Quei due fieri uomini, nei quali l’odio era pari, si erano attaccati con vero furore, decisi a non accordarsi quartiere.
Entrambi valorosi ed esperti nella difficile arte della scherma, dovevano durare a lungo, prima che le loro lame bevessero il sangue dell’uno o dell’altro. Il Corsaro, dopo i primi colpi, era diventato prudente. Aveva compreso d’aver da fare con una lama formidabile che non la cedeva alla sua, ed aveva frenato i suoi impetuosi attacchi, imponendo la calma ai nervi. Il duca, quantunque non fosse più giovane, si batteva splendidamente, parando destramente le fulminee stoccate del suo avversario e vibrandone quando gli si presentava l’occasione.
Tutti tacevano: la marchesa, appoggiata ad una sedia, seguiva attentamente le mosse dei due avversarii come una dilettante; i filibustieri, appoggiati alle porte, colle navaje però in pugno, non staccavano gli sguardi dal loro capitano; solamente Yara pareva vivamente commossa. Rannicchiata in un angolo della stanza, guardava fissamente il Corsaro con due occhi umidi. La povera giovane tremava forse pel suo vendicatore e protettore e sussultava ogni volta che lo vedeva parare una botta o fare un passo innanzi.
Le due lame, destramente maneggiate da quei due formidabili uomini, stridevano e fiammeggiavano alla viva luce delle candele.
Il cozzare dell’acciaio era il solo rumore che rompesse il silenzio che regnava nella sala.
Il Corsaro incalzava sempre con grande vivacità, cercando di costringere l’avversario a rompere. Ogni volta che questi accennava ad una ripresa, moltiplicava le stoccate e le finte, rendendo impossibile ogni combinazione già studiata. Il duca cominciava a perdere la calma e ad esaurirsi. Un copioso sudore freddo gli bagnava la fronte e la sua respirazione diventava a poco a poco affannosa.
Invece il Corsaro pareva che si fosse messo in guardia appena allora. Nessuna stilla di sudore e nessun indizio di stanchezza, anzi pareva che la sua agilità diventasse, di momento in momento, più impetuosa. Ad un tratto il duca, stretto da vicino e tempestato di stoccate, fece un primo passo indietro.
Un grido sfuggì alla marchesa di Bermejo.
«Ah!… Duca!…»
«Silenzio, signora!» tuonò il Corsaro.
Il duca, punto forse sul vivo dal grido della bella marchesa, e che suonava come un rimprovero, con un fulmineo attacco cercò di riguadagnare il passo perduto e ricevette invece una stoccata che gli lacerò la giubba proprio in direzione del cuore.
«Morte dell’inferno!» gridò, furioso.
«Troppo corto,» rispose il Corsaro.
«Sarà più lungo questo,» rispose il duca andando a fondo con una botta di seconda.
«Allora prendi questa stoccata,» rispose il Corsaro che aveva parato.
E scartando bruscamente, si curvò fino quasi al suolo, spostando contemporaneamente la gamba sinistra. Era il così detto colpo del cartoccio, uno dei più pericolosi della scuola italiana.
Il duca che forse lo conosceva, fu in tempo per evitarlo, facendo un balzo indietro. La botta era stata parata, però aveva perduto altri due passi e si trovava quasi a ridosso al muro.
Il duca però, accortosi di essere già giunto all’estremità della sala, aveva rotta la sua linea, indietreggiando obliquamente verso un angolo. Voleva ritardare di qualche minuto l’istante in cui si sarebbe trovato addosso alla parete o aveva qualche segreto scopo?
Carmaux, vedendolo prendere quella direzione, aveva corrugata la fronte ed aveva guardato attentamente quell’angolo, senza trovare nulla che potesse confermare il sospetto che gli era balenato nel cervello.
«Cosa vuol fare quel vecchio volpone?» si chiese. «Questa marcia obliqua non mi va.»
Apriamo gli occhi e teniamoci pronti.
Il Corsaro, interamente occupato ad incalzare vigorosamente l’avversario, non aveva fatto alcun caso a quella marcia sospetta.
