Calava la notte quando i tre cavalieri lasciavano gli ultimi alberi della foresta del Bahr-el-Abiad inoltrandosi arditamente nel deserto.
La luna, che alzavasi allora allora, rossa come un disco incandescente, illuminava vagamente quelle sterminate pianure del Kordofan, aride, sabbiose calcinate dagli ardente raggi del sole equatoriale. La vista che esse presentavano in quell’ora non poteva essere più sinistra, più bizzarra, più desolante.
Colline di sabbia formate dallo spirar furioso del simoum, si succedevano le une alle altre, in mille differenti guise, fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Era molto se si scorgeva qualche palmizio intristito, ingiallito, morente di sete; era molto se vedevasi qualche gruppetto di cespugli uscire fra le sabbie accumulate. Non un tugul non un zeribak, nemmeno il più piccolo recinto che indicasse la dimora di qualche essere umano.
Lunghe file di ossa biancheggiavano lugubremente su quei polverosi terreni; ossa di cammelli, ossa di buoi e di cavalli ma non di rado anche ossa umane che torme di schifose jene e di sciacalli rosicchiavano avidamente manifestando la loro soddisfazione o la loro delusione con atroci scrosci di risa e con urla lamentevoli che si ripercuotevano di collina in collina.
Il guerriero di Abù-el Nèmr, dopo aver esaminato attentamente la pianura e di aver dato uno sguardo alla stella del nord per non smarrire la via, spronò il cavallo dirigendosi verso l’occidente. Fathma e Omar, dopo aver calato il cappuccio del taub sugli occhi per difendersi dalle sabbie e di aver collocato il fucile dinanzi alla sella, si misero dietro alla guida nel più profondo silenzio.
Faceva un caldo veramente terribile, quantunque la notte fosse di già assai inoltrata. Nessun soffio di vento spirava al disopra di quelle sconfinate e deserte pianure arse e riarse dal sole. Talvolta pareva che uscissero dal suolo vampe di fuoco.
I cavalli, uniti, a capo basso, grondanti di sudore, avanzavano con grande fatica e alzavano nubi di polvere impalpabile che penetrava negli occhi per quanto ben chiusi fossero, che penetrava nel naso nella bocca e nei polmoni rendendo la respirazione difficile e penosa. I cavalieri, presi da violenti colpi di tosse, ogni qual tratto erano costretti ad accostare alle labbra la fiaschetta dell’acqua, per inumidire la gola secca, arsa.
Per dieci ore marciarono senza interruzione, scendendo e salendo le colline, facendo spesso fuoco contro le bande di jene che rese audaci dal numero si avvicinavano minacciosamente con risa sgangherate, poi fecero alto. L’orizzonte allora s’infiammava e il sole alzavasi rapido rapido inondando la pianura di luce e di fuoco; sfidare quel calore sarebbe stata follìa.
La tenda che portava il guerriero fu rizzata e ognuno si affrettò a ripararvisi sotto aspettando con impazienza la notte per ripigliare la faticosa marcia.
Appena infatti il sole sparve all’occidente si rimisero in sella mantenendo una via rigorosamente diritta a El-Obeid, guidandosi sempre colla stella nord che per gli arabi vale quanto la bussola e forse meglio.
Così, per sette lunghe notti galopparono attraverso a quelle immense pianure, evitando con gran cura le borgate per non incorrere in imbarazzi, quantunque un ribelle li guidasse. All’ottavo giorno essi fecero alto a una trentina di miglia dal villaggio di Rakai, in una pianura cosparsa di monticelli pietrosi e di piccole oasi ricche di palmizi e di acacie gommifere.
Erano le sei di sera. La tenda era stata di già rizzata e si preparavano a cuocere alcuni grani di durah, gli ultimi che possedevano, quando Omar si accorse che le otri non contenevano nemmeno una goccia d’acqua. Questa scoperta, trovandosi in mezzo a quel deserto, lo sgomentò.
— Dove possiamo trovarne? chiese egli al guerriero che fumava beatamente sul limitare della tenda
— L’ignoro, ma in qualche luogo la troveremo rispose l’interpellato. Il paese che attraverseremo domani manca totalmente di pozzi.
— Ti ricordi di aver visto qualche fonte, questa notte?
— No, ma adesso che ci penso, quattro o cinque miglia verso il sud deve trovarsi un pozzo, quello di Gelba, mi pare.
— Bisogna andarci, disse Fathma. Tanto noi che i cavalli siamo morenti di sete. Hai paura tu a recarti a quel pozzo?
