Capitolo VII – Gl’insorti

Respinti gli egiziani, medicati in furia i feriti che fortunatamente non oltrepassavano la mezza decina e riparati alla meglio i danni sofferti dalla darnas, Daùd radunò attorno a sè i suoi uomini per consigliarsi su quello che dovevasi fare. Quantunque avessero la sicurezza che Notis era morto o almeno gravemente ferito e che la dahabiad fosse stata ridotta in uno stato deplorevole, avevano paura che i superstiti riuscissero a guadagnare il villaggio di Mahawir e che lì organizzassero una seconda e assai più forte spedizione. Questa supposizione decise i sennaresi a sciogliere le vele e rimmettersi prestamente in viaggio prima che capitassero altri malanni anzi alcuni proposero di cacciarsi nel braccio sinistro del fiume onde evitare di passare dinanzi al villaggio di Woad-Scelai che trovasi sulla riva del braccio destro, proposta che fu dal reis accettata.

Alle quattro del mattino la darnas lasciava l’ancoraggio, inoltrandosi nel canale formato dall’isola di Gez-Hagiba, qua e là cosparso di banchi sabbiosi e di isolette boscose sulle quali russavano fragorosamente bande d’enormi ippopotami e sonnecchiavano mostruosi coccodrilli. I barcaiuoli per meglio dirigere la navicella, diedero mano ai remi, misurando la battuta con un canto monotono che il reis di quando in quando intonava.

Erano pochi minuti che navigavano, quando in lontananza si udirono fragorose scariche di fucili e urla indescrivibili che andavano man mano crescendo d’intensità. Daùd, Omar e Fathma che si trovavano a prua segnalando i bassi fondi, furono presti ad accorrer a poppa per vedere di che si trattava. In sulle prime non distinsero nulla, ma poco dopo, ad un miglio di distanza, videro alzarsi al disopra degli alberi una grossa nube di fumo biancastro.

— Oh! fe’ Daùd, crollando la testa. Quello là è fumo di fucilate. Cosa mai succede laggiù? Che accada un combattimento?

— Pare di sì, disse Fathma. Odi queste grida? Se non m’inganno sono grida di guerra.

— Forse sono due tribù che si scannano, osservò Omar. La guerra dura eterna in questi luoghi.

— Per Allàh! esclamò Daùd battendosi la fronte. Attaccano la dahabiad degli egiziani. Deve essersi arenata su qualche isolotto a un miglia di qui, ne sono sicurissimo, poichè non potevano più dirigerla.

Amici miei, la fortuna c’è ancora una volta propizia.

— Ma chi vuoi che attacchi dei soldati egiziani?

— Gl’insorti, Omar, i guerrieri di Mohamed Ahmed. Non hai udito un’ora fa, prima che venissero assaliti, una scarica di fucili? Erano i ribelli che pigliavano a moschettate la dahabiad.

— Vuoi che gl’insorti si sieno spinti di già fino al Bahr-el-Abiad?

— E perchè no? Da El-Obeid al Nilo non vi corre una grande distanza. Eppoi, tutto il paese è insorto e le popolazioni si mettono in campagna da un’ora all’altra.

— Non vi sono inglesi adunque da queste parti? chiese Fathma.

— Sì, ho udito dire che il colonnello Coetlegan, con un corpo ragguardevole di egiziani, si aggira sulle rive del Nilo, passando or qua e or là per tenere lontani i ribelli, ma non può essere dappertutto. Vi dico io che i guerrieri del Mahdi attaccano la dahabiad.

— Allora corriamo pericolo anche noi di essere assaliti.

— Sì, se non ci spicciamo a salire il fiume. Per fortuna la darnas è abbastanza solida per affrontare delle fucilate e siamo ancora in buon numero per rispondere all’attacco.

— Zitto, state a udire, disse Fathma.

