La zattera

Oltre ad aver perduta la baleniera, i filibustieri avevano pure perduti i viveri che stavano rinchiusi nelle due casse e anche buona parte delle loro munizioni.

 Per loro fortuna avevano conservati i fucili con alcune centinaia di cariche e anche qualche coperta che Yara aveva avuta la precauzione di portare con sè, per difendersi dall’umidità della notte.

 Tuttavia la loro situazione non era molto brillante, trovandosi su di un isolotto e perduti in mezzo a vaste paludi che non avevano mai percorse ed infestate da feroci caimani.

 «Eccoci in un bell’imbarazzo,» disse Carmaux. «Senza scialuppa e senza viveri.»

 «Oh, i viveri non mancheranno.»

 «Vorresti dire che anche i caimani potrebbero servire da colazione?» chiese Carmaux, facendo un gesto di disgusto.

 «La coda non è cattiva, compare bianco. Io l’ho mangiata parecchie volte.»

 «Oh!… Mangiatore di rettili!…»

 «E alla scialuppa come rimediare?» chiese Wan Stiller. «Suppongo che nessuno di noi avrà l’intenzione di rimanere qui in eterno.»

 «Il legname qui non manca,» disse il Corsaro. «Forse che i miei marinai non sanno costruire una zattera?»

 «Sono una gran bestia, signore,» disse l’amburghese. «Non avevo pensato a questi alberi.»

 «Eppure sono visibili,» disse Carmaux, ridendo.

 «Moko, hai la tua scure?»

 «Sì, capitano,» rispose il negro.

 «Giacchè si comincia a vederci qualche po’ andrai ad abbattere degli alberi.»

 Mentre l’africano ed il Corsaro percorrevano le rive per scegliere le piante necessarie alla costruzione della zattera, Carmaux e l’amburghese si cacciarono in mezzo agli alberi per cercare la colazione.

 Quell’isolotto era più grande di quello che avevano fino allora creduto e molto boscoso. Su quel grasso terreno, formato da foglie putrefatte, erano sorte in abbondanza varie specie di palme e foltissimi cespugli entro i quali poteva benissimo trovarsi anche qualche grosso capo di selvaggina.

 Carmaux e Wan Stiller, dopo aver ascoltato per qualche po’, non udendo che le grida delle scimmie, si cacciarono risolutamente in mezzo ai cespugli, avanzandosi con precauzione.

 Essendo già sorto il sole, numerosi volatili garrivano sulle più alte cime degli alberi e fra le piante acquatiche s’alzavano stormi di aironi e di anitre selvatiche le quali facevano un baccano assordante.

 In mezzo alle grandi foglie dei palmizi reali, delle palme e dei caobas, numerose scimmie si divertivano a fare capitomboli, urlando a piena gola. Erano dei miceti o scimmie urlatrici, quelle stesse che durante la notte avevano spaventato tanto il bravo Carmaux.

 Questi quadrumani, che sono dotati d’una agilità prodigiosa, una volta erano numerosi anche nel Messico, ma ora non si ritrovano più che nell’America del Sud e specialmente nelle Guiane e nelle foreste vergini dell’Amazzonia.

 Sono di colore oscuro, con riflessi rossastri; le femmine invece hanno il pelame giallastro. Non sono più alti di settanta centimetri, eppure che potenza di polmoni! Le loro urla sono così acute che si odono a parecchi chilometri di distanza.

 «Prima delle scimmie, cerchiamo se vi è qualche arrosto migliore,» disse Carmaux a Wan Stiller. «Questo isolotto non deve essere sprovvisto di selvaggina.»

 «E poi vi sono delle bande di aironi,» rispose l’amburghese. «Ci rifaremo con quei volatili.»

 «Eh!… Per mille pescicani!»

 «Cos’hai, Carmaux?

 «Ho veduto una bestia scappare fra le erbe.»

 «Era grossa?»

 «Come un coniglio.»

 «Se fosse davvero un coniglio!… Che squisito arrosto, Carmaux.»

 I due filibustieri, che già fiutavano un appetitoso arrosto, si erano slanciati in mezzo alle erbe dove vedevano a muoversi qualche cosa. Un animaletto che non potevano ancora ben distinguere fuggiva dinanzi a loro, senza però affrettarsi. Giunti presso ad un vecchio albero, lo videro cacciarsi rapidamente entro un buco del tronco, non lasciando fuori che una coda lunga a scagliette.