— È ancora giorno e le bestie feroci sono rifugiate nelle loro tane; non posso incontrare che dei ribelli e questi non faranno male alcuno ad un loro fratello d’armi, rispose il guerriero. Fra due ore sarò di ritorno.
Fe’ alzare il suo cavallo dilombato da tante corse, vi appese ai fianchi una dozzina di otri, salì in sella e dopo di aver cangiata la polvere al suo moschettone partì alla carriera. Dieci minuti dopo scompariva dietro le colline di sabbia.
Era trascorsa appena un’ora quando una rumorosa detonazione d’arma da fuoco fece saltare in piedi Omar e Fathma. In sulle prime credettero che fosse stato il guerriero che avesse tirato su qualche capo di selvaggina, ma alcune grida lontano e un rumore sordo sordo come di parecchi cavalli lanciati alla carriera e che andava rapidamente avvicinandosi, fecero a loro supporre che fosse invece accaduta qualche disgrazia.
— Resta qui e prepara i cavalli, disse Omar pigliando il fucile. Io vado a vedere cosa è successo.
Si diresse verso la collina più vicina che alzavasi una sessantina di metri sul suolo e la scalò. La scena che vide dall’alto della vetta gli agghiacciò il sangue nelle vene.
A soli ottocento passi di distanza trottava furiosamente il cavallo Abù-Rof, trascinandosi dietro il guerriero insanguinato, un piede del quale era rimasto impigliato nella staffa. A mille passi e forse meno, galoppavano venti cavalieri colle lancie in aria e urlando come ossessi.
Il negro non volle saperne di più. Scese a precipizio la collina e corse verso la tenda giungendovi nel momento in cui Fathma terminava di bardare i cavalli.
— I ribelli! esclamò egli. A cavallo, padrona, presto che fra poco ci saranno alle spalle!…
— Come? E il guerriero? chiese l’almea arrestandolo violentemente.
— L’hanno ammazzato. A cavallo! a cavallo!
Le grida andavano avvicinandosi sempre più. Omar e Fathma, senza aggiungere parola balzarono in arcione spronando furiosamente i cavalli.
Avevano appena percorso cinquecento passi che la banda nemica compariva. Vedendo i due fuggiaschi lasciarono il cavallo del guerriero per dare la caccia a loro.
— Dove andiamo? chiese Fathma, senza volgersi indietro.
— Dritti a quella gola che vedi laggiù, rispose Omar. Sferza o siamo perduti.
La pianura fu attraversata alla carriera coi ribelli alle calcagna che percuotevano colle aste delle lancie gli affranti loro corsieri. I due fuggiaschi stavano per cacciarsi nella gola designata che metteva capo ad una foresta, quando una banda di quindici negri armati di fucili, sbarrò la via.
— Maledizione! esclamò Fathma, rattenendo violentemente il corsiero.
— Siamo perduti! urlò Omar, strappando la carabina e armandola.
— Olà! gridò in quella uno dei negri, fatevi da un lato che malmeneremo noi quei cani di ribelli. Su i fucili! Fuoco!
Una scarica formidabile seguì il comando. Cinque ribelli vuotarono sconciamente l’arcione insanguinando le sabbie. Gli altri, dopo di aver un momento esitato volsero le briglie dandosi a precipitosa fuga fra una densa nube di polvere.
— Là, così va bene, ripigliò con accento allegro la medesima voce di prima. Ohe! fatevi innanzi senza paura, che non siamo Abù-Ròf, noi.
Fathma e Omar, ancora sorpresi da quell’inaspettato soccorso, si affrettarono a raggiungere i loro salvatori. Erano quindici uomini semi-nudi, d’alta statura, magri e ossuti. Riconobbero subito in quelli dei giallàba, trafficanti dongolesi che viaggiano tutto il tempo dell’anno pel Kordofan portando durah e maiz, infaticabili camminatori dotati di una frugalità eccessiva. Basta un pugno di grano ogni ventiquattr’ore per accontentare quei negri, che sanno però, quando si presenti loro l’occasione, divorarsi un montone intero in due o tre persone.
Il loro capo aiutò galantemente Fathma a discendere da cavallo baciandole la mano.
— Posso chiamarmi fortunato di aver salvato una così bella araba, diss’egli, sorridendo. M’immaginai subito che quei cani di ribelli ti dessero la caccia. Sei ferita?
— Niente affatto, mio bravo giallàba, rispose Fathma. Lascia che io ti ringrazi d’avermi salvata.
