La laguna di Tamiahua

Alle undici di sera, la Folgore, dopo d’aver bordeggiato l’intera giornata al largo, giungeva inosservata alla punta meridionale della laguna, mettendosi in panna a cinquecento metri dalla costa.

 Nessun lume era stato veduto in alcuna direzione, quindi era da sperare che nessuna nave incrociasse su quelle acque e che nessun posto di guardia guardasse quelle spiagge.

 Il Corsaro Nero, dopo d’aver guardato in tutte le direzioni, era sceso sulla tolda, dove i marinai stavano calando in acqua una svelta baleniera carica di alcune cassette contenenti dei viveri. Carmaux, Moko e Wan Stiller vi erano già. Avevano lasciati i loro vestiti da marinai per indossare calzoni di pelle frangiati, grandi mantelli a svariati colori e adorni di fiocchi e larghe fasce entro le quali avevano messo delle navaje smisurate e delle buone pistole.

 In capo portavano ampii cappelli di paglia, molto alti, che nascondevano buona parte del volto.

 Anche il Corsaro si era spogliato della sua divisa nera per indossare un costume quasi eguale a quello dei suoi uomini, però non aveva lasciata la spada, colla quale contava d’inchiodare a qualche muro l’assassino dei suoi fratelli.

 «È tutto pronto?» chiese a Morgan, il quale aveva già fatta calare in acqua la scialuppa.

 «Sì, cavaliere,» rispose il luogotenente.

 «E Yara?»

 «Eccomi, signore,» rispose la giovane indiana, comparendogli vicina.

 Al pari dei suoi compagni si era avvolta in un grande mantello, in un serapè frangiato ed aveva nascosti i suoi bellissimi capelli sotto un cappello dalle tese ampie, adorno d’un nastro infioccato.

 «Le vostre ultime istruzioni, capitano,» disse Morgan.

 «Raggiungere subito la flotta e muovere poi risolutamente su Vera-Cruz.»

 «Voi sapete, signore, che Grammont ha deciso di sbarcare al sud della città.»

 «Sì, a due leghe. Se potrò io sarò colà ad aspettarvi.»

 «Conoscete adunque il luogo ove si effettuerà lo sbarco?»

 Stette un momento silenzioso, guardando distrattamente la laguna, poi scese rapidamente la scala, dicendo con una voce brusca:

 «Addio.»

 Si sedette a poppa della scialuppa, a fianco della giovane indiana, e fece cenno ai suoi uomini di prendere il largo.

 Carmaux, Wan Stiller ed il negro presero i remi e la svelta baleniera prese la corsa, mentre la Folgore virava di bordo per uscire nuovamente in mare. Una leggera nebbia ondeggiava sulle cupe acque della laguna, rendendo la notte più oscura, nebbia pericolosissima essendo carica di esalazioni pestifere dovute alla putrefazione dei paletuvieri, le così dette piante della febbre. Questi vegetali s’incontrano in gran numero nelle lagune del Messico e anche alla foce dei fiumi e crescendo in acqua, a poco a poco marciscono, corrompendo l’aria. Sono essi che producono il vomito prieto ossia la febbre gialla che miete tante vite umane durante i mesi più caldi.

 Nessun lume brillava sull’ampia distesa d’acqua nè sulle due penisole che racchiudono la laguna dalla parte del mare, e nessun rumore si udiva in alcuna direzione. Pareva che nessun essere vivente avesse osato stabilirsi su quelle rive minacciate dalla morte.

 «Che brutto luogo,» disse Carmaux, senza abbandonare il remo. «Si direbbe che questo è il paese di messer Belzebù.»

 «Ed infatti Belzebù si nasconde in mezzo a quelle ondate di nebbia che s’avanzano verso di noi,» disse l’amburghese.

 «È febbre, è vero Moko?»

 «E gialla,» rispose il negro. «Se vi coglie siete spacciati.»

 «Bah! Abbiamo la pelle dura noi,» rispose Carmaux.