Il duca, convinto ormai della superiorità del Corsaro, non assaliva più. Tutta la sua attenzione era concentrata nelle parate. Indietreggiava sempre, tastando prima il terreno col passo sinistro per non trovarsi improvvisamente addosso a qualche sedia, accostandosi all’angolo della stanza.
«Sei mio!» gridò ad un tratto il signor di Ventimiglia, avanzandosi d’un altro passo. «Assassino dei miei fratelli, finalmente ti tengo.»
Il duca si era trovato presso l’angolo e si era appoggiato alla parete.
Carmaux che non lo perdeva di vista, sospettando sempre qualche sorpresa, vide che faceva scorrere la mano sinistra lungo la tappezzeria come se cercasse qualche cosa.
«Badate, capitano!» gridò.
Aveva appena pronunciate quelle parole quando un lembo di muro s’aprì dietro al duca.
«Traditore!» urlò il Corsaro, vibrandogli una stoccata.
Era troppo tardi. Il duca si era gettato indietro e la porta segreta si era repentinamente chiusa dinanzi a lui con gran fragore.
Un urlo terribile, un urlo di belva ferita era sfuggito dalle labbra del Corsaro.
«Fuggito ancora!»
Carmaux, Wan Stiller e Moko si erano slanciati verso la parete.
«Moko!» urlò il Corsaro. «Sfondami questa porta!»
Il negro si era scagliato verso la parete coll’impeto d’un ariete. Quella massa enorme, fece tremare l’intera stanza sotto un urto formidabile, ma la porta, chiusa forse internamente da un congegno misterioso o da qualche sbarra di ferro, non cedette sotto il fiero colpo.
«Cerchiamo la molla, capitano!» gridò Carmaux.
Fece scorrere le dita sulla tappezzeria e sentì una lieve sporgenza. Non badando al dolore vibrò un pugno poderoso.
Si udì uno scatto, come se una molla avesse agito, ma la porta non cedette.
In quel momento nel giardino si era udita una voce a loro ben nota, a gridare:
«Sono lì dentro!… Uccideteli come cani idrofobi!… Sono filibustieri!…»
«Fulmini!» gridò Carmaux. «La marchesa!…»
Si volse gettando un rapido sguardo nella stanza. La marchesa di Bermejo approfittando della confusione era fuggita ed aveva svegliati i servi.
«Capitano,» disse Carmaux. «Credo che sia il momento di lasciare in pace il duca e di pensare alla nostra pelle.»
Non aveva ancora terminata quella frase quando una detonazione rimbombò ad una delle finestre, facendo spegnere di colpo le candele.
La palla, mal diretta, fischiò agli orecchi del Corsaro.
«Alle finestre!» gridò Carmaux. «Chiudiamo le imposte!»
Vedendo un uomo che cercava di arrampicarsi sul davanzale, armò precipitosamente la pistola e fece fuoco.
Lo sparo fu seguito da un grido di dolore.
«Uno di meno!» gridò Carmaux, chiudendo frettolosamente le imposte.
Intanto il negro aveva chiuse quelle della seconda finestra evitando un colpo d’alabarda vibratogli da un servo che era giunto sul davanzale.
L’aggressore aveva però pagata cara la sua audacia poichè il negro gli aveva dato un tale pugno da farlo rotolare nel giardino mezzo accoppato.
«Barricate ora le porte!» gridò il Corsaro, il quale si provava per la centesima volta e senza riuscire a far scattare il bottone del passaggio segreto.
I tre filibustieri senza perdere tempo spinsero verso le due porte la tavola, poi due pesanti armadii ed un sofà molto massiccio.
Avevano appena terminato quando udirono a picchiare rumorosamente ad una delle porte.
«Aprite!» gridò la marchesa con voce imperiosa. «Aprite o faccio subito chiamare i soldati!…»
Il Corsaro, rassegnato momentaneamente a lasciare in pace il duca, il quale doveva ormai essere già lontano, si era slanciato verso la porta, gridando:
«Cosa volete voi, signora?»
«Che vi arrendiate.»
«Allora mandate i vostri uomini a prenderci, se l’osano.
«Il duca fra poco sarà qui coi soldati del governatore.
