Un tragico duello

Un fascio di luce rosea, d’una infinita dolcezza, aveva invaso la foresta che si estendeva intorno all’immenso accampamento, quando il primo drappello di cacciatori si mise in marcia per fare una visita alla stanza da letto dell’elefante.

Era composto del portoghese, di Kammamuri, della bella olandese, del capo degli scikari e del Sultano.

Già i battitori in gran numero avevano svolte le loro file accerchiando un gran tratto di foresta, dove supponevano si trovasse il terribile solitario.

Un elefante solitario è sempre di pessimo umore. Cacciato, non si sa bene per quali motivi, dalla sua tribù se ne va di foresta in foresta non sognando che stragi.

Segue a distanza i suoi compagni d’un tempo, sognando forse i giuochi fatti insieme, poi si rifugia in una foresta foltissima, dove si prepara la sua stanza da letto.

Guai allora a chi si avvicina a lui! Carica all’impazzata, anche delle legioni di cacciatori e, se cade, non muore invendicato.

La stanza da letto dell’elefante solitario è ben semplice. Non si compone che di un albero vuoto al quale il pachiderma la sera si appoggia per fare le sue dormite fino all’alba o quasi.

Quell’albero peraltro è traditore ed un giorno tornerà fatale al povero colosso, insidiato anche al Borneo, come nell’India, come nell’Africa.

Gl’indigeni che vivon di caccia s’accorgono subito che quello è il posto d’un elefante dal cattivo stato della pianta, la quale presenta sempre da un lato dei guasti nella corteccia.

Il colosso, appena svegliato, ama grattarsi come un mortale qualunque e finisce con lo scortecciare la sua misera stanza da letto, e così si tradisce da sé.

Eppure questi solitari, che vengono chiamati anche capi-grigi, difendono ferocemente la loro stanza, alla quale pare che si affezionino assai. Nondimeno i dayachi ed i malesi, quantunque privi per lo più di buone armi da fuoco, non esitano a dar loro la caccia ma ricorrendo ad una sottilissima astuzia.

Scoperto l’albero, lo segano per un certo tratto, sicché quando il pachiderma, stanco delle sue lunghe corse, vi si appoggia contro, stramazza abbattendo l’intero suo rifugio.

È quello il momento d’impegnare la grande lotta. I selvaggi bornesi, che hanno del coraggio da vendere, piombano sul caduto coi kampilangs e gli recidono ferocemente il tendine d’Achille per impedirgli di risollevarsi e di prendere la fuga.

Le frecce avvelenate nel succo dell’upas, scagliate da qualche mezza dozzina di cerbottane, fanno il resto.

Come abbiano detto, il piccolo drappello si avanzava attraverso la grande foresta, per giungere al rifugio del pachiderma.

Gli scikari, a grande distanza, per non farlo spaventare, seguitavano l’accerchiamento, guardandosi bene dal mostrarsi.

– Milord, – disse la bella olandese a Yanez che le teneva compagnia – che cosa ne dite di questa caccia? Io ho accettato di prendervi parte, ma senza alcun entusiamo.

– Sarà una caccia come un’altra – rispose il portoghese – ma più pericolosa.

Guardatevi dal lasciarvi accostare dalla testa-grigia, perché un colpo di proboscide è presto scagliato e guai a chi tocca.

– Forse non pensavo in questo momento al solitario – rispose la giovane donna. – Pensavo piuttosto al Sultano.

– E perché, signora?

– Io non l’ho trovato stamane del suo solito umore e non vorrei che questa caccia vi portasse sventura.

– A me? – esclamò Yanez.

– Eppure io scommetterei che ieri sera qualche cosa è stata complottata sotto la tenda del Sultano.

– È una vostra supposizione.

– Può essere – rispose la bella olandese che accompagnava sempre Yanez, sorvegliando tutte le folte macchie della foresta, come se temesse di veder sbucare una banda di rajaputi o di dayachi.

– Il fatto è che voi non mi sembrate tranquilla, signora, – rispose il portoghese. – Avete notato nell’accampamento del Sultano qualcosa di straordinario?

– No: ho osservato solamente che quell’uomo era assai confuso quando voi siete entrato sotto la sua tenda, milord.

