Tigri indiane e tigri malesi

Purtroppo il disgraziato portoghese, quando si credeva ormai salvo, era stato strettamente assediato dai rajaputi, i quali si trovavano in buon numero, perché a loro si erano aggiunti parecchi battitori.

La fuga notturna, che Yanez aveva progettata con Kammamuri, era andata a vuoto, a cagione del fuoco intensissimo dei nemici.

Da quarant’otto ore non avevano potuto fare un passo e nemmeno un pasto, perché la roccia era o pareva aridissima.

Inquietissimi, arrabbiati, si aggiravano intorno all’accampamento sparando di quando in quando qualche colpo contro i rajaputi per tenerli lontani.

La fame intanto li tormentava terribilmente. Anche il Sultano, abituato a prendere i suoi pasti regolari, non aveva cessato di urlare per avere la colazione e la cena.

– Signor Yanez – disse Kammamuri, dopo alcune scariche dei rajaputi che per poco non avevano colpito la bella olandese. – È impossibile resistere.

– Lo so, mio caro, – rispose il portoghese, il quale strisciava fra le rocce, come se cercasse qualche cosa – non si può avere sempre fortuna.

– Credete che Mati sia riuscito a raggiungere Sandokan?

– Lo spero.

– Con tanti nemici che lo attendono per fargli la pelle?

– Mati non è uomo da lasciarsi sorprendere e, quantunque senza aiuti, passerà di certo attraverso le linee dei rajaputi.

– Quando finirà questo assedio?

– Io suppongo che durerà finché non riceveremo qualche aiuto, almeno da parte della nostra scorta.

– Ed intanto non abbiamo nulla da mettere sotto i denti.

– Sì, il piombo delle guardie – rispose Yanez, il quale continuava a seguire collo sguardo un profondo crepaccio che solcava l’orlo della rupe.

– Che cosa cercate dunque? – chiese Kammamuri.

– La cena.

– Dove?

– Poco fa, mentre le guardie del Sultano facevano fuoco, ho veduto un animale entrare in quella larga fessura.

– Che sia una tigre, signor Yanez?

– Non oseranno venire contro di noi, con tutto il baccano che fanno i battitori.

Andiamo a vedere. –

Si volse verso la bella olandese, la quale stava al riparo di due rocce per non ricevere qualche palla e le disse:

– Aspettateci un momento, signora e, se il Sultano vorrà tentare la fuga, avvertiteci subito.

– Gl’impedirò di andarsene – rispose la signora colla sua solita calma.

Yanez e Kammamuri presero i fucili, quantunque fossero persuasi che le armi bianche sarebbero bastate, poi ripresero l’esplorazione, spinti da quella fame che da quarant’otto ore li straziava.

Con grande stupore di Kammamuri la spaccatura si era improvvisamente allargata dinanzi a loro, mentre poco prima si era mostrata sottile quasi come un nastro.

– Dove ci conduce? – chiese.

– In una piccola caverna di certo – rispose Yanez, il quale si avanzava colla testa bassa per non farsi fucilare dai rajaputi, che occupavano ostinatamente le rive del fiume attraversato dagli elefanti.

– Che ci sia proprio qualche animale davanti a noi?

– Se ti ho detto che ho veduto un’ombra e due occhi così grossi che sembravano lanterne.

– Volete scherzare, signor Yanez?

– Vedrai, amico. –

Percorsero tutta intera la spaccatura e si fermarono dinanzi ad un masso spaccato in parte, il quale pareva che avesse dietro un gran vuoto.

– Chi direbbe che c’è qui una piccola caverna? – disse Yanez. – Ora so dove si è rifugiato quello strano animale, che per occhi porta delle lampade.

– Attento che non vi mangi una mano, signor Yanez.

– In un vuoto così stretto non può ricoverarsi un grosso animale. M’immagino già con chi avremo da fare.

– Qualche orso malese?

– No, no! Ceneremo con un piccolo tarsio-spettro, brutto animale a vedersi ma non cattivo a mangiarsi. –

Scese nella fenditura, armò per precauzione una delle sue pistole e si avvicinò alla nicchia.

Due enormi punti luminosi, che mandavano una vivissima luce, colpirono subito la sua vista.

– Un bru-samuinoli! – esclamò il portoghese. – Me l’ero immaginato.

Quassù nessun altro animale avrebbe potuto vivere, senza fare delle lunghe salite e delle faticose discese.

Amico Kammamuri, aiutami. Sono animali che si lasciano prendere, senza fare troppo i cattivi. –

In mezzo alla nicchia stava aggomitolato uno stranissimo animale, col muso informe che terminava in una bocca impossibile a descriversi.

– Per Giove! Se è brutto… – esclamò Yanez, dando indietro. – Chi è che avrà il coraggio d’impadronirsi di quell’animale che si dice lanci dai suoi occhi tutte le maledizioni delle fate e dei maghi delle foreste?