Il Corsaro osservò l’orologio, e rivolto ai suoi:
«Sono le due,» disse. «A quest’ora i filibustieri di Grammont, di Wan Horn e di Laurent marciano sulla città. Noi dobbiamo resistere un paio d’ore.»
«Lo potremo noi, capitano?» chiese Carmaux. «Le imposte non sono solide e cederanno al primo colpo di trave.»
«È vero, Carmaux,» disse il Corsaro, il quale era diventato pensieroso.
In quell’istante si udì al di fuori la marchesa a gridare:
«Vi arrendete sì o no, signor di Ventimiglia?»
«Sì, signora marchesa,» rispose il Corsaro.
Poi volgendosi verso i tre filibustieri, disse loro sottovoce:
«Appena compare la marchesa, impadronitevene e conducetela qui dentro; sarà un ostaggio prezioso.»
«Ed i servi?» chiese Carmaux.
«Io e Moko li affronteremo e vedremo se sapranno resisterci.»
«Mio signore,» disse Yara, avvicinandosi al Corsaro. «Tu corri incontro alla morte.»
«Non temere, mia brava fanciulla.»
«Hanno dei fucili.»
«Ed io la mia spada; è più infallibile delle palle, Yara. Ritirati in un angolo onde qualche colpo di fucile non ti colga.»
Mentre la giovane indiana si riparava a malincuore dietro un cassettone, Moko, Carmaux e Wan Stiller rimuovevano i mobili che barricavano una delle due porte, procurando però di non spostarli troppo, onde all’occorrenza potessero ancora servire per improvvisare una barricata.
«Avete finito?» chiese il Corsaro, impugnando la spada colla destra ed una pistola colla sinistra.
«Un momento,» disse Moko.
Con uno strappo violento aveva staccata una traversa della tavola, una sbarra di legno molto massiccia e molto grossa, un’arma terribile nelle mani di quell’atleta.
«Ecco una mazza che fa per me, – disse. – Mi servirà a sbarazzare il terreno dagli avversarii.
«Aprite,» comandò il Corsaro.
Carmaux fu pronto a obbedire. Appena i due battenti furono spinti, comparve la marchesa tenendo nella destra una pistola e nella sinistra un doppiere d’argento. Dietro ad essa si videro comparire otto o dieci servi per la maggior parte mulatti, armati alcuni di fucili ed altri di alabarde e di spade.
Carmaux con uno slancio fulmineo si era scagliato contro la marchesa. Strapparle la pistola, sollevarla fra le robuste braccia e portarla nella stanza fu l’affare di pochi secondi.
Subito il Corsaro, Wan Stiller e Moko si erano precipitati addosso ai servitori, stupiti da tanta audacia, urlando a piena gola:
«Arrendetevi, o vi uccidiamo!»
La sbarra dell’erculeo negro si alza e piomba furiosamente addosso a quegli uomini spezzando fucili, alabarde e spade, mentre il Corsaro e l’amburghese scaricano le loro pistole.
Era troppo pel coraggio di quei servi. Atterriti dall’improvvisa comparsa di quel negro gigantesco e spaventati da quei due colpi di pistola, abbandonano la loro padrona e fuggono disperatamente su per le scale gettando le armi.
«Fermatevi!» grida il Corsaro, vedendo l’amburghese ed il negro slanciarsi verso la scala. «Chiudete la porta e barricatela. Abbiamo ormai l’ostaggio che ci occorreva!»
Rientrato nella stanza, vide la marchesa pallida, fremente, appoggiata ad una poltrona. Il signor di Ventimiglia ringuainò la spada e si levò galantemente il feltro piumato, dicendole:
«Perdonate, signora, se noi vi abbiamo giuocato questo pessimo tiro, ma la nostra salvezza lo esigeva. D’altronde rassicuratevi e non tremate: il signor di Ventimiglia è un gentiluomo.»
«Un gentiluomo spagnuolo non avrebbe agito come voi!» gridò la marchesa, rossa di collera.
«Permettete di dubitarne, signora,» rispose il Corsaro.
«Ma già non mi stupisce il vostro procedere sleale,» continuò la marchesa. «Si sa che cosa sono i filibustieri della Tortue.»
«E cioè, signora?»
«Dei miserabili ladroni.»
