò. S’alzò bruscamente a sedere fissando l’almea con due occhi che fiammeggiavano.

— Fathma! esclamò egli con profondo terrore.

Il fucile sfuggì di mano all’almea.

— Fathma! mormorò ella sorpresa.

— Fathma! ripetè Omar, che cadeva dalle nuvole. Cosa vuol dir ciò?…

L’almea e il ferito si guardarono per alcuni istanti fissamente senza dir parola. La prima era sorpresa di udirsi chiamare per nome da quell’uomo che non aveva mai veduto; il secondo invece pareva sorpreso di non essere riconosciuto da quella donna che aveva veduta più di cento volte.

— Chi sei? chiese alfine Fathma. Come sai il mio nome?

Un sorriso apparve sulle labbra del ferito.

— Non mi conosci?

— Non mi ricordo d’averti veduto.

— Non sei tu Fathma l’almea?

— Non lo nego.

— Non sei stata tu a El-Obeid?

— Sì, disse sordamente l’almea. Vi fui.

— Non sei stata un tempo una donna potente? continuò il ferito che pareva avesse dimenticata completamente la sua gamba scarnata.

Il volto dell’almea s’alterò spaventosamente, burrascosamente. La sua fronte si aggrottò e i suoi occhi parvero incendiarsi.

— Lo fui, diss’ella dopo qualche istante di silenzio.

— Allora non m’inganno più. Tu fosti la favorita di Mohammed-Ahmed.

— Come tu sai questo? Chi te lo disse?

— Lo so perchè ti vidi cento e più volte quando io era guardiano dell’harem di Mohammed-Ahmed.

L’almea gettò un grido di spavento e di sorpresa e retrocesse vivamente.

— Chi sei?… Chi sei?… chiese ella tremando.

— Sono lo scièk Abù-el-Nèmr luogotenente del Mahdi, comandante gli insorti del Bahr-el-Abiad.

Omar aveva rapidamente puntato il fucile verso di lui.

— Ah! cane d’un ribelle! esclamò il negro,

L’almea con un brusco gesto abbassò l’arma, poi traendo una pistola e posando la fredda canna sulla fronte del ferito gli disse con calma glaciale:

— Abù-el-Nèmr, tu sei in nostra mano. Se tu giuri di farci uscire sani e salvi da questa foresta io ti guarisco, se tu invece rifiuti ti faccio saltare le cervella. Scegli!

— Perchè vuoi che io alzi la mano su chi fu un tempo la mia signora? disse dolcemente il ferito. Avrei paura che Allàh mi fulminasse. Comanda e io farò per l’antica favorita del Mahdi, tutto quello che ella vorrà.

— Grazie Abù-el-Nèmr, mormorò Fathma con voce commossa. Non credeva d’avere ancora degli amici fra i ribelli. Distendi la tua gamba ferita; io ti guarirò.

Lo scièk ubbidì. L’almea esaminò accuratamente la ferita che continuava a sanguinare. Era orribile: il leone con un potente colpo d’artiglio aveva lacerato la carne fino all’osso della coscia. Comprese subito che un ritardo di pochi minuti poteva riuscire funesto.

— Vammi a prender dell’argilla in quel fossatello, diss’ella a Omar, e raccogli un po’ d’acqua fresca.

Il negro partì come un lampo e ritornò poco dopo con una grossa palla d’argilla grigiastra e morbida e una fiasca d’acqua. Fathma ravvicinò delicatamente le labbra della ferita, vi sovrappose un pezzo di tela bagnata, e coprì il tutto con un grosso strato di creta che impediva al sangue di trasudare. Tre o quattro foglie e alcune braccia di corda terminarono l’operazione. La gamba del ferito si trovò chiusa in una specie di manicotto ben legato.

Ora, diss’ella, bisogna lasciare il più presto possibile questa foresta e raggiungere qualche luogo abitato. Dove possiamo trovar gente?

— L’ignoro, rispose il ferito con voce debole, tergendo il sudore che colavagli abbondante dalla fronte. Ho lasciato da due giorni il campo e mi sono smarrito in questa foresta.

— Quale distanza corre dal fiume a Sciula?

— Meno di una giornata di cammino. Se tu mi conduci là troverò i miei guerrieri.

— Ma… e noi?

— Oh! non temere! esclamò vivamente lo scièk. Io sono il loro capo e sventura a colui che ardirà alzare una mano sopra di voi.

— Sta bene, ma come ti trasporteremo? Bisognerà costruire una barella.

— Ho il mio cavallo che deve pascolare nei dintorni, se non fu divorato da qualche leone.

