La notte era oscura, essendo la luna e le stelle nascoste da una nera fascia di densi nuvoloni, tuttavia vi si vedeva abbastanza per cacciarsi dieci pollici di lama attraverso il corpo. Notis, cui un’ira feroce animava in unione alla gelosia e ad una smania terribile di vendicarsi dell’affronto subito dinanzi agli occhi di Fathma, fu il primo a mettersi in guardia, dopo di aver provato l’elasticità della sua scimitarra. Abd-el-Kerim, quantunque gli ripugnasse il battersi col fratello di colei che aveva tanto amato prima di aver veduto l’almea, non tardò a mettersi di fronte a lui, colla calma propria degli orientali.
— Abd-el-Kerim, disse Notis, sforzandosi di parer tranquillo. Raccomanda la tua anima ad Allàh, poichè non uscirai vivo da questa foresta e manda un ultimo addio alla tua nuova amante, che non rivedrai mai più.
— Non annoiarmi inutilmente, disse l’arabo freddo freddo. Se ti ricordi qualche preghiera, spicciati a dirla, poichè io non ti risparmierò.
— Ho raccomandato l’anima al diavolo mio patrono e ciò basta. Orsù, guardati, che il fratello della tua Elenka incomincia.
L’arabo lo guardò cupamente.
— In guardia, Notis, diss’egli. Una donna non sta più fra noi!
Quasi nel medesimo istante le due scimitarre s’incrociarono con uno stridore rapido e duro. I due avversari, tasteggiatisi un po’, dopo di avere tentato di far passare reciprocamente i loro ferri per arrivare alle carni, si ritrassero di qualche passo, riponendosi in guardia.
Hassarn incrociò le braccia sul petto e il duello cominciò furiosamente.
Notis, più impetuoso e meno padrone di sè, fu il primo ad attaccare, moltiplicando gli assalti, portandosi ora a dritta e ora a sinistra, turbinando come un lupo attorno alla preda, e avventando tremendi colpi sul capo dell’arabo che li parava senza muoversi di una linea. Per cinque minuti continuò ad assalire, tentando, ma invano, di far saltare di mano la scimitarra ad Abd-el-Kerim, poi, visto che non c’era mezzo di riuscirvi nè di far abbassare quell’arma che copriva l’avversario come uno scudo, tornò a sostare.
— Ah! esclamò egli sogghignando. Tu sei una rupe adunque, incrollabile anche fra i più impetuosi attacchi.
— Può darsi, rispose l’arabo che si teneva in guardia.
— Aspetta un po’ che provi una botta che mi fu insegnata ad Atene. Se il fratello d’Elenka non ti spacca il cuore, proverò un colpo maestro che mi fu insegnato dal tuo compatriota Dhafar.
— Non nominarmi Elenka, disse Abd-el-Kerim con ira.
— Ah! fè’ Notis, ridendo diabolicamente. T’inquieta tanto questo nome?
— A che nominarmela? Credi tu di turbarmi l’anima e d’approfittarne per cacciarmi il tuo ferro in mezzo al petto? Se è così, sei più vile e più miserabile di quello che ti credeva. Ti disprezzo.
Il greco impallidì e il suo volto si sconvolse ferocemente.
— Ira di Dio! esclamò egli, facendo un passo indietro e alzando la scimitarra. Vuoi proprio che ti strappi il cuore colle mani? Sta attento, Abd-el-Kerim!
S’abbassò bruscamente rimpicciolendosi, quasi aggomitolandosi su sè stesso e allungò il braccio presentando la scimitarra che lo minacciava una superficie stretta e corta riparata ancora dalla distanza. L’arabo, dinanzi a quella manovra per lui nuova, s’arrestò esitando.
Di repente il greco si raddrizzò assaltando furiosamente e spingendo violentemente la scimitarra di punta. Abd-el-Kerim cercò di parare la botta, ma non fu in tempo e riportò una scalfittura al braccio sinistro; la bianca manica che lo copriva si tinse di rosso. Notis emise un grande scroscio di risa.
— E una diss’egli. Fra dieci minuti l’amante di Fathma sarà senza braccia. Sta attento mio caro arabo, che ricomincio.
Abd-el-Kerim non diede segno alcuno di dolore nè di spavento. Egli s’avventò addosso al greco colla rapidità d’un lampo, incalzandolo vigorosamente, stringendolo tanto che l’avversario fu forzato a rompere e a fare un passo indietro.