 «Ah!… Birbante! Ora ci sei!» gridò Carmaux, afferrando rapidamente quell’appendice.

 Si provò a tirare e, con sua grande sorpresa, non riuscì a far indietreggiare l’animaletto.

 «Mille balene!» esclamò. «Possibile che sia più forte di me!… Eppure non è più grosso d’un coniglio.»

 «Vediamo di che cosa si tratta,» disse Wan Stiller accostando un occhio al buco. Essendo quel foro abbastanza largo, vide che quell’animaletto aveva il dorso coperto da una specie di corazza formata da piastre ossee che sembravano molto resistenti, disposte in serie parallele e di forma molto ineguale.

 «Non so con quale animale abbiamo da fare,» disse. «Ti posso dire però che non è molto grosso e che a giudicarlo dalla statura dovrebbe cedere alle tue braccia.»

 «Che abbia perduto la forza?» si chiese Carmaux. «Eppure non mi sembra.»

 «Lascia che provi io,» disse Wan Stiller.

 L’amburghese afferrò la coda con ambe le mani, puntò un piede contro l’albero e cominciò a tirare con tutta la forza che aveva. Fatica sprecata; l’animaletto resisteva tenacemente come se si fosse unito al tronco dell’albero.

 «Tuoni d’Amburgo!» esclamò. «È cosa incredibile.»

 Carmaux aveva risposto con una risata sonora.

 «Tu ridi!» esclamò Wan Stiller, stupito.

 «Tira!… Tira!…» rispose Carmaux che era in preda ad una crescente ilarità.

 «Ma se ti dico che questo dannato animale è tenuto all’albero con delle chiavarde!»

 «No, Wan Stiller, dalle sue unghie.»

 «Allora tu conosci questa specie di… di… chissà che cosa sarà.»

 «Un armadillo.»

«Non ne so nulla.»

 «Te lo farò vedere subito,» disse Carmaux.

 «Hai tu un mezzo per farlo uscire?»

 «Sì, Wan Stiller.»

 «Tirando insieme?»

 «Strapperemmo la coda senza decidere l’animale a uscire. Possiede delle unghie d’una robustezza tale da sfidare l’acciaio.»

 «Allora sarà pericoloso.»

 «Niente affatto, amburghese.»

 «È almeno mangiabile?»

 «Delizioso come un porcellino da latte.»

 «Allora facciamolo uscire.»

 «La cosa è facile: guarda!»

 Con una mano afferrò la coda dell’armadillo, coll’altra estrasse la navaja e l’introdusse nel cavo dell’albero, pungendo fortemente.

 L’animaletto dapprima cercò di aggomitolarsi su sè stesso, poi abbandonò il rifugio e cadde al suolo. Wan Stiller sapendo che non era pericoloso, s’era curvato guardandolo con viva curiosità.

 Era grosso un po’ più d’un coniglio, con zampe molto corte ed aveva il dorso coperto da una vera corazza di piastre ossee giallastre molto resistenti, a quanto pareva, che gli scendevano fino ai fianchi. La sua testa, molto piccola, con un musettino appuntito, era riparata da una specie di visiera scagliosa. Le sue gambe, come si disse, erano corte e portavano unghie robustissime e lunghe. Appena caduto a terra, l’animaletto si era lestamente ripiegato su se stesso, facendo scorrere le piastre che parevano dotate d’una certa mobilità e ritirando la coda. In tal modo presentavasi come una palla perfettamente difesa da quella corazza scagliosa.

 «Molto strano!» esclamò l’amburghese. «Si è meravigliosamente chiuso entro la sua corazza.»

 «La quale non lo riparerà di certo contro di noi,» disse Carmaux percuotendo violentemente l’animaletto col calcio del fucile.

 Il povero armadillo aveva mandato un debole grido sotto quel colpo e s’era subito disteso senza vita.

 «Ecco l’arrosto!» esclamò Carmaux, prendendolo per la coda.

 «Ma che razza di bestie sono queste?» chiese Wan Stiller.

 «Animali assolutamente inoffensivi, di abitudini notturne ordinariamente e che non danno fastidio a nessuno,» rispose Carmaux.

 «E di che cosa si nutrono? Di erbe forse?»

 «No, sono carnivori e siccome riesce loro piuttosto difficile a procurarsi della selvaggina, non essendo nè lesti, nè provvisti veramente di denti, vivono per lo più di carogne. Si racconta anzi che gli armadilli, quando trovano un animale di grossa taglia morto, vi si introducono e lo divorano a poco a poco tutto, lasciando però perfettamente intatta la pelle.»