Ognuno zittì e tese gli orecchi. Le scariche di fucili cessarono tutto d’un tratto e così pure le grida di guerra degli insorti, ma un momento dopo nuove urla echeggiarono per l’aria, ed erano disperate, strazianti, come di persone che vengono assassinate. Daùd involontariamente rabbrividì.

— Gli hanno scannati! mormorò egli con ispavento.

Un sorriso sinistro increspò le labbra di Fathma.

— La vendetta è completa, diss’ella freddamente. Se Notis non era morto, ora lo è. Il Profeta ha esaudito i miei voti.

— L’odiavi ben terribilmente, Fathma.

— L’odiavo a morte, Daùd. Or che lui è morto non mi resta che Elenka da combattere, e per quanto sia feroce e forte, io la infrangerò. Si tratta di sapere ora dove Dhafar pascià l’avrà condotta.

— Noi lo capiremo, padrona, disse Omar, e fra non molto. Il campo egiziano, quando io disertai, era situato a sei o sette miglia da qui. È probabile che noi abbiamo a trovare qualche arabo che ne sappia qualche cosa.

— E se non lo trovassimo?

— Scenderemo fino all’isola di Tura-el-Chadra, giacchè abbiamo preso questo braccio del fiume, e andremo a Keranek dove mi si disse che si aveva accampato Hicks pascià. Andiamo, Daùd, di’ ai tuoi uomini di allungare la battuta, prima che gl’insorti abbiano a raggiungerci. In questi luoghi spira vento poco buono per noi.

— Hai ragione, Omar, rispose il reis.

Emise un grido gutturale e intonò a mezza voce la seguente strofa:

«Quando la donna bianca cammina, la terra toccata da’ suoi piedi mette odor di muschio».

I barcaiuoli subito dopo allungarono la battuta dei remi, raddoppiando la forza e rispondendo festevolmente:

— Elissa!

La darnas sotto quei vigorosi colpi accelerò la corsa, fendendo rumorosamente l’acqua coll’affilata prua e lacerando le grandi distese di piante di loto che formavano inestricabili reti fra i banchi subacquei.

Cominciava allora ad albeggiare all’oriente e permetteva ai naviganti di osservare le due rive della gran fiumana, magnifiche sì, ma affatto deserte. Non un villaggio, non un tugul, non una zeribak, ma invece grandi e pittoresche foreste che si curvavano sulla corrente e ai loro piedi, immerse in parte nell’acqua, grandi piantagioni di papiri, i famosi papyrus degli antichi, piante alte dai due ai tre metri, grosse come un braccio d’uomo, ristrette superiormente e terminate da un ombrello amplissimo, elegante, formato da otto larghe foglie spadiformi ornate di bellissimi fiori bianchi. Gli egiziani, cui danno il nome di berb, se ne servivano anticamente per fabbricare la carta da scrivere colle lamine della corteccia, intrecciando il fusto in forma di tessuto, facevano vasi superbi colle lunghe e striscianti radici, costruivano barche che incatramavano e, secondo Plinio, ricavavano persino vestimenta e vele colla corteccia interna tessuta.

Di quando in quando dalle foreste uscivano svolazzando rapidamente bellissime ibis religiose, uccelli grossi come polli, colle penne bianchissime ma orlate di nero alle estremità delle ali ed al collo, muniti di lunghissimi becchi ricurvi di cui se ne servono per pescare i molluschi o i vermi delle rive del Nilo. Talvolta invece uscivano bande di pellicani grossissimi, con brevi gambe, forti ali, coda rotonda becco enorme la cui mandibola inferiore ha la figura di due branche e che sostiene una specie di sacco formato da una membrana sottile, nuda, che serve a loro di deposito per collocarvi il pesce pigliato. Ve n’erano delle centinaia sui banchi, di questi uccelli, occupati a spennacchiarsi e facendo un baccano del diavolo.