Tre volte Notis cercò di abbassarsi per ricominciare il giuoco, ma l’arabo gli era sempre addosso, impedendoglielo. Al quarto tentativo fu ferito alla faccia.
— Ah! esclamò il greco tergendosi colla mano sinistra il sangue che colavagli abbondantemente. La è così? Aspetta un po’ canaglia.
Spiccò un salto di dieci piedi o si riaggomitolò cercando di strisciare fra le gambe di Abd-el-Kerim che gli correva addosso, ma il colpo di punta fu deviato dalla scimitarra che l’avversario stringeva con polso di ferro. Tornò a indietreggiare dinanzi a quei crescenti attacchi, dirigendosi verso lo stagno.
— Indietro! indietro! gridava l’arabo, che s’infiammava. Giù nello stagno.
In capo a cinque minuti Notis erasi ridotto proprio sulla riva dell’acqua; non gli restavano che due risorse. O lasciarsi ammazzare o gettarsi a testa bassa contro l’arabo.
— Arrenditi, gli disse Abd-el-Kerim.
La faccia del greco s’alterò e il sorriso beffardo che incoronava le sue labbra disparve. Tentò con un colpo disperato di disarmare l’avversario avventandogli una gran botta a mezza scimitarra. Ebbe per risposta una nuova puntata che gli lacerò la manica sfiorandogli la pelle.
Non vi era più nulla da tentare. La sua mano era stanca, si difendeva più lentamente e per quanto studio vi mettesse per non lasciarsi sopraffare e disarmare, sentiva la scimitarra che talvolta minacciava sfuggirgli di mano. Emise un ruggito furioso.
— Ira di Dio! tuonò egli. Che non riesca ad attraversare il cuore di questo vigliacco?
Cercò di portarsi a dritta e poi a manca, ma si trovava dinanzi sempre alla scimitarra dell’arabo che miravalo al petto. Fece un ultimo passo indietro e sentì i capelli rizzarglisi sul capo nel trovarsi proprio sul margine dello stagno. Una nube di fuoco gli passò dinanzi agli occhi. Si vide perduto, ma non chiese grazia.
Si difese per altri cinque minuti, poi gettò un urlo terribile e portò le mani sul petto, abbandonando la scimitarra. Abd-el-Kerim avevalo colpito sul fianco sinistro, nella direzione del cuore.
Stralunò gli occhi, spiccò un salto gigantesco e piombò in mezzo alle larghe foglie di loto che galleggiavano sulle acque dello stagno. Fu visto dibattersi per alcuni istanti, poi scomparire.
Abd-el-Kerim si chinò sulla riva, ma l’oscurità era così profonda, accresciuta anche dagli alberi che stendevano i loro rami al disopra delle acque, che non vide più nulla. Hassarn fu lesto ad avvicinarglisi.
— Si vede? chiese questi.
— No, rispose con voce sorda l’arabo.
— L’hai ucciso sul colpo?
— L’ignoro. Mi parve che la scimitarra incontrasse qualche costola.
— Che il diavolo lo accolga nel suo inferno.
— Taci, Hassarn, disse Abd-el-Kerim con emozione. Mi pare di aver commesso un assassinio.
— Bah! fe’ il turco alzando le spalle. Un rivale di meno.
— Era il fratello di Elenka.
— Che importa, dal momento che tu hai spezzato il nodo che ti univa ad Elenka? Ora sei libero di far tua Fathma senza che Notis abbia a disputartela e che abbia ad invocare l’amore che tu avevi per sua sorella. Buona notte ai morti e buona fortuna ai vivi.
— Scendiamo nello stagno, Hassarn. Forse non l’ho ucciso sul colpo e respira ancora.
— Se tu non gli hai attraversato il cuore, a questa ora si è annegato. Lasciamolo lì e ritorniamo all’accampamento dove Fathma ti aspetta con viva impazienza. Allàh penserà al morto.
L’arabo approvò con un cenno del capo, ma non si mosse. Cercò di scendere nello stagno ma l’acqua pareva profonda e l’oscurità non permetteva di vedere dove si appoggiavano i piedi. Egli dovette in breve convincersi che era impossibile pescare il corpo di Notis, nascosto fra il loto e fra i canneti.
— Infine l’ha voluto, mormorò egli sospirando. Povera Elenka, che dirà mai quando gli si narrerà che suo fratello è stato ucciso e che l’uccisore fui io, il suo amante. Ah! sento come un rimorso!