– Rassicuratevi, signora: tutte le volte che ci ha ricevuto, ha tenuto sempre di fronte a me un contegno ambiguo.

Si direbbe che mi crede un nemico così formidabile da sbalzarlo dai Monti del Cristallo.

– Ragione di più milord, per raddoppiare la vigilanza. Dove avete lasciata la vostra scorta?

– Si trova insieme agli scikari e non dubitate che al mio primo segnale accorrerà compatta, pronta a misurarsi colla guardia indiana del Sultano.

Noi camminiamo e non li vediamo, ma anche essi camminano e non ci perdono di vista un solo istante.

Volete una prova? –

Si erano in quel momento fermati sull’orlo di una macchia foltissima, composta quasi esclusivamente di banani delle cui frutta facevano strage i quadrumani.

– State attenta, signora, – disse Yanez. – Udite nessun rumore voi?

– No, un silenzio assoluto regna sotto quelle gigantesche foglie.

– Eppure la mia scorta in questo momento cammina, seguendoci a brevissima distanza.

Fece colle mani portavoce e gridò per tre volte con voce sonora:

– Mati!

Un momento dopo da un fascio di gomuti, svelto ed agile, si slanciava a terra il mastro dello yacht, gridando:

– Aru?

– Aru! – aveva risposto il portoghese che voleva dire: avanzate. – Come va la battuta, mio bravo amico?

– Finora, signore, gli scikari agiscono lontano da noi e non posso controllare le loro mosse – rispose Mati.

– Hai notato fra quei battitori alcuni rajaputi della guardia del Sultano?

– Ve ne sono più di quanti credete, signor Yanez, – rispose il mastro, il quale appariva un po’ turbato.

– Sapresti dirmi che cosa fanno quegli uomini fra le guardie?

– M’immagino che vorranno prendere parte alla caccia, signor Yanez.

– Temi qualche sorpresa, tu?

– Vi confesso che non sono tranquillo. Quegli indiani potevano rimanere a guardia della tenda del Sultano.

– I tuoi uomini li tieni sempre in pugno? – chiese Yanez.

– Quando daremo il segnale convenuto, li vedrete comparire.

– E dove marciano ora che non si vedono, né si odono? – chiese la bella olandese. – Sono scimmie od esseri umani?

– Sono quadrumani, quando vogliono attraversare una foresta senza destare l’attenzione dei nemici, ed uomini, quando si tratta di battersi…

Oh!… Là!… Ecco il capo-grigio che viene ad occupare la sua camera da letto.

Preparate tutte le vostre armi o noi verremo spazzati via in una carica spaventosa, dalla quale nessuno ci salverà. –

Il drappello era giunto sulle rive d’un piccolo stagno presso cui sorgeva solitario un pombo maestoso che i battitori dovevano aver segato in buona parte.

Una massa enorme, grigiastra, armata di due zanne formidabili, era improvvisamente comparsa fra la nebbia che i primi raggi del sole facevano già alzare.

Il solitario s’avanzava tranquillo, sicuro della sua forza smisurata, senza barrire.

Era un magnifico pachiderma, d’alta taglia, colla fronte larga, le zampe anteriori altissime come gli elefanti indiani, i quali sono i più belli che producano le grandi isole della Sonda e la terra del Siam, già tanto famosa pei suoi elefanti bianchi.

La bella Lucy si era messa a fianco del portoghese, come per difenderlo da qualche tradimento. Teneva sollevata la gonnella per essere più lesta a scappare in caso di pericolo, e fissava freddamente il colosso che emergeva dalla nebbia, tenendo imbracciata la sua piccola carabina inglese, la quale, se era di dimensioni modeste, aveva bensì una grande forza di penetrazione.

– Milord, – disse – tenetevi presso di me e forse non oseranno tentare il tradimento che sospetto.

Si dice che i rajaputi, che sono i guerrieri più cavallereschi che abbia l’India, risparmiano nei loro combattimenti le donne.

– Temete dunque sempre qualche sorpresa? – chiese Yanez, armando precipitosamente la sua carabina.

– Sempre, milord, ed io condivido in parte i timori della signora – disse Kammamuri.