– Sono quarant’otto ore che il mio stomaco non cessa di reclamare una colazione od un pranzo – rispose Kammamuri. – Sia brutto fin che vuole, noi lo mangeremo, quantunque mi sembri di proporzioni molto modeste. –

Poteva dire modestissime, poiché non era più grosso di un coniglio.

Un boccone di carne dopo tanta fame l’avevano guadagnato e non volevano lasciarlo ai rajaputi.

Il maharatto cacciò il braccio nella nicchia, afferrò stretto l’animale senza lasciarsi spaventare dai bagliori verdastri che non cessava di proiettargli addosso, poi lo trasse fuori, strangolandolo.

– Se dovremo contare su queste provviste, sarà un affare magro, signor Yanez, – disse Kammamuri. – Qui non troveremo due libbre di carne.

– Ci contenteremo – rispose il portoghese, il quale osservava col più vivo interesse il tarsio-spettro. – Chi sa che intanto non arrivino le bande di Sandokan.

– Purché non giungano prima quelle dei rajaputi!

– Oh!… Abbiamo in nostra mano il Sultano e con un simile ostaggio si può respingere l’attacco, quasi senza sparare un colpo. –

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando nel volgere la testa verso il Sultano, che come abbiamo detto si trovava sempre legato sulla cima d’una roccia, lo vide fare colla testa una serie di segnali.

– In guardia, Kammamuri! – mormorò Yanez. – I rajaputi giungono.

– E noi andremo loro incontro! – rispose l’animoso maharatto.

– Ma anche con cotesta brutta bestia.

– Perché, signore?

– I tarsi sono temuti peggio delle palle dei lilà, perché credono che siano dei terribili stregoni.

– E se scappassimo intanto? Vedo il Sultano che continua a far segnali.

– Vado a calmarlo subito io. Ci ha dato già troppe seccature e non ne posso più. –

Stavano per uscire dalla fenditura, quando a pochi passi di distanza scoppiarono alcune fucilate.

Dei rajaputi o scikari, approfittando dell’oscurità od anche della poca guardia che facevano gli assediati, avevano guadagnato la traversa della roccia e, scivolando di masso in masso nel più profondo silenzio, stavano per mettere i piedi sull’altura.

– Presto! – gridò Yanez.

– Getto la bestia?

– Sì, in mezzo alle file. Vedrai come scappano.

Bada di non beccarti una fucilata. –

Il maharatto, quantunque gli spiacesse assai di perdere quel poco di cena che il suo stomaco reclamava imperiosamente da tante ore, balzò sulla costa della fenditura, a rischio di buscarsi un colpo di fucile, lanciò l’animale e scappò a tutte gambe.

I rajaputi, che erano riusciti a scalare inosservati la roccia, vedendo piombarsi addosso quello strano animale, i cui occhi conservavano ancora un po’ di luce, mandarono un altissimo urlo di spavento e si precipitarono novamente attraverso i massi, senza avere il coraggio di fermarsi un solo istante.

L’orrore che hanno, così gl’indiani come i malesi, pei tarsi-spettri è tale, che quando riescono a scovarne qualcuno, si affrettano ad accecarlo per timore che quella strana luce, che sembra veramente mandata da un paio di fanali, getti su di loro dei terribili malefizi. Il fatto sta che la cena del maharatto ottenne un successo insperato, perché gli assalitori tutti abbandonarono la posizione.

– Vedrai che per ora non verranno a seccarci – disse Yanez all’indiano. – Dove si trova uno di quegli animali l’indiano non passa.

– Ma abbiamo perduta le cena, signore.

– Stringi ancora la cintola.

– È tutta stretta.

– Ci rifaremo più tardi.

– Invidio la vostra calma signor Yanez, ma preferirei aver messo in corpo quella bestia, buona o cattiva non importa.

Che cosa fa dunque il Sultano? Non c’è dubbio nemmeno per me. Quell’uomo fa dei segnali.

– Mettiti in guardia colla signora ed i quattro uomini e lascia che vada a dire quattro parole a quel terribile monarca.

Si vedono i rajaputi?

– Sono passati sotto la gobba della roccia e si tengono ben lontani da quella bestia miracolosa.

– Allora andiamo un po’ a chiacchierare coll’amico. Apri gli occhi e non ti lasciar prendere.

– Vi prometto di vegliare anche sulla signora Lucy. –

Yanez percorse un tratto della rupe, spingendo gli sguardi in fondo, poi, non vedendo più i rajaputi, si accostò al Sultano, il quale pareva molto avvilito del suo insuccesso.

– È inutile che vi agitiate, Altezza, – gli disse Yanez. – Finché noi saremo quassù, i vostri uomini non oseranno montare all’attacco, mentre voi, continuando il vostro misterioso giuoco di segnalazioni, potreste correre il pericolo di prendere due colpi di pistola.