— E Fathma? Hai dimenticato così presto quella adorabile creatura?
— Hai ragione, Hassarn. Ho giurato di dare la mia vita a Fathma e Fathma l’avrà! Vieni, Hassarn questo bosco mi fa paura.
Il turco raccolse la carabina, passò un braccio sotto quello del compagno e tutti e due, a lenti passi s’allontanarono.
Erano appena scomparsi dietro gli alberi, che le grandi foglie di loto dello stagno si sollevarono silenziosamente e la faccia di Notis apparve. I suoi occhi, animati da una tremenda collera, si fissarono, sul luogo appena lasciato dall’arabo e dal turco, nè si staccarono per un bel pezzo.
— Ah! tu mi credi morto, diss’egli, cacciando fuori le pugna con gesto minaccioso.
«Tu credevi che fosse così facile ammazzare un greco della mia tempra che s’era giurato d’infrangerti come una canna e che s’era giurato di conquistare il cuore d’una bella donna, qual’è Fathma. Ti mostrerò io ora, quanto sei imprudente a non cacciarmi due dita di ferro di più in petto. Uscirò vivo di qui e guarirò presto e allora a me la vendetta. Ho da vendicare Elenka e la frustata che tu mi hai dato in volto e di più ho da far mia quell’almea che tanto mi abborre. Ti schianterò il cuore in modo tale che non abbia a guarire mai più!…
Tese l’orecchio: non si udiva che il riso smodato delle iene che vagavano sulle rive del Nilo cercando cadaveri e il sibilo del vento che scuoteva i rami dei tamarindi e le foglie delle palme. Egli sorrise stranamente.
Si sbarazzò delle foglie di loto che lo circondavano lacerando i gambi che si appiccicavano al suo corpo e s’avanzò verso la riva tasteggiando prudentemente il fondo limaccioso dello stagno. In pochi minuti guadagnò il pendìo, e si issò, senza rumore, fino a che si trovò completamente fuori dell’acqua.
Un acuto dolore che provò al fianco sinistro l’arrestò. Si stracciò la casacca a mise allo scoperto la ferita infertagli da Abd-el-Kerim, esaminandola attentamente.
La scimitarra eragli penetrata sotto la quinta costola, dopo di aver urtata la quarta ed aveva lacerato le carni per una lunghezza di sette od otto centimetri, ma senza che avesse toccato alcuna parte delicata. Capì subito che la ferita era dolorosa ma niente affatto mortale e respirò.
— Credeva che m’avesse ferito più pericolosamente, mormorò egli. Tanto meglio per me e tanto peggio pel mio rivale. Sta cheto, Abd-el-Kerim, che questo duello ti costerà caro, oh sì, assai caro! E ora, fingiamo di essere morto per tutti eccettuati Elenka e il mio fedele Takir. A proposito dove si è cacciato il nubiano? Non è possibile supporre che egli si sia allontanato nel mentre che io mi battevo.
Accostò le mani alle labbra e imitò il riso sgangherato della iena, che ripetè per tre volte. Pochi minuti dopo udì l’urlo lamentevole del sciacallo che si ripetè pure tre volte.
— Bene, il nubiano è qui, disse Notis, sforzandosi a sorridere. Aspettiamo.
I cespugli si mossero di lì a poco e la atletica figura di Takir si mostrò. Egli accorse subito accanto a Notis, gettando un vero grido di gioia.
— Ah! padrone, vi credeva morto con una scimitarra attraverso il petto, diss’egli. Per qual fortuna quel dannato d’Abd-el-Kerim vi risparmiò?
— Mi risparmiò! esclamò Notis con furore. Il maledetto non è così generoso da risparmiare un rivale par mio che è per di più il fratello di Elenka. Guarda qui che mi fece.
Egli s’apri la camicia e gli mostrò la ferita che sanguinava abbondantemente.
— Vi ha ferito mortalmente?
— No, per buona ventura, disse Notis. Ho qui poi in faccia il segno lasciatomi dalla sua frusta e una scalfittura al disotto dell’occhio che mi rammenteranno sempre del traditore Abd-el-Kerim.
— Ma come siete stato risparmiato adunque?
— Gettandomi nello stagno e fingendomi morto.
— Sicchè vi credono…
— All’inferno, interruppe, Notis ironicamente. Tanto meglio, se mi credono bello e morto. Avrò agio di vendicarmi più facilmente.
— Voi nutrite, adunque, la speranza di restituire quel colpo di scimitarra?