— Chiamalo. Non bisogna perdere tempo; la febbre e forse il delirio fra poche ore ti assaliranno.

Abù-el-Nèmr accostò le mani alla bocca e mandò un lungo fischio. Quasi subito si udì un calpestìo precipitato e un cavallo comparve movendo sollecitamente verso il padrone.

Era questo un superbo corsiero, Abù-Ròf puro sangue, piuttosto piccolo, dalla fronte larga e un po’ schiacciata, l’occhio vivo e intelligente, le nari molto aperte, orecchie piccole, corte, sottili, le ossa zigomatiche molto sporgenti, muso elegante, gambe secche e vigorose, petto sviluppatissimo e ventre assai ristretto che annunciava quella grande sobrietà che è propria degli animali dei deserti sudanesi.

Omar e Fathma sollevarono con molte precauzioni il ferito che non lagnavasi malgrado soffrisse atroci dolori e lo misero in sella. L’almea vi salì dietro sostenendolo fra le vigorose braccia e il negro prese l’animale per le briglie.

— Avanti, disse Fathma.

Essi si misero in viaggio percorrendo un largo sentiero che un tempo doveva essere stato una via per le carovane. Il ferito si lasciò sfuggire suo malgrado un gemito soffocato.

— Soffri molto? gli chiese l’almea.

— Un po’ lo confesso, rispose titubando lo scièk. Il moto del cavallo mi fa orribilmente male.

— Appoggiati bene sul mio petto.

— Ah! esclamò il ferito. Quanto sei buona Fathma eppure sono un ribelle.

— Questo ribelle un tempo fu mio suddito, disse con voce commossa l’almea.

Il ferito si volse verso di lei e la guardò con tenerezza.

— Fathma, perchè hai abbandonato il mio signore che tanto ti amava e che ti avrebbe resa tanto potente?

— Non chiedermelo se non lo sai, disse con aria tetra l’almea.

— Fu la fatalità forse?

— Forse.

— Sai che quel giorno che tu sparisti io l’ho veduto piangere il mio Signore?

La faccia dell’almea diventò ancor più cupa.

— Che fece egli quando io scomparii? chiese ella.

— Ti cercò per una settimana intera mandando guerrieri in tutte le borgate del Kordofan. Ti amava alla follia, e quando ritornarono senza che sapessero dire ciò che era accaduto di te lo vidi piangere come un bambino, lui, Mohamed Ahmed, l’inviato di Dio!

— Povero Ahmed, mormorò Fathma con un rauco sospiro. Fu il destino che mi spinse ad abbandonarlo.

— Ma che ti aveva fatto?

— Nulla.

— E allora?

— Non parliamo di ciò. Dimmi, mi si crede morta?

— No, Ahmed ha saputo che tu sei viva.

L’almea trasalì.

— Chi glielo disse?

— L’ignoro, ma bada a me, Fathma, non farti più mai vedere in El-Obeid. L’amore di Mohamed Ahmed si è cangiato in terribile odio.

— Mi guarderò da lui; d’altronde sarà difficile che mi si veda nella capitale del Kordofan.

— Dove vai adunque che scendi al sud?

— A unirmi all’armata egiziana.

— Tu!… tu cogli egiziani!… esclamò lo scièk con dolorosa sorpresa. Vedremo adunque noi la favorita del nostro signore, militare nelle file nemiche e volger il ferro contro i suoi antichi sudditi?

— No, non volgerò mai le mie armi contro gl’insorti, a meno che non mi costringano loro. Appena avrò raggiunto l’uomo che cerco e che avrò compiuta una vendetta che da due mesi aspetto, ritornerò per sempre al nord.

— Ah! tu hai delle vendette da compiere?

— Sono araba.

— Ma sai almeno dove puoi trovare Hicks pascià?

— No, ma lo troverò dovessi percorrere cento volte il Kordofan. Ah! se io potessi saperlo!…

— Lo vuoi proprio?

— Tu lo sai? Ah!…

— Sì Fathma, lo so, giacchè a noi nulla può sfuggire. Il 10 ottobre era giunto a Sange-Hamferid; ora si troverà nei dintorni di Kaseght. Il maledetto marcia rapidamente sulla capitale, ma Ahmed lo romperà e farà uno spaventevole massacro delle sue truppe, te l’assicuro.

— Grazie, Abù-el-Nèmr.

— Non ringraziarmi, Fathma. Forse questa indicazione ti riuscirà fatale.

— Perchè?

Lo scièk non rispose. Egli si curvò verso terra portando una mano all’orecchio e ascoltò attentamente.

— Alto! diss’egli raddrizzandosi.