Mi pare che ci abbiano tratto in un agguato per farci spazzar via o dal solitario o dai rajaputi.

– Al vostro posto io non avrei accettata una simile partita di caccia.

– È peraltro ancora da cominciare, – disse il portoghese – ed armi da fuoco ne abbiamo anche noi per respingere qualsiasi attacco.

– Badate, signor Yanez – disse in quel momento Kammamuri.

L’elefante era uscito dalla nebbia e percorreva la fronte dello stagno mandando di quando in quando dei sordi barriti che sembravano dei brontolii prodotti da una gigantesca gran cassa vibrante.

– Signor Yanez, – disse Kammamuri al portoghese – non andate più avanti, io conosco le furie sanguinarie di questi terribili solitari.

Vedrete fra poco alla prova quel bestione.

– Ci saremo anche noi a calmarle, mio caro, – rispose Yanez. – Abbiamo delle buone palle coniche dentro le carabine, rinforzate da un leggero strato di rame.

– Ma non vi siete accorto che l’elefante non è più solo?

Guardate dietro di lui e ditemi che cosa sono quelle masse che si avanzano attraverso la nebbia. –

Il portoghese, quantunque poco facile ad impressionarsi, si era fermato contro il tronco d’un durion, puntando la carabina.

Infatti il pachiderma non era più solo. Quattro altri colossi, armati di denti lunghissimi che dovevano pesare non meno di mezzo quintale, si avanzavano lungo la riva nebbiosa dello stagno, mandando di quando in quando dei barriti che annunciavano certamente una imminente carica.

L’esiliato si era accompagnato con altri che forse si trovavano nelle sue medesime condizioni e quella banda formidabilmente spaventosa non cessava di avanzare verso il drappello, stretta probabilmente dagli scikari che battevano le macchie più folte della selva.

– Guardatevi!… La vostra piccola carabina non potrà ottenere che degli scarsi risultati.

Non mirate alla fronte, bensì alla congiuntura della spalla.

Soltanto quando un proiettile si caccia fra quelle ossa tarpa le forze a quei terribili animali.

– Sì, signor Yanez, – disse Kammamuri – gettatevi fra i cespugli e dietro gli alberi.

– Ci sono già.

– Sotto gli altri!…

– Seguitemi, Signora Lucy, – disse Yanez. – Vi è poco da scherzare.

– Badate a voi invece, milord, – rispose la bella olandese. – Non vorrei che la camera da letto del solitario diventasse la vostra tomba, milord.

– E noi non contiamo nulla, signora? Ora siamo in pochi, ma fra un momento diventeremo tanto numerosi da tener testa alla carica di cento elefanti.

Seguitemi, signora, e tenetevi dietro l’albero e dietro le macchie, per potere sfuggire più rapidamente all’assalto che ormai non tarderà.

Il capo-grigio suona già la sua fanfara di guerra. –

Il colossale elefante che ne guidava altri tre, vedendo quelle persone, si era fermato d’un tratto e andava fiutando l’aria a diverse altezze.

L’enorme corpaccio vibrava tutto, come se avesse nascosto dentro qualche grosso istrumento musicale.

Yanez si era appoggiato fortemente contro l’albero, per non essere travolto nella corsa che doveva essere certamente terribile.

– Qui ci vuole dell’altra gente – mormorò. – Siano maledetti i capricci del Sultano! –

Attraverso la nebbia si vedevano apparire e scomparire delle ombre umane, le quali accennavano a scendere verso lo stagno per tagliare il passo al terribile capo-grigio e alla sua piccola ma non poco temuta banda.

– Via – disse Yanez – proviamo qualche colpo prima.

Gli è che siamo in pochi per arrestare la caccia che non risparmierà nessuno di noi…

Per Giove! E la mia scorta che segue i battitori? –

Si mise due dita in bocca e mandò un acutissimo fischio, che ebbe subito la sua risposta di tra i cespugli costeggianti lo stagno.

– È Mati che guida la vostra scorta, signor Yanez, – disse Kammamuri. – Questo segnale lo conosco benissimo, avendolo udito molte volte sullo yacht.

Il capo-grigio, udendo quel sibilo acuto, si era precipitato nello stagno sollevando una gigantesca ondata fangosa.