– Ah, infame pirata! – strillò il Sultano, facendo sforzi disperati per rompere i legami, ma senza riuscirvi. – Non è ancora finita questa commedia?

– Ma che! Non finirà che all’isola di Mompracem, Altezza. Là noi giocheremo la nostra più interessante partita.

– A Mompracem? – esclamò il Sultano, scricchiolando i denti. – Che cosa volete dire, mio bel milord senza incarichi diplomatici?

– Che giacché i vostri uomini hanno finalmente capito che, sparando quassù, potrebbero ammazzare anche il grande monarca del Borneo, si potrebbe venire una buona volta a delle spiegazioni.

È vero, Altezza: io non sono mai stato ambasciatore del governo inglese, perché le carte che vi ho mostrate le avevo prese al vero ambasciatore.

– Scherzate, milord?

– Vi ripeto che questa partita di piacere non finirà se non a Mompracem. Sarà là che noi, Altezza, proveremo se valgono meglio le carabine dei vostri rajaputi o quelle dei malesi e dei pirati che abbiamo assoldati in buon numero e che vegliano già da un buon mese a ponente ed a levante del vostro Stato.

– Chi siete dunque voi? – urlò il Sultano.

– Vi ricordate dei terribili tigrotti di Mompracem? Avevano due capi: uno andò a conquistarsi un trono nell’India, e l’altro, che sarebbe la famosa Tigre della Malesia, si è aperto un varco verso il nostro grande lago, facendosi proclamare rajah.

– È impossibile! Voi scherzate, milord, e credete di divertirvi alle mie spalle.

– Così poco, Altezza, che io sono il non meno famoso Yanez de Gomera, chiamato un giorno anche la Tigre bianca. Non vi scioglierò quei lacci che a Mompracem.

– Ed avreste il coraggio di passare attraverso la mia capitale? In quanti siete voi?

– Piombano dai Monti del Cristallo le bande che hanno un solo scopo: inalberare la rossa bandiera dei terribili pirati di Mompracem, a dispetto degl’inglesi e degli olandesi.

– Voi avete conquistati dei troni, e venite ad assalirmi per un isolotto che non varrebbe due colpi di fucile?

– Da sei mesi gl’inglesi, d’accordo con gli olandesi, hanno ceduto a voi l’isola.

– E con l’ordine di proibirne la riconquista a qualunque partita di pirati.

– Noi non siamo ormai più scorridori del mare, Altezza: io sono rajah di un grande regno indiano, che si chiama Assam, e la Tigre ha fatto già un bel buco nei vostri stati, sicché comprendo come Mompracem ormai non valga più una battaglia.

Ma vi assicuro, Altezza, che siamo ben decisi a batterci per terra e per mare.

– E non contate gl’inglesi?

– Certo.

– E gli olandesi?

– Andremo a domandare loro, sulle prore dei nostri prahos, fra nembi di mitraglia, perché s’immischiano in faccende che non li riguardano.

– Sono protettori di Varauni e di Mompracem, milord, e ci terranno a difendermi. –

Yanez sorrise cerimoniosamente, poi riprese:

– Per ora voi rimarrete mio prigioniero fino alla costa, se non più innanzi, e vi prevengo che sono ben risoluto a far valere su voi tutti i miei diritti di pirata, giacché mi credete tale.

– Avrete da fare i conti colla mia guardia!

– Ronza da lontano, senza osare di mostrarsi: è vero che vi eravate voi per bersaglio. –

In quel momento due colpi di fucile rimbombarono verso il margine della roccia.

– Chi ha fatto fuoco? – chiese Yanez.

– Io, signore, – rispose il maharatto.

– Rimontano?

– Pare.

– E Mati che non ritorna a portarci notizie di Sandokan!

La faccenda si aggrava, e non so come andrà a finire, quantunque tenga fra le mie mani il Sultano.

Vuoi una carabina di rinforzo, Kammamuri?

– Sarebbe meglio che veniste a vedere che cosa succede sulle rive del fiume. I rajaputi si ammassano in quella direzione come per prepararsi a un qualche combattimento.

– Che le bande di Sandokan si avvicinino? – si chiese Yanez.

Puntò le sue pistole contro il disgraziato Sultano per spaventarlo maggiormente, poi seguì il maharatto, la bella olandese e gli uomini di scorta, i quali si erano ben nascosti fra i massi.

Qualche cosa doveva infatti accadere alla base della roccia, poiché si vedevano gruppi d’uomini attraversare continuamente il fiume e si udivano, per l’aria tranquilla e silenziosa, echeggiare numerosi comandi.

Alcuni rajaputi avevano tentato di raggiungere il Sultano, colla speranza di liberarlo, ma poi dinanzi ad un attacco fulmineo degli assediati, ridiscesero anch’essi verso il fiume.