— Non corriamo troppo, tu non puoi chiamarti ancora salva.
— Cosa intendi di dire? esclamò l’almea sorpresa.
— Credi tu che i ribelli non tornino alla carica? Non sarei sorpreso se fra un paio d’ore ci vedessimo capitare addosso un due o trecento di loro.
— E non ti fanno paura?
— Altro che paura, io rabbrividisco al sol pensarlo.
— E che intendi di fare?
— Faccio montare i miei uomini e me la batto. Se vuoi venire con noi?
— Dove vai?
— Al campo di Hicks pascià per arruolarmi sotto la sua bandiera.
— Ma anch’io vado al campo di Hicks! esclamò l’almea.
— Meglio così; allora verrai con noi.
— Credi che la via sia libera?
— Uhm! fe’ il giallàba crollando il capo. Ne dubito.
— Credi che quei selvaggi abbiano tanto coraggio da ronzare attorno al campo Egiziano? Hicks pascià, se non erro, deve avere con sè un esercito di dieci od undicimila uomini.
— E il Mahdi duecentomila. Sai che ho una paura maledetta che un dì o l’altro Hicks o Aladin pascià vengano sconfitti? Quel diavolo di Mohamed-Ahmed è un uomo di ferro e di gran coraggio che dirige le sue bande come noi dirigiamo i nostri mahari e fors’anche meglio. I suoi guerrieri non hanno paura della morte, perchè il furbo ha dato ad intendere che chi morrà combattendo per la santa causa andrà dritto in paradiso a trovare le urì. Con simile promessa anche i più vigliacchi diventano leoni.
— Sai tu quali idee abbia Hicks pascià?
— Di muovere su El-Obeid, a quanto potei udire. Pare che voglia dare il colpo di grazia al Mahdi privandolo della sua capitale che è anche il suo quartier generale. Bisogna raggiungerlo prima che dia battaglia. Orsù tutti in sella e avanti, prima che arrivino quei cani di Abù-Rof.
I diciasette uomini ubbidirono e si cacciarono nella gola, sbucando in una seconda pianura sabbiosa ondulata, perfettamente deserta, limitata all’est e all’ovest da rocce colossali, dirupate, di una aridità spaventosa. I cavalli vennero spronati e si diressero al galoppo verso l’occidente sollevando ondate di finissima polvere bianca.
Per quattro ore consecutive viaggiarono con celerità sorprendente, poi, essendo i cavalli stanchi, si arrestarono nelle vicinanze di un largo pozzo colmo di acqua sulle cui rive s’alzavano due grandi palmizi. Fathma additò al capo giallàba una gran zeribak che mostrava qua e là dei varchi.
— Possiamo accamparci là dentro, diss’ella. Siamo abbastanza lontani dal luogo dello scontro. Gli insorti non ci raggiungeranno più.
— Veramente il luogo non mi pare adatto, rispose il giallàba. Siamo troppo vicini a questo pozzo.
— E che vuol dir ciò?
— Che tutte le bestie feroci, essendo la pianura arida, verranno dissetarsi qui. Corriamo il rischio di passare il rimanente della notte assai malamente.
— Abbiamo i nostri fucili, rispose Fathma.
I giallàba si affrettarono a raggiungere la zeribak nella quale trovavasi abbondante raccolta di fieno, di sterpi e di sterco di cammello, usato dagli arabi per accendere il fuoco. I cavalli furono legati, i fuochi accesi e la magra cena di durah in un batter d’occhio fu preparata e divorata.
Dopo di aver a lungo discusso sulla via da tenersi all’indomani, ciascuno s’accomodò alla meglio coi piedi rivolti al fuoco, acceso nel mezzo della zeribak. Erano le due quando Omar fu svegliato dal nitrire e dallo scalpitare disordinato dei cavalli.
Si levò, prese la carabina e si spinse fuori della zeribak. La luna faceva capolino fra uno squarcio delle nubi e illuminava vagamente la pianura fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Il negro s’arrestò sorpreso e spaventato alla vista di sei o sette leoni che s’avanzavano silenziosamente verso il recinto tenendosi dietro le collinette sabbiose. Alzò l’arma e tolse di mira uno di essi ma poi l’abbassò e andò a svegliare Fathma.
— In piedi, padrona, diss’egli, con un tono di voce che non ammetteva replica.
— Gli Abù-Ròf sono vicini forse? chiese l’almea alzandosi subito.
— No, ma s’avvicinano dei nemici ancor più pericolosi di quei ladroni. Vi sono dei leoni che vengono a questa volta.