Aveva appena terminato il comando che da ambo i lati del sentiero scoppiava un clamore spaventevole. Il cavallo, colpito da una lancia nella testa, cadde sulle ginocchia gettando a terra coloro che lo montavano. Una cinquantina di guerreri armati di lance, di sciabole e di mazze saltò fuori dalle macchie empiendo l’aria di urla feroci.

Omar e Fathma furono pronti a levarsi afferrando le pistole e la scimitarra, ma lo scièk, invece non si mosse. La caduta, la perdita del sangue e lo sfinimento l’avevano fatto svenire.

— Fermi tutti! gridò l’almea. Abbiamo con noi lo scièk Abù-el-Nèmr!

Gl’insorti nell’udire il nome del loro capo si erano arrestati colpiti da stupore: ma questo stupore durò un istante. Essi circondarono Fathma e Omar e in meno che lo si dica li atterrarono strappando a loro le armi. Sei o sette si precipitarono sullo scièk; vedendolo a terra pallido come un morto ed immobile lo credettero assassinato.

Lo scièk è stato ucciso! gridò una voce. Ah! cani di arabi!

Tutti i ribelli si erano affollati attorno ad Abù-el-Nèmr urlando furiosamente. Un guerriero d’alta statura colle braccia armate di numerosi braccialetti d’oro e un ricco turbante sulla testa, s’inginocchiò accanto allo svenuto e lo esaminò attentamente per alcuni istanti.

— Chi ha ferito il mio capo? chiese egli, lanciando un’occhiata torva sui due prigionieri.

— Un leone, risposo Fathma senza perdersi d’animo.

— Tu menti, lingua di vipera, gridarono in coro gl’insorti digrignando i denti.

— Lo giuro su Allàh e sull’Alcorano. Noi l’abbiamo trovato ferito e lo medicammo, rispose l’almea!

— Non è vero disse il guerriero d’alta statura. Dove lo conducevi ora?

— Al vostro campo.

— Non è vero; tu volevi condurlo nel folto del bosco per assassinarlo a tuo comodo. Olà! miei prodi accendete un bel fuoco e abbruciamo questi arabi.

Omar e Fathma nell’udire quell’atroce comando, sentirono raggrinzarsi le carni e gelare il sangue nelle vene dallo spavento. Compresero di essere irremissibilmente perduti se lo scièk non tornava più che presto in sè.

— Prodi guerrieri! gridò l’almea con uno slancio disperato. Frenatevi, aspettate che Abù-el-Nèmr rinvenga, aspettate che egli parli, che egli solo ci giudichi. Noi siamo suoi amici, ve lo giuro, ed egli punirà orribilmente colui che avrà alzato la mano su di noi.

La sua voce invece di calmare gl’insorti parve che li eccitasse maggiormente. S’udì un solo grido tremendo, formidabile:

— Al fuoco gli arabi! A morte gli assassini dello scièk.

Ad un cenno del guerriero d’alta statura, che pareva fosse il sotto-capo, gl’insorti sollevarono con infinite precauzioni lo scièk che era sempre svenuto.

— Portatelo al tugul che trovasi in capo a questo sentiero, diss’egli, e voialtri accendete un bel fuoco e quando Abù-el-Nèmr ritornerà in sè gli mostreremo le ossa carbonizzate dei suoi feritori.

Il comando venne immediatamente eseguito. Lo scièk Abù-el-Nèmr fu collocato su di una specie di barella formata con lancie incrociate e gli altri si misero a schiantare alberi o raccogliere legne morte, formando una catasta colossale attorno ad una palma isolata.

Il supplizio spaventevole s’avvicinava. Omar e Fathma, vedendo che ormai ogni speranza era perduta, tentarono salvarsi colla fuga. Gettati a terra con una repentina scossa coloro che li trattenevano, si scagliarono a testa bassa sul cerchio dei ribelli impegnando una disperata pugna colle mani, coi denti e persino coi piedi.

Per cinque minuti riuscirono a tener testa al nemico, poi scomparvero sotto una montagna di corpi. Atterrati, legati, percossi a sangue, colle vesti a brandelli, i due disgraziati, malgrado le disperate loro grida e i loro contorcimenti furono trascinati sul rogo e legati saldamente al tronco della palma.

Fathma gettò un grido d’angoscia.

— Aiuto Abù-el-Nèmr! Aiuto! urlò ella.

Le grida selvaggie dei ribelli e il fragore della daràbuka1 soffocarono la sua voce e le imprecazioni di Omar che si dibatteva furiosamente insanguinandosi i polsi. Erano perduti.