Sprofondò fino al ventre, agitando rabbiosamente la proboscide, poi prese di nuovo terra barrendo spaventosamente.

In quel momento alcuni spari risuonarono fra gli alberi. La scorta del portoghese cominciava la sua battaglia contro i colossi.

– Sparate anche voi! – gridò il portoghese. – Dobbiamo distruggere il drappello che quell’irascibile vecchione tenta di scagliare contro di noi. –

Tutti si erano gettati a terra, nascondendosi fra gli sterpi che erano numerosi in quel luogo, ed avevano cominciato a tirare schioppettate con furore.

L’irascibile capo-grigio, conscio della sua forza straordinaria, si era provato a tentare la carica, ma fatti pochi passi cadde sulle ginocchia, rompendosi una delle magnifiche zanne.

Yanez ed i suoi compagni l’avevano crivellato di palle, arrestando in tempo l’attacco, ma rimanevano ancora in piedi gli altri, i quali già tentavano di guadagnare lo stagno per giungere sulla fronte della boscaglia.

– Non vi muovete! – disse Yanez, vedendo la bella olandese ed il Sultano alzarsi. – Se ci scoprono, siamo perduti e nemmeno la scorta ci salverà. Lasciate fare a me! Vieni, Kammamuri. –

Ricaricarono rapidamente le carabine e lasciarono il loro nascondiglio per cercare di arrestare anche i compagni del solitario.

– Badate a quello che fate, signore! – disse l’indiano.

– Sono sicuro dei miei colpi ed in questo momento la mia mano non trema. –

Passarono dietro le grandi piante che formavano la fronte della foresta e comparvero bruscamente quasi sulle rive dello stagno.

Un elefante, vedendo il portoghese, gli si lanciò contro all’impazzata, sferzando l’aria colla sua tremenda proboscide.

Aveva peraltro di fronte un uomo non nuovo alle grosse cacce e che possedeva un sangue freddo meraviglioso, che non lo abbandonava mai, nemmeno durante i più gravi pericoli.

– Signor Yanez! – gridò l’indiano.

– A me il più grosso; a te il più piccolo, per ora – rispose il portoghese.

Balzò in mezzo ai cespugli che coprivano la base delle grandi piante e s’avanzò, risolutamente, contro i quattro mostri.

Stava per fare fuoco, quando uno sparo rintronò verso l’opposta fronte della foresta, che non doveva ancora essere stata occupata dagli scikari.

Un momento dopo una palla gli portava via il cappello. Qualche centimetro più sotto ed il valent’uomo era finito.

Udendo quello sparo tutti erano balzati in piedi, temendo qualche tradimento. Solamente il Sultano aveva preferito sdraiarsi fra le fresche erbe della foresta.

– Chi ha fatto fuoco contro di me? – urlò il portoghese, avvicinandosi all’elefante, la cui massa poteva servirgli da barricata.

La risposta fu uno scroscio di risa.

– Canaglia!… Mòstrati, se non sei un vile! – gridò Yanez.

– Allora eccomi! –

John Foster era scivolato fra due cespugli ed invece di far fuoco contro gli elefanti, pareva volesse decimare i cacciatori.

– Voi! – gridò Yanez, non poco impressionato da quell’apparizione. –

Miserabile, che cosa volete? Non vedete che stiamo per essere spazzati via tutti e che con noi vi è anche il Sultano?

– Non sarò certamente io, signor pirata, che vi porterò aiuto – rispose il capitano dell’affondato piroscafo.

– Volete lasciarci ammazzare tutti?

– Crepate!

– È troppo, signor Foster; ed ora, anche se vi sono gli elefanti, vi darò una tale lezione da farvela ricordare per sempre. –

Accompagnato dal fido indiano aveva raggiunto l’enorme corpaccio del capo-grigio e vi si era gettato dietro, per evitare i colpi dell’inglese.

– Mati! – gridò. – Tieni testa agli elefanti, solamente per pochi minuti. Se non puoi sloggiarli, incendia le erbe. –

Ciò detto imbracciò la carabina e guardò verso il luogo dove l’inglese erasi mostrato affrettandosi poi a scomparire, sapendo forse con che tiratore aveva da fare.