 «Non risparmia nessuno.»

 «Allora forza di remi, amici. La mia pelle per ora mi è ancora cara.»

 La scialuppa, sotto la vigorosa spinta di quei tre remi, filava rapida, fuggendo dinanzi alla nebbia che il vento spingeva verso la costa.

 Il Corsaro Nero, alla barra, regolava la corsa.

 Di quando in quando osservava la bussola che aveva portata con sè, onde mantenere la scialuppa nella buona direzione e scambiava qualche parola con Yara.

 La scialuppa aveva già attraversata più di mezza laguna, quando Carmaux, nel volgere la testa verso la punta settentrionale della penisola inferiore, vide scintillare un punto luminoso.

 «Oh!» esclamò. «Pare che questa laguna non sia del tutto spopolata. Avete veduto, capitano?»

 «Sì,» rispose il Corsaro, il quale si era alzato per osservare meglio.

 «Che sia qualche caravella?»

 «A me sembra una luce fissa,» disse Wan Stiller.

 «No,» disse Moko, il quale aveva la vista più acuta degli altri. «È un fuoco viaggiante.»

 «Forse qualche caravella che va a Pueblo Viejo,» mormorò il Corsaro. «Fortunatamente la notte è così oscura che passeremo inosservati.»

 Infatti il punto luminoso si allontanava allora verso il nord, descrivendo delle brevi bordate. La baleniera procedeva sempre rapida, fendendo le acque con un lieve sussurrìo. I tre filibustieri, quantunque arrancassero da più di due ore, non sembravano affatto stanchi. Intorno alla piccola imbarcazione regnava sempre un silenzio assoluto, come se quelle acque fossero prive di abitanti. Solamente in alto si udiva, di quando in quando, un lieve strido, mandato da qualche uccello notturno, forse da qualche vampiro o spettro volante, brutti pipistrelli che succhiano il sangue alle persone ed alle bestie che possono sorprendere addormentate.

 Alle due del mattino, Carmaux, che si trovava a prora, si accorse che l’acqua cominciava a mancare.

 «La spiaggia non deve essere lontana,» disse, volgendosi verso il Corsaro.

 «Mi pare di distinguerla,» rispose questi, alzandosi. «Dinanzi a noi si delinea una massa oscura che deve indicare una foresta.»

 Poco dopo la scialuppa navigava fra ammassi di piante acquatiche e banchi di sabbia. Macchie di paletuvieri sorgevano dovunque, protendendo i loro rami contorti in tutte le direzioni ed esalando miasmi pestiferi.

 «Siamo in mezzo ad una palude» – disse il Corsaro.

 «Già non mancano sulle coste del Messico,» rispose Carmaux.

 Avendo trovato un canale aperto fra i banchi ed i paletuvieri, la scialuppa vi si era cacciata dentro, avanzandosi però lentamente onde non dare in secco. Nessuno sapeva dove si trovavano, non avendo mai visitate quelle spiagge, nemmeno Yara. Sapevano però che la terra ferma doveva trovarsi verso l’ovest e mantenevano quella direzione, certi di giungere, presto o tardi, in mezzo ai boschi.

 Dopo di essersi avanzati per un’altra mezz’ora, essi si trovarono dinanzi a parecchi isolotti i quali formavano una infinità di canali e di canaletti. Dei grandi alberi erano cresciuti su quei brani di terra e spandevano sui canali una cupa ombra.

 «Dove andiamo, signore?» chiese Carmaux.

 «Approdiamo a una di quelle isole e aspettiamo l’alba,» rispose il Corsaro. «Con questa oscurità è impossibile dirigersi.»

 Spinsero la baleniera verso l’isola più vicina che era coperta d’alberi altissimi e dal tronco enorme e sbarcarono per sgranchirsi anche un po’ le gambe.