— Non solo, ma di far mia Fathma, disse con aria feroce il greco. Ora che lei mi aborre, sento d’amarla ancor più, e tanto che senza Fathma mi sarebbe impossibile il vivere. Mi comprendi tu, Takir?
— Perfettamente, padrone, rispose il nubiano, ed io vi aiuterò, poichè…
— Zitto Takir. Afferrami fra le tue braccia e portami.
— Dove? Al campo forse?
— I morti non ritornano più fra i vivi, è giusto adunque che io non ricomparisca al campo. Non conosci tu qualche luogo deserto dove possiamo ricoverarci senz’essere veduti?
— Sulla cima delle colline che si estendono al settentrione d’Ossanieh, mi ricordo di aver veduto una bella caverna che potrebbe servirci di abitazione. e che è abbastanza vicina al campo, disse il nubiano
— Andremo ad abitarla, Takir, e poi penseremo alla vendetta. Orsù, prendimi fra le tue braccia e portami. Io sono debole per ora.
Il nubiano lo prese, se lo gettò in ispalla e partì correndo colla stessa facilità come se portasse un fanciullo. Attraversò come un’antilope la foresta e sbucò nella pianura senza rallentare un solo istante la corsa. Notis gli guizzò fra le braccia mandando una orribile bestemmia.
— Guarda laggiù, diss’egli, mugolando come una belva. Guarda, Takir, guarda.
Il nubiano vide due persone che salivano le colline sabbiose a meno di quattrocento passi di distanza. Riconobbe subito chi erano.
— Quello là col cofatan bianco è Hassarn, disse. L’altro col fez è l’arabo Abd-el-Kerim: io li conosco tutti e due.
— Sì, sono i due maledetti. Essi si dirigono al campo dove li aspetta Fathma.
— Calma, padrone, che verrà il dì che l’almea aspetterà voi.
— Puoi star sicuro che verrà quel giorno e mi aspetterà allora in ginocchio. Se tu potessi ammazzarne almeno uno con un colpo di carabina!
— È pericoloso, padrone. Ho il braccio dritto ferito e mi trema, e di più la notte è troppo oscura per mandare una palla a buon segno. Pazientate, li piglieremo entrambi e fra non molto, ve lo giuro.
— Cammina, adunque, e più presto che puoi. Bisogna che tu ti rechi al campo e che mi porti tutto il denaro che trovasi nella mia tenda. Potrebbe darsi che mi occorresse per prezzolare qualche arabo poco scrupoloso.
Il nubiano riprese la corsa, tenendosi dietro le colline sabbiose per non essere scorto dall’arabo e dal turco. Era mezzanotte passata, quando giunse in vista dei primi tugul d’Hossanieh dinanzi ai quali bivaccavano, al chiaro di numerosi fuochi, alcune compagnie di basci-bozuk e di negri d’Etiopia.
Si riposò alcuni istanti, poi s’internò tra i campi di durah e giunse ai piedi di alcune colline aridissime: esitò un momento, poi s’arrampicò su pei dirupati fianchi di una delle più alte, aggrappandosi agli sterpi e ai crepacci e raggiunse quasi la vetta, dove s’arrestò dinanzi a una gran caverna.
— Ci siamo, diss’egli, deponendo il greco a terra.
— È qui che noi pianteremo il nostro nido?
— Sì, padrone, e da questa cima si domina Hossanieh e il campo. Ci sarà facile vedere chi entra e chi esce.
— Sta bene, accendi qualche pezzo di legno per vedere dove si va. Ho paura che abbiamo a incontrare parecchi serpenti.
Il nubiano accese un pezzo di torcia resinosa e tutti e due entrarono con precauzione. Ben presto si trovarono in un ampio stanzone, la cui vòlta era sostenuta da parecchie colonne trasparenti che riflettevano magnificamente la luce. Le pareti, scavate bizzarramente, erano umidiccie ma il terreno, eccettuato un angolo dove raccoglievansi gli scoli che formavano un fossatello, era asciutto e cosparso di una sabbia bianchiccia in mezzo alla quale brillavano pezzi di salgemma. Il nubiano, ammazzati tutti gli scorpioni grigi che l’abitavano, i cui morsi sono pericolosissimi, s’accinse a correre al campo, prima che la notizia della morte di Notis si spargesse e che il pascià Dhafar s’impadronisse di tuttociò che conteneva la tenda.