– Che cosa dici? – chiese Yanez a Kammamuri, il quale aveva fatto nuovamente fuoco, ma senza successo, poiché anche gli assedianti si guardavano bene dall’esporsi al tiro di quelle famose carabine.

– Della gente scende dai Monti del Cristallo – rispose l’indiano.

– Non possono essere che le bande di Sandokan: ormai ne sono convinto.

Teniamoci pronti ad aiutarle come meglio potremo. –

Dinanzi a loro, oltre il fiume, scendevano gli ultimi contrafforti dei Monti del Cristallo ed era verso quel punto che i rajaputi spingevano di quando in quando delle avanguardie.

Se un pericolo li avesse minacciati, non avrebbero tolto così precipitosamente l’assedio.

Era di là che il nemico doveva venire, quel nemico già annunciato da tanto tempo, sempre in armi sulle frontiere del Borneo e della regione dei laghi.

Yanez, Kammamuri, Lucy e gli uomini della scorta, piegati innanzi sopra le rocce, non staccavano gli sguardi da quelle montagne, ascoltando attentamente.

Pareva che delle truppe numerose scivolassero nei burroni, poiché di quando in quando nelle basse valli si udivano rotolare dei massi o dei tronchi d’albero spostati dai guerrieri per aprirsi il passo verso il fiume.

– Vengono – disse Yanez. – Sono essi!…

Siamo salvi!… Ormai Mompracem ricadrà nelle nostre mani e la strapperemo per sempre al Sultano.

– E se c’ingannassimo? – chiese il maharatto. – Ho udito raccontare che di quando in quando i dayachi dell’interno sconfinano per provvedersi di teste umane.

– Non ci lanceremo fra le braccia di questi salvatori a occhi chiusi – rispose il portoghese. – Se i dayachi hanno dei famosi parangs e dei kampilangs che tagliano come rasoi, noi abbiamo delle buone carabine ancora in nostra mano.

– Vorrei darvi un consiglio, signor Yanez, – disse l’indiano.

– Di’ pure.

– Se approfittassimo dell’assenza dei rajaputi per lasciare questo luogo e scendere verso il fiume?

– Anche a me era venuta la medesima idea – disse il portoghese. – Scappiamo pure, purché non si lasci andare il Sultano, che per noi è assolutamente necessario per riconquistare Mompracem.

– M’incarico io di lui, signore; e se non mi seguirà colle buone, lo farò urlare come un lupo, se pure non lo precipiterò giù dalle rocce.

– Siete pronta a seguirci, signora Lucy? – chiese Yanez. – Non vi spaventa l’idea di trovarvi in mezzo a due bande combattenti?

– Niente affatto, signore, – rispose la calmissima creatura, battendo col palmo sulla sua piccola carabina indiana. – A me basta questa per difendermi.

– A te il Sultano, Kammamuri, – disse Yanez. – Bada che non ti sfugga.

– Rispondo di tutto. –

Il portoghese si avanzò verso il ciglione della roccia che strapiombava nel fiume, dietro gli ultimi contrafforti delle Montagne del Cristallo, ed ascoltò a lungo.

Dentro i burroni si udivano sempre rotolare delle valanghe di massi, come se una piccola armata si fosse ormai incanalata verso gli sbocchi.

– Il segnale innanzi tutto – disse Yanez. – Sparate solamente pochi colpi ed a radi intervalli anche.

Se l’uomo che guida quelle bande è veramente la Tigre della Malesia, risponderà. –

Alzarono le carabine e spararono quattro colpi con un certo intervallo fra l’uno e l’altro.

Quello era il segnale stabilito con Sandokan e con Tremal-Naik, per intendersi a lunghe distanze.

Successe un breve silenzio, poi parve che tutti i Monti del Cristallo venissero presi d’assalto da orde che dovevano venire dall’interno.

Si sparava anche nei burroni, con furia incredibile, e non erano solamente colpi di carabina che le bande della Tigre della Malesia sparavano, poiché di quando in quando una serie di forti detonazioni lacerava l’aria.

Erano le spingarde ed i lilà delle bande che si provavano a mordere la carne dei rajaputi schierati lungo la riva del fiume.

– Sbrighiamoci! – gridò Yanez. – Andiamo incontro ai salvatori.

Stringetevi in gruppo, mettetevi in mezzo il Sultano e scendiamo verso il piano, prima che la battaglia diventi generale.

Che nessuno si disperda o rimanga indietro, altrimenti cadrà fra le mani dei rajaputi, i quali proveranno sul vostro collo il filo dei loro tarwar. –

Subito il maharatto fece un salto verso il Sultano e lo afferrò strettamente per le braccia, dicendogli con voce minacciosa:

– O seguirci, o dormire per sempre quassù in vista dei Monti del Cristallo. –

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