Fathma non disse verbo. Armò la sua carabina e seguì il negro fuori della zeribak.
Non erano più sei o sette leoni, ma una ventina. Alcuni strisciavano e altri saltellavano fra le sabbie colla criniera al vento emettendo bassi ruggiti,
— Che facciamo? chiese Omar spaventato.
— Or ti farò vedere, rispose tranquillamente l’almea.
Appoggiò la carabina sulla biforcazione di una magra acacia che cresceva stentatamente fra le sabbie mirò attentamente il leone più vicino.
— Fuoco! mormorò ella.
La detonazione non era ancora cessata che il felino faceva un salto di quindici piedi ricadendo poi su un fianco. I giallàba al rumoroso scoppio saltarono in piedi colle armi in pugno, credendo d’aver a che fare cogli Abù-Ròf.
— All’erta! gridò Fathma caricando prontamente l’arma.
— Che accadde? chiesero i giallàba accorrendo presso di lei.
— Tutti nella zeribak! comandò Omar.
I cavalli nitrivano di spavento, scalpitavano e saltellavano cercando spezzare i legami e al di fuori i leoni ruggivano con furore e minacciavano di varcare le cadenti barriere del recinto.
I giallàba, perduto il loro sangue freddo, si precipitarono confusamente nella zeribak cercando di salire sui cavalli per darsi alla fuga. Fathma si gettò in mezzo a loro colla carabina spianata.
— Fermi tutti! gridò ella. Chi si muove è uomo morto!
Nuovi leoni erano comparsi dietro alla zeribak e tagliavano la ritirata. La pianura s’empì di ruggiti formidabili, che crescevano ad ogni istante d’intensità e ai quali facevano eco le smodate e lugubri urla dei sciacalli.
— Attenzione! gridò ad un tratto Omar, dominando colla tonante sua voce quello spaventevole baccano.
Due leoni, i più grossi e forse i più affamati della banda, s’avanzavano verso la zeribak con salti giganteschi. I giallàba, dopo di aver esitato, si fecero animo e scaricarono le loro armi, mirando alla meno peggio. Uno degli assalitori cadde, ma l’altro continuò la corsa, varcò la palizzata e si precipitò proprio nel mezzo della zeribak rovesciando il capo dei negri e addentandolo furiosamente alla nuca.
S’udì un grido straziante, terribile, supremo. I giallàba si gettarono verso i cavalli urlando disperatamente ma Fathma si slanciò addosso al felino che ruggiva spaventosamente dilaniando orrendamente la vittima e gli spaccò la testa con un colpo di jatagan.
Non ebbe nemmeno il tempo di curvarsi sul povero negro ormai morto, perchè altri leoni assalivano il recinto. Omar alla testa dei più coraggiosi li accolse con un fuoco nutrito di carabine; tre o quattro furono fulminati, due ammazzati a colpi di scimitarra e gli altri s’allontanarono in furia, prendendo diverse direzioni.
Non vi era un momento da perdere se volevano salvarsi. Omar si avvicinò a Fathma che caricava tranquillamente la carabina.
— Padrona, le disse. Se non approfittiamo di questo momento di tregua per fuggire, prima di domani saremo tutti morti.
— E dove dirigersi? chiese l’almea.
— O al nord o al sud o verso qualunque altro punto, purchè si fugga.
— Ma la pianura formicola di leoni,
— Ce li lascieremo indietro. I cavalli sono spaventati e andranno più rapidi del simoum.
— Ma corriamo il pericolo di venire raggiunti.
— Non aver paura. I nostri cavalli galopperanno più dei leoni, te l’assicuro. Orsù, non vi è da esitare; tutti sono pronti a fuggire. Approfittiamo.
Fathma gettò uno sguardo all’intorno. I leoni continuavano a saltellare nella pianura, a meno di quattrocento passi dalla zeribak e i giallàba s’affannavano a bardare i cavalli.
— In sella! comandò ella risolutamente.
I giallàba si slanciarono sul dorso dei cavalli che s’impennavano sferrando calci per ogni dove, nitrendo di spavento e con gli occhi in fiamma. Ognuno raccolse le briglie, strinse fortemente le ginocchia e impugnò l’jatagan e le pistole.
— Attenti! gridò Fathma allentando le briglie. Via tutti.
I cavalli spronati a sangue s’affollarono confusamente all’apertura della zeribak e si slanciarono con rapidità fulminea attraverso l’arida pianura. I leoni, vista la preda fuggire, si gettarono sulle loro traccie facendo salti giganteschi.