 «E tu mi assicuri che sono buoni a mangiarsi?»

 «Come le testuggini. Amico Stiller, continuiamo la caccia.»

 «Cosa speri di trovare ancora?»

 «Faremo qualche scarica contro gli aironi.»

 Persuasi di non trovare altri animali su quell’isolotto, piegarono verso la riva dove udivano un gran baccano. Pareva che colà gli uccelli acquatici si trovassero in buon numero.

 Infatti, giunti presso i paletuvieri, videro svolazzare al disopra di quelle piante delle bande di anitre e di splendidi aironi dalle piume verdi. Con due scariche abbatterono una coppia di quei trampolieri, poi si ripiegarono verso l’accampamento, onde non impazientire il capitano. Quando vi giunsero, Moko aveva abbattuto parecchi giovani alberi ed aveva recise numerose liane che dovevano servire da corde.

 Mentre Yara si occupava a spennare i due aironi, i filibustieri, dopo essersi accertati che non vi erano caimani presso la riva, diedero subito mano alla costruzione della zattera.

 Essendo tutti abilissimi, bastò un’ora per ottenere un galleggiante capace di sostenerli tutti.

 Per maggior precauzione circondarono i bordi con grossi rami onde impedire ai caimani di salire sul galleggiante e al centro inalzarono un casottino formato di frasche e di grandi foglie di palme.

 Alle otto del mattino, dopo aver divorata la colazione, i filibustieri e la giovane indiana s’imbarcavano, remando vigorosamente o puntando sul fondo limaccioso del canale.

 Oltrepassati gl’isolotti, essi si trovarono dinanzi ad una seconda laguna, ingombra di piante palustri ed interrotta qua e là da banchi di sabbia sui quali si vedevano sonnecchiare non pochi caimani.

 Stormi di uccelli acquatici volavano al disopra dei canneti, descrivendo dei giri capricciosi e gridando a piena gola. Di quando in quando quelle bande assordanti piombavano sulla laguna e davano la caccia ai pesciolini od ai piccoli granchi che si tenevano nascosti fra le sabbie.

 Il Corsaro, che era salito sul tetto della capannuccia per abbracciare maggior orizzonte, vide in lontananza una linea oscura, non interrotta e che pareva indicasse qualche grande foresta.

 «La terra ferma è là,» disse. «Avremo però molto da fare per raggiungerla.»

 La zattera avanzava lentamente, essendo l’acqua di quella laguna assolutamente ferma e mancando il più lieve soffio d’aria.

 L’amburghese, Moko e perfino il Corsaro puntavano fortemente, ma con poco profitto, poichè le lunghe pertiche che servivano di remi il più delle volte scivolavano sul fondo limaccioso della laguna, esponendoli anche ad improvvise cadute.

 Alcuni caimani, vedendo avanzarsi quella massa galleggiante, attirati dalla curiosità, venivano di quando in quando a ronzare attorno ai naviganti, mostrando le loro formidabili mascelle irte di lunghi denti. Non erano però aggressivi e s’allontanavano al primo colpo di bastone che l’amburghese e Moko appioppavano loro e molto solidamente. A mezzodì la zattera giungeva in un nuovo canale il quale invece di dirigersi verso la linea oscura indicante la terra ferma, piegava verso il sud, aprendosi il passo fra un numero infinito di banchi sabbiosi e d’isolotti coperti di paletuvieri e di canne altissime.

 Dal mezzo di quelle piante, vere nuvole di volatili s’alzavano fuggendo dinanzi alla zattera.

 Si vedevano numerosi pyrocephalus colle piume della testa color del fuoco e le gambe cortissime; bande di coclarnis somiglianti ai nostri fringuelli e di sylvicole dalle splendide penne color dell’oro, di aironi, di anitre verdi e di stupidi beccaccini, i quali guardavano tranquillamente i naviganti, senza spaventarsi pei colpi di remo avventati dall’amburghese.

 Allineati indolentemente sui banchi, si vedevano pure non pochi zopilotes, specie d’avvoltoi, piccoli, colle penne nere e che nel Messico fanno l’ufficio di spazzini. Sono uccelli cenciaiuoli, che s’incaricano della pulizia delle città, divorando ingordamente tutte le immondizie che gli abitanti gettano nelle vie. Dotati d’una voracità straordinaria, tutto inghiottono e senza soffrire. Sarebbero capaci di dilaniare anche un coleroso senza sentirne effetto alcuno, al pari dei marabù che popolano l’India.