Per tutto il dì la darnas continuò a navigare costeggiando ora le due grandi isole che dividono il fiume in due bracci distinti, il vero Bahr-el-Abiad e il Ch-el-Ale, sperando sempre di scorgere qualche posto di egiziani dell’esercito di Dhafar pascià, ma senza nulla trovare.

Verso le sei della sera, con buon vento giunse nelle vicinanze della costa meridionale dell’isola Tura-el-Chadra, all’est della quale sorge il villaggio di Duêm. Fathma avrebbe voluto scendere a terra per vedere se potevasi trovare qualche barcaiuolo o qualche contadino e interrogarlo sulla direzione presa da Dhafar, ma Omar, che temeva e non a torto, che nelle vicinanze accampasse qualche banda d’insorti, credette bene di opporsi e di tirare innanzi.

La notte non tardò a scendere con quella rapidità che è propria nelle regioni equatoriali, avvolgendo in un nero manto le boscose rive dalla fiumana. Daùd, che non si sentiva del tutto tranquillo, fece spiegare tutta la tela che era a bordo per non essere raggiunto da qualche canotto di insorti che poteva tenersi celato fra i papiri o le canne e si mise in persona alla ribolla del timone dopo di aver fatto caricare il cannone e portare armi e munizioni in coperta.

Erano le dieci di sera. La luna si alzava scialba scialba dietro le montagne di Arax-Kol, i cui picchi aguzzi apparivano al disopra delle foreste e un venticello fresco fresco corrugava la placida superficie delle acque e piegava con lieve mormorìo le canne e le grandi foglie dei papiri.

Sulle rive del fiume ruggivano, ridevano o urlavano leoni, jene e sciacalli che si dissetavano e in mezzo alla corrente scherzavano giganteschi coccodrilli spruzzando la darnas colle possenti loro code. D’improvviso in distanza echeggiò un gran grido rauco, selvaggio, ma umano. Si avrebbe detto un segnale, un richiamo, un grido d’allarme.

Daùd e i barcaiuoli appena uditolo si erano tutti alzati scrutando attentamente le rive del fiume. Presentivano istintivamente che qualche pericolo li minacciava.

Passarono sei o sette minuti, poi quel grido tornò a ripetersi, più vicino, più forte, più vibrante facendo cessare d’un subito il concerto orribile delle belve attruppate sulla riva. Il reis si affrettò a portarsi a prua dove s’incontrò con Omar che stava armando la sua carabina.

— Hai udito? chiese il sennarese a bassa voce.

— Perfettamente. Daùd, rispose il negro.

— Che ne dici?

— Che quel grido fu un segnale.

— Degli insorti?

— Ho tutte le ragioni per crederlo mandato da qualche sentinella degli insorti. Stiamo attenti, Daùd che possiamo venire attaccati.

— Se ritornassimo?

— Gl’insorti ci attaccheranno egualmente, ne sono sicuro. Tiriamo invece innanzi più rapidamente che ci è possibile, Se possiamo giungere all’estremità sud dell’isola potremo salvarci a Keranek che non dista che poche miglia dalla riva sinistra del fiume e una volta…

— Taci! disse improvvisamente il reis. Odi?

Omar tese l’orecchio. Sulla riva sinistra si udiva il cigolìo monotono ed insieme lamentevole che fanno le ruote dei mulini girando sui consunti perni ed un muggito di buoi. Quasi subito, ad una svolta del fiume, apparvero tre o quattro ruote gigantesche in movimento.

— Vi sono delle zacchie, disse Omar. Allora vi sono dei guardiani.