— Mano alle pistole! comandò l’almea che aggrappata alla criniera dell’impaurito corsiero, cavalcava in testa a tutti.
Fra cavalli e leoni s’impegnò una gara furiosa. I giallàba, curvi in sella, tempestavano di sferzate i destrieri e laceravano loro le carni cogli jatagan, procurando di mantenersi in gruppo serrato. Tratto tratto si volgevano indietro per vedere se i leoni guadagnavano via e scaricavano le pistole, ma le palle si perdevano altrove.
In capo a dieci minuti i cavalli, spossati dalle precedenti corse, cominciarono a rantolare e a dare segni di stanchezza. Uno di essi intoppò in una pietra e cadde balzando d’arcione il cavaliere; tre leoni si gettarono sul disgraziato e lo fecero a brani ancora prima che si potesse alzarsi per difendersi.
— Avanti! avanti! coraggio! gridò Fathma che non si smarriva d’animo. Tenetevi riuniti e spronate a sangue. Se teniamo duro i leoni ci lasceranno. Attenti agli ultimi: sferzate! sferzate!
Un grido terribile, straziante seguì la sua ultima parola. Un altro cavallo cadde trascinando nella sua caduta colui che lo montava. Altri quattro s’accasciarono e altri quattro uomini furono sbranati; un quinto precipitava di sella, un momento dopo fracassandosi la testa contro un macigno.
Fathma e Omar che possedevano i migliori cavalli, visto che era impossibile salvarsi, allentarono le briglie e si lasciarono indietro gli altri che, pazzi di terrore, cominciavano a sbandarsi prendendo diverse direzioni. L’almea e il negro si diressero verso alcune colline inseguiti da una dozzina di quei terribili carnivori, scaricando di quando in quando le pistole sul più vicino di essi.
In lontananza s’udivano le grida disperate degli sbandati che venivano ad uno ad uno raggiunti e scoppi d’armi da fuoco.
— Sprona, Omar, sprona! gridò ancora una volta l’almea tempestando il cavallo coll’impugnatura dell’jatagan.
Erano giunti allora ad un trecento passi dalle colline e già credevano ormai di essere salvi, quando il cavallo di Omar rotolò a terra. Il negro si drizzò coll’jatagan in mano.
— Aiuto! aiuto! gridò egli.
Due leoni gli correvano sopra colle bocche spalancate, Fathma ritornò indietro alla carriera per accorrere in suo soccorso.
— Aiuto! aiuto! ripetè il negro.
— All’armi! gridò una voce tonante.
Due drappelli di egiziani uscirono di corsa da una gola formata da due colline e scaricarono i loro fucili sui leoni che batterono rapidamente in ritirata. Fathma si precipitò di sella correndo accanto a Omar.
— Gli egiziani? esclamò ella.
— Allàh sia ringraziato, Fathma, disse il negro stringendole fortemente le mani. Noi siamo salvi.
— E i giallàba?…
— Non pensiamo più ad essi. I disgraziati sono caduti dal primo all’ultimo. Vieni, Fathma, andiamo incontro ai salvatori che non abbiamo più nulla da temere.
Gli egiziani si avanzavano a passo di corsa. Un ufficiale inglese camminava alla loro testa. Appena egli giunse dinanzi all’almea portò rispettosamente la mano al berretto.
— Sono felice di essere giunto in tempo di salvarvi, diss’egli gaiamente.
— Grazie, comandante, disse Fathma. Senza di voi e dei vostri valorosi compagni a quest’ora sarei morta.
— Lo credo bene. Da dove venite? come mai vi trovate qui?
— Vengo dalle rive del Bahr-el-Abiad e cerco Hicks pascià,
— Il mio generale! esclamò sorpreso l’inglese.
— Sicuro. Accampa lontano? Devo recarmi subito da lui.
Il campo dista una mezza dozzina di chilometri. Mi dispiace di non potervi accompagnare.
— Vi accompagnerò io, miss, disse un uomo vestito di bianco, con un cappello a cupola ornato di un velo verde.
— Perdio, avete ragione! esclamò l’ufficiale. Miss, permettetemi che vi presenti sir O’Donovan, corrispondente del giornale il Daily News di Londra.
O’Donovan stese la mano all’almea che gliela strinse amichevolmente, sorridendo.
— Miss, disse il reporter del giornale londinese inchinandosi dinanzi a lei. Sono a vostra disposizione.
Speak Your Mind