— Alto là, disse Notis, che seduto su di un macigno si fasciava la ferita. Se tu vai laggiù, non dimenticare d’informarti dove sia Fathma e come vadano le faccende.
Il nubiano sorrise mostrando i candidi denti e scese in fretta la collina correndo verso il campo. Notis, che aveva finito di fasciare la ferita, uscì e andò a sedersi sul limitare della caverna, guardando attentamente il villaggio d’Hossanieh e le tende del piccolo esercito egiziano.
— Essi sono là, dìss’egli con gioia feroce, tutti e due là, a portata della mia mano, a portata della mia vendetta. Parlatevi di felicità, di amori, di immense gioie, ma io schianterò il cuore di entrambi, e in modo che non abbiate a guarire più mai. Non si conosce fino a qual punto sappia odiare il greco Notis.
«Non ho forze ora, m’è impossibile assalirvi di fronte poichè io sono morto, ma troverò io i mezzi per colpirvi e farvi cadere l’uno nelle mani di Elenka e l’altra nelle mie. Io sarò il leone e mia sorella la iena! Oh! allora…
Egli interruppe bruscamente il monologo e si drizzò come spinto da una molla. Al chiaror di un raggio lunare che cadeva sul campo, aveva scorto un mahari dal mantello nero lasciare la tenda dell’arabo Abd-el-Kerim e dirigersi a rapidi passi verso gli avamposti.
Guardando con maggiore attenzione, vide sul dorso dell’animale un uomo avvolto in un gran taub bianco. Impallidì e le sue mani cercarono un’arma.
— Dio mi punisca, se quell’uomo là non è lo Amr, lo schiavo d’Hassarn. Dove può mai recarsi, che lascia il campo a quest’ora?
Notis rimase un istante indeciso, poi si levò e ritornò in furia alla grotta, dalla quale uscì armato della carabina di Takir. Una cupa fiamma brillava nei suoi occhi e il suo volto tradiva un feroce proponimento.
Quantunque le ferite lo tormentassero crudelmente dopo mille sforzi che gli costarono cento bestemmie e cento lamenti dolorosi, scese la erta collina e guadagnò la pianura cosparsa qua e là di intristiti alfèh e di pochi tamarischi. Egli strisciò silenziosamente fino a raggiungere un misero tugul diroccato, una capannuccia di paglia di forma conica. Si nascose lì dietro colla carabina armata e gli occhi fissi sullo schiavo d’Hassarn che si avvicinava rapidamente, aizzando con un fischio, il mahari.
— Bisogna che sappia ciò che quell’uomo porta, mormorò Notis. Con un colpo di carabina gli farò scoppiare la testa come fosse una zucca.
Alcuni minuti dopo il mahari giungeva a centocinquanta passi dal tugul. Amr continuava a fischiare tranquillamente, senza darsi la pena di guardarsi d’attorno, più che sicuro che il luogo era deserto.
Notis credette giunto il momento opportuno per mandarlo nel paradiso di Maometto. Puntò la carabina, mirò per qualche tempo con mano ferma, poi premette il grilletto.
La detonazione non era ancor finita che Amr precipitava di sella, contorcendosi disperatamente fra le erbe.
— All’armi! s’udirono gridare le sentinelle dell’accampamento.
Notis non si sgomentò. Raggiunse l’agonizzante che emetteva rantoli strazianti, cercando di sollevarsi, e l’atterrò spezzandogli la testa col calcio della carabina.
— Sta cheto, disse l’assassino, sogghignando.
Si curvò sul poveretto che non dava più segno di vita, e lo frugò ben bene rovesciandogli tutte le saccoccie. Trovò una lettera accuratamente suggellata che s’affrettò a leggere, valendosi del chiaro di luna, Ecco il contenuto:
«Elenka,
«Non pensate più a me. Il nodo che univa i nostri cuori si è spezzato per sempre sotto il destino e i voleri del Profeta. Non indagate le cause che mi spinsero a lasciarvi, nè cercate di raggiungermi che ormai ogni altro nodo è impossibile. Che Allàh vi conservi e il Profeta vi protegga.
Abd-el-Kerim.»
Il greco, nel leggerla, vacillò come fosse stato côlto da improvviso malore. Una bestemmia gli uscì dalle labbra contratte.
— Ira di Dio! tuonò egli, tenendo il pugno chiuso verso il campo d’Hossanieh. Che i fulmini del cielo m’inceneriscano, se io non vendicherò mia sorella e poi me. Sta bene, Abd-el-Kerim, a noi due ora!…
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