Infatti erano quattro zacchie che inaffiavano dei campi di durah. Queste zacchie, che sono numerosissime sulle rive del Nilo, consistono in una ruota perpendicolare alla quale sono attaccati con corde moltissimi vasi di terra. Ogni ruota comunica con un’altra orizzontale fornita di un grosso perno mosso dalla forza di due tori che girano scambievolmente dì e notte su di un impalcato di legno cosparso di terra. Gli Egiziani e i Sennaresi amano molto il cigolìo di queste ruote, prodotto artificiosamente con un miscuglio di grasso e di carbone pesto e apprezzano le zacchie che cigolano forte poichè tengono sveglio il ragazzo che vigila sui tori, quindi queste non si fermano, e allontanano gl’ippopotami che potrebbero ucciderli. Hanno anche premura che il cigolìo continui sempre poichè credono che se cessasse, cesserebbe pure la vita del proprietario.

La presenza di quelle zacchie che continuavano a girare cominciava a rianimare i barcaiuoli, i quali supponevano che il grido udito fosse stato mandato da uno dei guardiani. Omar già stava per chiamare uno di quegli uomini per chiedere che significasse quel segnale, quando un urlo prolungato, straziante, ruppe il silenzio che regnava sul fiume. Qualche cosa di grande e di nero cadde nell’acqua sollevandola a grande altezza. Quasi subito si videro i coccodrilli nuotare in furia verso la riva sinistra e li udirono chiudere le grandi mascelle con un rumore analogo a quello che fa un cassone chiudendosi.

— Oh! fe’ Omar che cadeva di sorpresa in sorpresa. Che diavolo succede?

Un altro grido scoppiò poco dopo seguito da un altro tonfo. Altri coccodrilli che sonnecchiavano sui banchi di sabbia, si slanciarono in acqua nuotando verso le zacchie. Tutti i barcaiuoli, ansiosi e un po’ sgomentati, si precipitarono a tribordo coi fucili in mano, cercando di indovinare ciò che succedeva sulla riva sinistra.

— Che succede? chiese una voce calma dietro a Omar.

— Ah! sei tu padrona? disse lo schiavo riconoscendo Fathma.

— Sì, che significano queste grida e questi tonfi?

Omar in poche parole la mise al corrente dell’accaduto, esponendo i suoi timori sulla probabile vicinanza degli insorti.

— Credi tu che queste grida provengano dai guardiani delle zacchie? domandò l’almea quando egli ebbe finito.

— Sì e temo che quei corpi gettati nel fiume e che i coccodrilli stanno disputandosi, non siano altro che quelli dei poveri diavoli assassinati.

— Allora corriamo un serio pericolo.

— Sicuro, padrona, ed è per questo che non sappiamo se avanzare o dare indietro, disse Daùd. Che faresti tu?

— Andrei innanzi, rispose Fathma senza esitare. Non ho paura dei ribelli.

— E così sia; sforzeremo il passo.

Non aveva ancora finito l’ultima parola che un baccano spaventevole scoppiò sulla riva sinistra. Era un misto di urla, di fischi, di abbaiamenti, la più spaventevole cacofonia insomma, che mai abbia ferito l’orecchio umano. Sei o sette fuochi s’accesero comunicandosi alle zacchie che in un batter d’occhio furono in preda alle fiamme e al chiarore rossastro di quegli incendi furono visti grossi attruppamenti di negri imboscati fra le piante di durah e fra i papiri.

— Attenzione! gridò Daùd, balzando indietro.

Una scarica formidabile partì dalla riva seguita da urla ancora più formidabili; una grandine di palle cadde sibilando sulla darnas forando le vele, recidendo le corde, colpendo coloro che non avevano avuto il tempo di ripararsi dietro la bordatura.

— Fuoco! tuonò la voce di Fathma,

La darnas s’infiammò come un cratere. Al crepitar della fucilata si unisce il rimbombo del cannone che tira a mitraglia contro le ardenti zacchie e contro gl’insorti che le circondano. S’odono urla di dolore, bestemmie, comandi precipitati, tonfi di uomini che colpiti a morte cadono nel fiume. I coccodrilli si gettano confusamente verso la riva presso la quale galleggiano numerosi torsi d’ebano già resi immobili od ancora in preda a spaventevoli convulsioni.