– Signor Foster, il Sultano ci guarda – disse Yanez. – Degnatevi mostrarvi perché non si faccia un brutto concetto dei marinai della grande Inghilterra.

– Signor pirata – urlò l’inglese con voce rauca – mostratemi solamente un pezzo del vostro viso per far vedere a Sua Altezza come gl’inglesi puniscono le canaglie vostre pari.

– Eh, signor mio – rispose Yanez, il quale si guardava bene dall’esporsi ai tiri del traditore – non avete ancora in tasca la mia pelle.

– Ma l’avrò, per tutti i fulmini e tutti gli uragani!…

Finché vi tenete nascosto, io non posso darvi la giusta punizione che vi spetta.

In quel momento un colpo di fucile scoppiò a fianco del portoghese.

Kammamuri, avendo potuto scorgere l’inglese, benché si tenesse prudentemente nascosto fra i cespugli, aveva sparato ma disgraziatamente aveva mancato il bersaglio.

L’inglese aveva salutato quel colpo con una beffarda risata e per un momento era scomparso fra gli alberi per sfuggire all’urto dei pachidermi, il quale diventava sempre più tenace, malgrado le scariche della piccola scorta.

– Non ti mostri ancora? – gridò Yanez.

– Non ho nessuna fretta di mandarvi a pirateggiare sui mari dell’altro mondo.

– Avete gli elefanti alle spalle.

– Me ne rido io! – rispose l’inglese.

Poteva infatti ridersene per un momento, poiché si era gettato in mezzo ad uno sterpeto, attraversato qua e là da fortissime fibre di rotangs che, quando sono tese, posseggono la resistenza delle gomene di fili di rame o d’acciaio, quali sono oggi quelle di molte navi, sia a vapore, sia a vela.

Gli elefanti non potevano lanciarsi in mezzo a quello sterpeto senza ammazzarsi, tanto più che i cespugli erano difesi da alberi di grosso fusto, resistenti anche all’urto di quei massicci bestioni.

Un pachiderma, credendo di trovare un passaggio, si era provato a scagliarsi in mezzo alla macchia, dove l’inglese, pur tenendosi nascosto, non cessava di tirare schioppettate ora contro la scorta del portoghese, ora contro i giganti delle foreste bornesi.

Il colosso che aveva tentato di assalire alle spalle l’inglese, non aveva avuto proprio fortuna. Caricando colla solita furia, si era scagliato fra i rotangs ed i gomuti, tentando di sfondarli a colpi di tromba.

Era già penetrato e distava pochi passi dall’inglese, quando la sua tromba cadde, falciata d’un colpo solo.

L’enorme appendice aveva urtato contro un rotang ed era stata tagliata.

Un barrito spaventevole, seguito da clamori paurosi ed impressionanti, annunziò la morte del pachiderma, il quale era caduto sulle ginocchia vomitando dal naso mutilato, con rapide pulsazioni, un sangue nero e spumeggiante che cadeva come pioggia rossa sullo sterpeto.

John Foster, che doveva conservare una calma ammirabile anche dinanzi a quell’estremo pericolo, si era voltato d’un tratto ed aveva fatto fuoco replicatamente.

Il gigante, già mutilato, aveva ricevuto la scarica negli occhi.

Disgraziatamente ve n’erano altri due che s’avanzavano attraverso gli sterpi, come se fossero ben risoluti di vendicare i loro compagni.

Yanez, che non perdeva di vista né l’inglese né i colossi, attese qualche istante colla speranza forse che gli elefanti si incaricassero di togliergli quel pericoloso avversario, ma poi, sprezzando la vita, si slanciò all’aperto tentando di raggiungere ancora l’enorme corpaccio del capo-grigio.

– Fa’ come me, dannato inglese! – gridò – se è vero che tu non hai paura di me.

Ecco, io mi offro ai tuoi colpi e tu fa’ altrettanto coi miei, se è vero che sei un coraggioso. –

Il Sultano intanto vedendo che le cose andavano troppo per le lunghe, con una serie di fischi acutissimi aveva fatto accorrere venti o trenta scikari, i quali battevano le macchie dietro lo sterpeto per spingere i giganti verso lo stagno.