Già un uomo si avvicinava con un tizzone per mettere fuoco alla pira, già i ribelli alzavano le lancie per saettare i corpi dei due prigionieri, quando si udì una voce tonante, imperiosa, gridare:

— Fermi tutti! voi abbruciate la favorita di Mohamed Ahmed!

Lo scièk Abù-el-Nèmr era improvvisamente apparso sul sentiero, portato a braccia da quattro guerrieri, I ribelli, nello scorgerlo col volto contraffatto dall’ira, e nell’udire quelle parole, si erano arrestati come pietrificati, guardando con occhi smarriti ora il loro capo e ora i due prigionieri che tendevano le braccia verso il salvatore.

Abù-el Nèmr con un gesto imperioso li fece cadere tutti in ginocchio col volto nella polvere.

— Sciagurati! esclamò egli. Liberate la favorita del vostro signore e ringraziate Allàh che m’abbia fatto giungere in tempo per salvarvi dalla vendetta dell’inviato di Dio!

Il guerriero d’alta statura che aveva ordinato il supplizio si avvicinò umilmente ai due prigionieri e tagliò i loro legami. Egli s’inginocchiò quindi dinanzi a Fathma baciandole i piedi.

— Perdono! perdono! balbettò con voce tremante.

L’almea, lo rialzò con un gesto da regina.

— Ti perdono, diss’ella. Vattene.

— Ma non io! gridò Abù-el-Nèmr baciando impetuosamente la mano di Fathma. Chi alza un dito sulla favorita dell’inviato di Allàh merita la morte e non una volta, ma cento, ma mille. E’l-Maktud, tu non puoi sopravvivere, io non lo voglio.

— Ti obbedisco scièk, disse il guerriero puntandosi una pistola sulla fronte. Che Allàh mi perdoni.

Fathma e Omar si slanciarono verso di lui per disarmarlo ma non ne ebbero il tempo, il guerriero, obbediente al comando del suo capo, premette il grilletto, facendosi saltare le cervella. Cadde su di un banco col volto inondato di sangue.

— È orribile! esclamò Fathma con ribrezzo.

— No, è giustizia, disse lo scièk freddamente.

— Quell’uomo non mi conosceva, Abù-el-Nèmr.

— Peggio per lui. Fathma, perdonami se io non giunsi in tempo per impedire che questi cani di Baggàra avessero a maltrattarti. La caduta mi cagionò un dolore sì atroce che svenni. Orsù ritorniamo alla capanna che mi sento estremamente debole. Tu rimarrai qualche giorno con me?

— Non è possibile, Abù; ho fretta di raggiungere Hicks pascià, ora che so dove trovasi.

— Ti preme molto, adunque, quella vendetta?

— Molto, rispose Fathma.

— Con chi partirai?

— Col mio schiavo Omar.

— Non arriverai a Sciula che cadrai in mano degli insorti. Quasi tutti i villaggi che conducono a El Obeid sono occupati dalle bando di Mohamed Ahmed.

— Allàh mi proteggerà.

Abù-el-Nèmr stette alcuni istanti pensieroso.

— Vuoi proprio lasciarmi? chiese alfine.

— Sì, e subito, se è possibile.

— Sta bene, Fathma. Olà Mustafah!

Un guerriero lungo e magro, ma dai muscoli di ferro dalla figura ardita e feroce, semi-nudo, spalmato tutto di grasso di cammello, e con un pugnale legato al braccio destro si fece innanzi.

— Mustafah, disse lo scièk, barderai tre dei migliori cavalli, li caricherai di provvigioni e partirai colla favorita del nostro signore. Tu le obbedirai come a me stesso, e le farai strada fra le orde dei ribelli.

Il guerriero partì come una freccia e cinque minuti dopo ritornava conducendo tre magnifici cavalli Abù-Rof puro sangue, bardati e carichi di provviste e con parecchie otri piene di fresca acqua, appese ai fianchi. I tre viaggiatori balzarono in arcione.

— Abù-el-Nèmr, disse Fathma, con voce commossa stendendo la mano allo scièk. Non mi scorderò mai di quello che tu hai fatto per me.

Fathma, rispose gravemente lo scièk senza di te io sarei a quest’ora probabilmente morto. Serberò a te eterna riconoscenza e se mai un giorno tu avessi bisogno di un uomo per proteggerti pensa ad Abù-el-Nèmr. Va ora, e che Allàh ti salvi.

Baciò un’ultima volta la mano all’almea e chiuse gli occhi sospirando. I tre cavalieri subito dopo lasciavano gl’insorti galoppando verso l’occidente.

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