«Ecco una parola che non mi tocca affatto, signora,» disse il Corsaro, alzando la testa. «Il signor di Ventimiglia ha nei suoi paesi abbastanza castelli e feudi per non aver bisogno di fare il ladro. Io, signora, sappiatelo, sono venuto in America per compiere una sacra vendetta e non già per saccheggiare i galeoni che portano l’oro nel vostro paese o per sfruttare i poveri indiani come fanno i vostri compatriotti.»
«E cosa pretendete di fare ora di me? D’impormi qualche grosso riscatto? Parlate: la marchesa di Bermejo è sufficientemente ricca per pagare anche il signore di Ventimiglia.»
«Date il vostro oro ai vostri servi e non a me,» rispose fieramente il Corsaro. «Io vi ho fatta rapire per difendermi contro le truppe spagnuole che fra poco verranno forse ad assalirci.»
«Ed il Corsaro Nero si fa scudo d’una donna per ripararsi dai colpi dei nemici? Lo credevo più valoroso.»
A quell’ingiuria sanguinosa quanto immeritata, un lampo terribile guizzò negli occhi del prode gentiluomo, ma subito si spense.
«Il signor di Ventimiglia si copre dietro la sua spada, signora,» rispose. «E fra poco ve lo mostrerò.»
«Sì, quando vi vedrò capitolare dinanzi alla guardia del governatore,» rispose la marchesa, con ironia.
«Io!… Sarà il governatore invece che vedrete capitolare, signora.»
«Avete detto?»
«Che non saremo noi che ci arrenderemo, bensì la città intera.»
«E per opera di chi?» chiese la marchesa impallidendo.
«Dei filibustieri della Tortue.»
«Se credete di spaventarmi v’ingannate.»
«I filibustieri sono già alle porte di Vera-Cruz, signora.»
«È impossibile.»
«Ve lo dice un gentiluomo che non ha mai mentito.»
«Vi sono tremila soldati in città.»
«Cosa importa?»
«E altri sedicimila nel Messico.»
«Quelli giungeranno troppo tardi, signora.»
«Ed i forti hanno numerosi cannoni.»
«Che noi prenderemo e che inchioderemo.»
«E vi è anche il duca.»
«Quello spero d’incontrarlo io, signora,» rispose il Corsaro con voce sibilante. «Non sfuggirà la seconda volta alla mia spada come è fuggito vilmente poco fa.»
«E se fosse già lontano?»
«Non sfuggirebbe egualmente alla mia vendetta. Dovessi far assalire tutte le città costiere del golfo del Messico o frugare tutte le selve, quell’uomo un giorno o l’altro cadrà nelle mie mani. Il suo destino è ormai scritto sulla punta della mia spada.»
«Quale uomo!» mormorò la marchesa, vinta dall’ammirazione che gl’ispirava la fierezza del gentiluomo piemontese.
«Basta, signora,» disse ad un tratto il Corsaro. «Lasciateci fare i nostri preparativi di difesa.»
«E contro chi?» domandò la marchesa ridendo.
«Contro le guardie del governatore che fra poco ci assaliranno.»
«Ne siete ben certo, signor di Ventimiglia?»
«Lo avete detto voi, poco fa.»
«Nessuno dei miei servi ha ricevuto quest’ordine.»
«Devo credervi?»
«La marchesa di Bermejo non ha mai mentito, cavaliere.»
«E perchè non l’avete fatto? Eravate nel vostro diritto.»
«Non ho dato l’ordine perchè speravo di farvi prendere dai miei servi.»
«Mentre ora?»
«Sono persuasa che per vincere il Corsaro Nero non basterebbero cento uomini.»
«Grazie della vostra opinione, signora; però vi farò osservare che se ne sarà incaricato qualche altro di avvertire il governatore della mia presenza in questo luogo.»
«E chi?»
«Il duca.»
«Il passaggio segreto non mette in città ed è così lunga la galleria che occorreranno molte ore prima che il duca possa giungere dal governatore.»
«Che sia fuggito!» gridò il Corsaro.
«Ecco quello che io stessa ignoro, però dubito che un uomo valoroso come il duca possa aver abbandonata la città, non sapendo d’altronde che i vostri filibustieri muovono all’assalto di Vera-Cruz. Vi tornerà di certo colla speranza di farvi arrestare.»