Un altro animalaccio, niente spaventato dell’orribile fine del suo compagno, che rantolava a terra completamente dissanguato, aveva preso lo slancio e si era rovesciato là dove l’ostinato inglese si nascondeva.

Ma non aveva miglior fortuna, poiché dopo il primo impeto andò a urtare colla testa contro una fila di rotangs tesa fra due altissimi alberi come una vera corda d’acciaio.

Si udì un schianto spaventevole, seguito da barriti altissimi e dal crepitare delle piante che reggevano le fortissime liane malesi, che offrono maggiore resistenza anche di quelle americane.

I due alberi, quantunque di mole enorme, erano stati sradicati e giacevano al suolo attraverso gli sterpi.

Il disgraziato pachiderma non aveva avuto più fortuna del suo compagno.

Lanciato colla velocità di una locomotiva attraverso a tutti quegli ostacoli, era caduto sopra un calamus, resistente come l’acciaio, il quale l’aveva decapitato in un attimo.

Né gli altri due, vedendo alzarsi delle nuvolette di fumo di sopra ai cespugli, si erano fermati.

John Foster, scovato dai bruti delle grandi foreste i quali si preparavano a farlo a pezzi od a schiacciarlo contro il tronco d’un albero, si era precipitato fuori dalla brughiera urlando a squarciagola:

– Se fra voi vi è un europeo, accorra in mio aiuto perché è dovere di tutti gli uomini bianchi di proteggersi.

– Allora eccomi, John Foster, – gridò il portoghese.

– Si era appena mostrato, che l’inglese gli sparò contro una nuova fucilata colla speranza di assassinarlo a tradimento.

– Ah, miserabile! – gridò il portoghese, il quale aveva evitato il proiettile, lasciandosi cadere precipitosamente a terra.

Ma si alzò subito, e armato della sua infallibile carabina, si slanciò innanzi.

L’inglese, pressato anche dagli elefanti, si era dato alla fuga attraverso lo sterpeto, colla speranza d’intanarsi nella grande selva.

– Fermati, briccone, o faccio fuoco! – gridò Yanez, il quale si spingeva audacemente innanzi preceduto da Mati e da alcuni uomini della sua scorta.

– Avrò la tua pelle! – rispose l’inglese. – L’ho giurato ed io sono uomo da mantenere i miei giuramenti.

– Ed anche i tuoi tradimenti, indegni d’un europeo! –

John Foster continuava a correre coll’agilità d’una gazzella, quantunque non fosse più giovane.

Tre volte si fermò dietro l’enorme massa del capo-grigio e dopo essersi gettato a terra urlò:

– Ecco la palla che ti ucciderà, infame pirata! –

Aveva già puntata la carabina, mirando il portoghese, quando un colpo di fuoco prevenne il suo.

La bella olandese, che aveva assistito fino allora a quel tragico duello senza manifestare alcuna emozione, aveva sparato, e l’inglese era caduto a fianco del capo-grigio, colla testa attraversata da un proiettile conico foderato di rame.

– Grazie, signora, – le disse Yanez. – Non scorderò mai che mi avete salvata la vita.

– Anch’io avevo dei debiti di riconoscenza verso di voi, milord, – rispose Lucy colla sua solita voce pacata. – Ed ora?

– Cerchiamo di trarci d’impaccio meglio che possiamo. Qui soffia un vento strano, che sa di tradimento. –

Il portoghese ricaricò le sue armi, avendo sparato prima qualche colpo contro i pachidermi, poi gridò:

– Se vi preme la vita, stringetevi tutti intorno a me. –

Poi, lanciando verso il Sultano uno sguardo minaccioso, aggiunse:

– Che scherzo mi avete preparato, Altezza?

– Una partita di caccia e niente altro. Ci sono già a terra dei colossi e vi lagnate?

– Vorrei vedere i vostri scikari.

– Non possono lasciare in questo momento la battuta – rispose il Sultano con voce un po’ tremula.

– Badate, Altezza, che se invece preparano qualche nuovo tradimento, il primo colpo di fucile che sparerò sarà per voi.

Su, tutti intorno a me! –

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