— Ai remi, ai remi, grida Daùd,

Alcuni barcaiuoli, sfidando il fuoco degli insorti che cresceva terribilmente, si slanciarono ai remi, ma caddero a mezzo ponte. La darnas, abbandonata a sè stessa per la morte del timoniere, girò di bordo e andò ad arenarsi colla prua contro un isolotto. L’urto che accadde fu così violento che gli alberi si spezzarono cadendo colle immense loro vele. Due barcaiuoli rotolarono sul ponte colle teste sfracellate.

Sulla darnas regnò in breve la confusione. I barcaiuoli, perduto il loro sangue freddo, si slanciarono a poppa coll’intenzione forse di abbandonare la barca e salvarsi sulla riva opposta, ma il fiume era pieno di coccodrilli venuti da tutte le parti per prendere parte a quell’orgia di carne umana, di più la fucilata dei ribelli continuava terribile, lacerando l’aria per ogni dove.

— Mille saette, tutti a prua! urlò Daùd. Tutti a prua, cani di barcaiuoli!

— A prua! a prua! ripetè Fathma, che rispondeva bravamente al fuoco del nemico.

I barcaiuoli compresero il pericolo e ritornarono dietro la bordatura di prua, riparandosi meglio che era possibile. Era tempo.

Gl’insorti, vista la darnas arenata, si erano gettati tutti in acqua fugando i coccodrilli a colpi di lancia e si arrampicavano a dozzine sui banchi sabbiosi portando seco enormi travi colle quali speravano di sfondarla. La fucilata, interrotta, ricominciò ancora più furiosamente, serrata, implacabile, mortale.

La mitraglia fischiava sollevando le acque, scarnando orrendamente coloro che venivano tocchi dai proiettili; il sangue correva a torrenti e arrossava le onde del Nilo. Le canne dei fucili scottavano: erano ardenti.

I ribelli arrivano a decine, a dozzine, a ventine, a trentine, agitando freneticamente le scimitarre, le lance, le mazze, i fucili, sfidando imperterriti il fuoco infernale della darnas e cercando di arrampicarsi sul bordo urlando a chi più può. I barcaiuoli, ai quali l’imminenza del pericolo infondeva un disperato coraggio, si difendevano strenuamente coi fucili, colle pistole, cogl’jatagan, colle scimitarre, colle scuri e persino coi remi, martellando, puntando, forando, schiacciando, tagliando in piena carne. Daùd, Omar e l’intrepida Fathma colle scimitarre in pugno troncavano tutte le mani che cercavano di aggrapparsi al bordo della darnas e spaccavano orribilmente le teste che s’alzavano verso di essi.

Era una carneficina, uno spaventevole massacro che la luce rossastra delle zacchie in fiamme rendeva ancor più orribile. I barcaiuoli, anneriti dalla polvere, madidi di sudore e di sangue che colava dalle ferite, non potevano più far fronte a quell’onda di ribelli che ingrossava ad ogni istante e che si precipitava ciecamente all’assalto mugolando come una banda di tigri. Già più che mezzi sfiniti, esangui, avevano abbandonato il posto ed erano caduti sul ponte rantolando, quando un cozzo formidabile avvenne a prua.

La darnas, spinta all’indietro da una forza irresistibile, lasciò il banco e tornò a galleggiare, indietreggiando. Una trave avventata da quindici o venti uomini uniti, l’aveva percossa sotto la ruota di prua schiantando due o tre madieri; tutti i barcaiuoli, perduto l’equilibrio, caddero sul ponte fra le urla indescrivibili dei negri che non ardivano gettarsi in acqua ove nuotavano sempre numerosissimi coccodrilli occupati a rimpinzarsi della carne dei cadaveri.

Quando si rialzarono per accorrere ai remi un grido d’angoscia sfuggì da tutti i petti. La darnas, spezzata a prua dalla spaventevole botta, imbarcava enormi getti d’acqua, affondando rapidamente!

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