«Ah!… Sì,» disse il Corsaro, come parlando fra sè. «Carmaux, Yara, amici, partiamo!… Forse potremo incontrarlo prima che cominci l’assalto.»
«Badate,» disse la marchesa.
«Cosa volete dire?»
«I miei servi si saranno imboscati o si saranno nascosti nei piani superiori. Essi hanno dei fucili.»
«Non temo i vostri uomini.»
«Io non rispondo di quello che può succedere, – disse la marchesa.»
«Non vi terrò responsabile,» rispose il Corsaro.
La marchesa era rimasta stupita. Con un rapido gesto si levò da un dito un anello d’oro con uno splendido smeraldo di gran valore e lo porse al Corsaro, dicendogli con grande nobiltà:
«Serbatelo in memoria del nostro incontro, cavaliere. Non dimenticherò mai il gentiluomo a cui devo la libertà e forse la vita.»
«Grazie, signora,» rispose il Corsaro passandoselo in un dito. «Addio, signora.»
Carmaux aveva aperta una finestra. Il Corsaro balzò sul davanzale e saltò nel giardino, mentre la marchesa gridava ai suoi servi:
«Che nessuno faccia fuoco!»
Carmaux, Yara e gli altri due avevano seguito il Corsaro.
I quattro filibustieri e la giovane indiana si erano slanciati verso il viale per giungere al cancello. Già l’avevano percorso quasi tutto, quando d’un tratto si videro parecchi uomini scendere dalle mura di cinta.
Carmaux aveva mandato un grido:
«I soldati!… Troppo tardi!…»
Quasi nel medesimo istante rimbombarono alcuni colpi di fucile seguìti da un grido di dolore.
Il Corsaro che era sfuggito miracolosamente alla scarica, si era voltato per vedere chi era stato colpito.
Un urlo di belva gli sfuggì dalle labbra:
«Mia povera Yara!»
La giovane indiana era caduta al suolo, coprendosi il viso con ambe le mani.
«Yara!» gridò il Corsaro, precipitandosi verso di lei, mentre Carmaux, Moko e l’amburghese si scagliavano furiosamente contro i soldati, scaricando le pistole.
La povera figlia delle foreste già agonizzava. Una palla le aveva attraversato il petto, ed il sangue sgorgava in gran copia arrossandole il giubbettino di percallina azzurra.
Il Corsaro la prese fra le braccia e la trasportò, correndo, verso il palazzo.
Sulla gradinata s’incontrò colla marchesa la quale era accompagnata da due servi che portavano delle fiaccole.
«Cavaliere!» esclamò la spagnuola, con voce alterata. «Dio è testimone che io non vi ho tradito, ve lo giuro.»
«Vi credo, signora,» rispose il Corsaro. «Ve l’hanno uccisa?»
Il Corsaro invece di rispondere si era curvato sulla giovane indiana.
Yara aveva aperto gli occhi e li teneva fissi sul Corsaro, ma quegli occhi a poco a poco perdevano il loro splendore. La morte s’avvicinava rapida.
«Mia povera Yara!» esclamò il Corsaro con voce rotta.
La giovane mosse le labbra, poi facendo uno sforzo supremo, balbettò:
«Vendica… la mia… tribù…»
«Te lo giuro, Yara…»
«T’amo…» sospirò Yara. «T’a…»
Non potè finire la parola; era spirata.
Il Corsaro si era alzato, pallido come uno spettro.
«Io sono fatale a tutti,» disse con voce cupa. «Abbiate cura di questa fanciulla, marchesa.»
«Ve lo prometto, cavaliere.»
Il Corsaro raccolse la spada, stette un momento immobile, poi si slanciò come una tigre verso un angolo del giardino dove si udiva un cozzare di ferri.
«Andiamo a vendicarla!» gridò.
Quasi nel medesimo istante un colpo di cannone rombava cupamente sugli spalti del forte di S. Giovanni de Luz.
Il mostro di bronzo aveva fatto fuoco contro le prime squadre di filibustieri che correvano all’assalto di Vera-Cruz.
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