 L’oscurità in quel luogo era così profonda, da non potersi distinguere assolutamente nulla. Una nebbiola si alzava dai canali, allargandosi lentamente, una nebbia satura di febbre e di miasmi micidiali.

 I filibustieri si erano sdraiati alla base d’uno di quei grandi alberi, bene avvolti nei loro mantelli per difendersi dall’umidità della notte. Però a fianco si erano collocati i fucili, non essendo affatto tranquilli. Infatti poco dopo udirono a echeggiare a breve distanza un grido acuto che poi terminò in un muggito spaventevole.

 Subito un altro grido consimile rispose un po’ più lontano, poi un terzo, quindi un quarto.

 «Questi sono caimani,» disse Carmaux, rabbrividendo.

 Un acuto odore di muschio veniva dai canali, segno evidente che in quel luogo vi era abbondanza di quegli schifosi sauriani.

 A quelle prime urla era successo un breve silenzio, poi tutto d’un colpo grida acutissime scoppiano non più in acqua bensì in alto, fra i rami dei grandi vegetali. Era un concerto spaventevole, assordante, che sfondava gli orecchi meglio conformati.

 Si udivano muggiti, ruggiti, note acutissime che sembravano emesse da istrumenti metallici e urla d’una intensità inaudita.

 Carmaux e Wan Stiller erano balzati in piedi temendo di vedersi rovinare addosso battaglioni di belve feroci; il negro, Yara ed il Corsaro si erano però limitati ad alzare la testa guardando fra i rami degli alberi.

 «Tuoni d’Amburgo!» esclamò Wan Stiller. «Che succede?»

 «Una cosa semplicissima,» rispose Moko, ridendo. «Le scimmie urlatrici si divertono a darci un concerto.»

 «Queste sono scimmie?» esclamò Carmaux con tono incredulo. «Compare sacco di carbone, tu vuoi burlarti di me.»

 «No, Carmaux,» disse il Corsaro.

 «Mi direte allora, signore, chi sono questi piagnucoloni.

 Proprio sopra le loro teste, in mezzo alle folte fronde, si udivano delle grida lamentevoli che parevano mandate da una banda di fanciulli.

 «Sono scimmie anche queste, Carmaux,» rispose il Corsaro. «Si direbbe che fra quei rami vi sono dei bambini.

 «Sì, ma sono scimmie invece.»

 «Vi è da diventare pazzi, signore. Ho la testa intronata!»

 Il filibustiere non mentiva. Le grida delle scimmie rosse e di quelle piangenti avevano allora raggiunto una tale intensità da far disperare perfino un sordo.

 «Qui devono essersi radunati migliaia di quadrumani,» disse l’amburghese.

 «T’inganni, compare bianco,» rispose Moko. «Forse quelle scimmie urlatrici non sono più di sette od otto.»

 «Allora devono aver le gole foderate di bronzo.»

 «Hanno qualche cosa di meglio.»

 «Ossia?»

 «Un gozzo o una specie di tamburo carnoso che centuplica la loro voce,» disse il Corsaro.

 «Sì, capitano,» rispose il negro.

 «Che formidabili cantori!» esclamò Carmaux. «Sarebbe meglio però che serbassero la loro voce per miglior occasione.»

 «Vuoi farli tacere?» chiese il negro.

 «Ben volontieri.»

 «Scarica il tuo fucile e tutte quelle scimmie se ne andranno. Se riesci poi ad ammazzarne una, faremo una eccellente colazione.»

 «Puah!» fece Carmaux, con disgusto. «Mangiare delle scimmie? Per chi mi prendi, compare sacco di carbone?»

 «Ti assicuro che sono eccellenti, compare bianco. Tutti gli indiani ed i negri le mangiano.

 «Lasciate andare le scimmie e serbate i vostri colpi per altri animali,» disse il Corsaro, il quale si era bruscamente alzato.

 «Chi ci minaccia, capitano?» chiese Carmaux.

 «I caimani.»

 «Ah! Si decidono a venire!…»

 «Ne vedo due o tre,» disse Moko.