 «Questo è il vero paradiso dei cacciatori,» disse Carmaux, il quale seguiva, con occhi ardenti, le rapide evoluzioni di tutti quei pennuti. «Se non avessimo fretta ci sarebbero da fare delle belle scorpacciate. Cosa dici, amico Stiller?»

 «Io dico che tu mi fai venire l’acquolina in bocca,» rispose l’amburghese. «Guarda quelle splendide arzavole.»

 «Bocconi da re, mio caro.»

 «E quell’uccellaccio d’aspetto guerresco, cosa sarà? Lo vedi Carmaux?»

 «Quello che va frugando i canneti?»

 «Sì, lo vedi?… Si direbbe un guerriero alato!…»

 «È un kamiki, – disse Moko.»

 «Ne so meno di prima, compare sacco di carbone, – disse Wan Stiller.»

 «Sta’ attento e saprai che specie d’uccello esso sia!… Guarda: si prepara a dare battaglia!…»

 «A chi?»

 «Aspetta, compare bianco.»

 L’uccello in questione era un bel volatile, vivace, svelto, armato d’una specie di corno che si elevava sulla sua testa e colle ali robustissime, coperte di lunghe penne rigide e terminanti in sproni assai aguzzi.

 Quell’uccello, un superstite dell’antica età, si era precipitato verso una macchia di canne, arruffando le penne e mandando un grido acuto, un grido di guerra senza dubbio.

 Il Corsaro Nero e Yara si erano pure avanzati verso il margine della zattera guardando curiosamente quello strano volatile.

 «Il kamiki si prepara ad assalire,» disse la giovane indiana. «È un uccello valoroso che non teme il veleno.»

 «Chi sta per assalire?» chiese il Corsaro.

 «Il serpente che si nasconde fra le canne,» rispose Yara.

 «È un serpentario quel volatile?»

 «Sì, mio signore. Lo vedrai all’opera.»

 Il kamiki si era precipitato nuovamente fra i canneti, sbattendo vivamente le ali e cacciando innanzi la sua testa armata. Pareva deciso a scovare l’avversario che si teneva ostinatamente nascosto, sapendo già con quale pericoloso nemico aveva da fare.

 Ad un tratto però fra le canne si vide rizzarsi un serpente, nero come l’ebano, grosso come un pugno e con la testa assai appiattita.

 Era un serpente alligatore, rettile molto comune nelle paludi dell’America centrale.

 Vedendo il kamiki risoluto a dargli battaglia, gli si era avventato contro con coraggio disperato, tentando di sorprenderlo e di morderlo.

 L’uccello, non nuovo a quelle lotte, si era prontamente riparato dietro le ali armate di speroni, agitandole furiosamente per confondere l’avversario. Questi, furioso, sibilava e dardeggiava la linguetta forcuta, contorcendosi, abbassandosi per poi allungarsi nuovamente con uno scatto improvviso.

 «Perbacco!… Che lotta!…» esclamò Carmaux, il quale seguiva attentamente le mosse dei due avversarii. «Come finirà?»

 «Colla peggio del rettile,» rispose Yara.

 «Possibile che quel volatile debba aver ragione?… E se venisse morso?»

 «Non si lascerà cogliere.»

 Il kamiki, dotato d’una agilità straordinaria, non rimaneva un solo istante fermo. Balzava innanzi minacciando il rettile col becco acuto, poi indietreggiava vivamente facendosi scudo colle ali, quindi tornava ad assalire. La lotta durava da qualche minuto, quando il kamiki, giudicando l’avversario sufficientemente stanco e disorientato, si slanciò risolutamente innanzi.

 Afferrare col robusto becco il serpente alligatore, stordirlo con due poderosi colpi d’ala e portarlo in alto fu l’affare d’un istante.

 Alzatosi a dieci o dodici metri, lo lasciò cadere bruscamente al suolo, poi piombatogli nuovamente addosso, con un colpo di becco gli sfondò il cranio.

 Ciò fatto si mise tranquillamente a mangiarselo, come se si fosse trattato d’una innocua anguilla.

 «Buon appetito,» gridò Carmaux.

 Il coraggioso volatile, satollatosi, se n’era già andato, cercando nuove prede.

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