 «Vediamo se l’hanno proprio con noi,» disse Carmaux.

 Essendosi alzata la nebbia e cominciando ad albeggiare, l’oscurità si era un po’ diradata, tanto da poter scorgere quanto avveniva nei canali. Un brutto sauriano, lungo almeno sei metri, aveva abbandonato un folto gruppo di paletuvieri e s’avanzava cautamente verso l’isolotto occupato dai filibustieri. Quel rettile aveva, sul rugoso dorso, un vero giardinetto. Fra le scaglie ossee, ripiene di fango, erano cresciute delle erbe palustri e anche qualche canna.

 Contando d’ingannare gli uomini, teneva la testa sott’acqua, sporgendo solamente, di quando in quando, l’estremità del muso per respirare qualche boccata d’aria. Anche la sua coda rimaneva sommersa, però nell’agitarla formava dietro di sè una scia gorgogliante che era facile a scoprirsi.

 «Quel brutto animale cerca di sorprenderci,» disse Carmaux. «Non saremo però così stupidi da scambiarlo per un tronco d’albero. Cosa dici, compare sacco di carbone?»

 «Lascia che si avvicini e vedrai come tratterò quel rettile,» rispose il negro.

 «Non adopereremo il fucile?»

 «È inutile, compare bianco, tanto più che le palle sovente si schiacciano su quelle piastre ossee.»

 «E che gli spari possono attirare l’attenzione di qualche spia spagnuola,» aggiunse il Corsaro.

 Il gigante, scorto un grosso ramo d’albero, l’aveva raccolto. Con pochi colpi di navaja lo sfrondò, poi si spinse fra i paletuvieri che ingombravano la riva.

 Carmaux e Wan Stiller si erano pure cacciati fra i rami contorti delle piante acquatiche, mentre invece il Corsaro conduceva Yara dietro i tronchi degli alberi.

 Il caimano s’avanzava sempre, lentamente, lasciandosi portare dalla debole corrente che scendeva verso la laguna. La sua coda rimaneva perfettamente immobile per meglio ingannare i filibustieri e agitava appena appena le zampe, guardandosi bene anche dal mostrarle troppo.

 Già non distava dall’isolotto che pochi passi, quando un altro caimano apparve improvvisamente. Era uscito da un ammasso di piante acquatiche che crescevano su di un banco semi-sommerso.

 Un momento dopo un terzo emergeva bruscamente dalle acque, gettandosi furiosamente fra i due.

 «Toh!» esclamò Carmaux, sorpreso. «Cosa sta per succedere? Si direbbe che quei rettili non l’hanno precisamente con noi.»

 «È vero, compare bianco,» rispose il negro.

 Due urla acute scoppiarono a breve distanza e altri due caimani si slanciarono in mezzo al canale, battendo furiosamente l’acqua colle possenti code. Uno dei sauriani, il più piccolo, s’era tratto da una parte, appoggiandosi verso i paletuvieri che coronavano l’isolotto; gli altri quattro invece, si erano precipitati gli uni contro gli altri con furia incredibile, mostrando le loro bocche mostruose armate di formidabili denti. Muggivano come tori in furore e agitavano tremendamente le code, sollevando vere ondate spumeggianti.

 I quattro sauriani intanto si erano scagliati furiosamente gli uni addosso agli altri. Muggivano in modo spaventoso, facendo tacere le scimmie rosse e quelle piangenti e cercavano di stritolarsi vicendevolmente le mascelle.

 L’acqua balzava da tutte le parti, e delle grosse ondate venivano ad infrangersi violentemente contro i paletuvieri degli isolotti.

 Una caimana, sdraiatasi in mezzo alle piante acquatiche, assisteva tranquillamente alla tremenda lotta, come se la cosa non la riguardasse affatto. Poco dopo uno dei quattro sauriani, forse il più debole, era fuori di combattimento. Il suo rivale con un terribile colpo di mascella gli aveva dapprima mozzata la coda, poi gli aveva troncata l’estremità del muso.

 Il povero mutilato, imbrattato orribilmente di sangue, si contorceva disperatamente presso i paletuvieri, arrossando le acque.

 Alcuni minuti più tardi, un secondo calava a picco. Assalito dagli altri due, che si erano momentaneamente alleati, era stato fatto a pezzi.

 I vincitori però erano stati pure ridotti in uno stato compassionevole. Uno aveva avuto la mascella fracassata e l’altro aveva perduto una delle zampe anteriori. Nondimeno, sbarazzatisi dei due avversarii, si erano scagliati l’uno contro l’altro con pari furore, muggendo ferocemente.

 Quello che aveva avuto la mascella fracassata, dopo i primi morsi aveva tentato di rifugiarsi verso l’isolotto occupato dai filibustieri. La sua orribile ferita non gli permetteva più di assalire vantaggiosamente il rivale e per difendersi non possedeva più che la coda.

 Vedendolo accostarsi, Moko aveva afferrato il grosso ramo, pronto a scagliargli una botta mortale. Era una precauzione inutile, poichè l’avversario lo aveva seguito, deciso a finirlo. Una nuova lotta si impegnò a pochi passi dall’isolotto, in vicinanza della scialuppa.

 I due sauriani, quantunque dovessero essere esausti per la copiosa perdita di sangue, si erano nuovamente assaliti con slancio disperato. I colpi di coda grandinavano con gran fracasso ed i denti si rompevano sulle scaglie ossee. L’acqua, rossa pel sangue, rimbalzava perfino in mezzo ai paletuvieri.

 «Moko!» esclamò ad un tratto Carmaux. «La nostra scialuppa!»

 Anche il Corsaro si era accorto del pericolo che correva l’imbarcazione, poichè si era slanciato verso la riva gridando:

 «A me, filibustieri!»

 I due sauriani nel furore della lotta si erano appoggiati all’isolotto e le loro code minacciavano di sfondare i fianchi della leggera baleniera.

 Moko era balzato fra i paletuvieri, seguito da Carmaux e dall’amburghese.

 Stava già per precipitarsi verso la riva, quando risuonò un colpo secco. La baleniera, fracassata da un formidabile colpo di coda era stata rovesciata nel canale, scomparendo rapidamente sotto le acque.

 «Tuoni d’Amburgo!» urlò Wan Stiller.

 «Ah! cani!» gridò il negro furioso.

 Senza badare al pericolo, si era scagliato addosso ai due sauriani i quali, nella loro rabbia, non si erano accorti della presenza degli uomini. L’erculeo negro alzò il ramo e scagliò sul più vicino una tale legnata, da fracassargli di colpo la spina dorsale.

 L’altro, udendo quel colpo, si era voltato. Era quello privo della mascella, nondimeno cieco di rabbia com’era, invece di fuggirsene, con un balzo risalì la riva ed investì violentemente il negro, il quale ebbe appena il tempo di balzare da una parte.

 Il Corsaro Nero, temendo per Yara che si trovava a pochi passi, si era gettato innanzi, colla spada in pugno. Rapido come il lampo, tagliò la strada al mostro e abbassatosi bruscamente gli cacciò in gola la lama.

 Quella nuova ferita non sarebbe forse bastata per trattenere il mostro, senza l’intervento del negro.

 Il valoroso africano, evitata la coda che sollevava ad un tempo acqua e fango, aveva rialzato il grosso ramo, gridando al Corsaro:

 «Indietro, signore.»

 Si udì uno scroscio paragonabile allo schiantarsi d’un albero. Le scaglie ossee del rettile, fracassate da quel tremendo colpo, avevano ceduto.

 Il rettile, mezzo accoppato da quella fierissima legnata, rimase un momento come intontito, poi raccogliendo le ultime forze, si rovesciò giù dalla riva, scomparendo sott’acqua fra un cerchio di sangue.

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