La battaglia era cominciata furiosissima fra le tigri malesi e le tigri indiane, ansiose di provare il loro leggendario valore.
Le bande della Tigre della Malesia si erano incanalate in un largo burrone, dopo d’aver collocato una mezza dozzina di spingarde sul margine di un’altura.
Un urlo tremendo, impressionante, aveva fatto echeggiare le montagne: le tigri, più o meno umane, facevano a gara per provare prima di tutto la forza dei loro polmoni, credendo di spaventarsi a vicenda.
– Mompracem! Mompracem!
– Varauni! Varauni!
Poi seguirono delle scariche di fucili, moschetti e spingarde.
La lotta doveva essersi impegnata ferocemente d’ambo le parti, poiché le guardie del Sultano, quantunque assai inferiori, non avevano dato addietro di un solo passo; anzi avevano attaccato risolutamente con lo jatagan, per difendersi dai parangs degli avversari.
Non era un semplice scontro quello che si combatteva nei burroni dei Monti del Cristallo, bensì una vera battaglia, poiché Sandokan disponeva di un bel numero di bocche da fuoco, le quali aprivano, ad ogni istante, fra le linee nemiche, degli orribili squarci sanguinosi.
Yanez, Kammamuri, Lucy, i loro compagni ed il Sultano assistevano dall’alto a quella battaglia, che doveva finire in un massacro, poiché le tigri indiane valevano per valore e per ferocia le tigri della Malesia.
Si erano gettati tutti contro terra, per non venire fulminati dalle scariche che rimbombavano verso gli ultimi contrafforti, dove Sandokan aveva collocata tutta la sua artiglieria, per aprirsi il passo verso il fiume.
I rajaputi, fanteria saldissima, ostacolavano ferocemente il passo colle armi da fuoco e colle armi bianche, tentando a loro volta di disperdere gli avversari sotto le grandi foreste dei Monti del Cristallo.
– Tengono duro i miei compatriotti! – disse Kammamuri, il quale ammirava i rajaputi lanciati in una carica furiosa coi tarwar in pugno.
– Daranno da fare anche alle vecchie tigri di Mompracem – rispose Yanez, il quale stava ancora supino a terra continuando i proiettili a fischiare in tutte le direzioni.
– Che ricaccino sulla montagna le bande della Tigre della Malesia?
– Finché Sandokan avrà le sue artiglierie, opporrà una resistenza formidabile.
Lasciamo fare a lui: vedrai che quel tremendo uomo condurrà la battaglia meravigliosamente.
– E se noi approfittassimo del momento, signor Yanez, per scendere nella pianura portando con noi il Sultano?
– Era quello che volevo proporre, – rispose il portoghese. – Guai se questo tirannello ci sfugge di mano!
Egli solo può firmare la resa di Mompracem.
– Non perdiamo altro tempo qui, signor Yanez, – disse Kammamuri. – I rajaputi potrebbero avere il sopravvento, ed allora la riconquista di Mompracem non sarebbe stata altro che uno splendido sogno.
– Signora, – disse Yanez, volgendosi verso la bella olandese, la quale, collocata sull’orlo di una roccia, assisteva alla battaglia che diventava di momento in momento più sanguinosa. – Avreste paura a seguirci fino al fiume?
– Con voi, no, milord, – rispose la giovane donna.
– Correremo dei pericoli.
– Non saranno i primi.
– Kammamuri, affido a te il Sultano. Se non obbedisce, ricorri ai grandi mezzi.
– Sì, signor Yanez, – rispose l’indiano, precipitandosi sul monarca ed afferrandolo strettamente pei polsi.
– Furfanti! – urlò il Sultano, tentando di ribellarsi.
– Taci, cornacchia! – rispose Kammamuri, minacciandolo subito con una pistola. – Cammina, o lascerai quassù la tua pelle.
– Se non viene, spingilo – disse Yanez.
– Gli romperò le ossa, signore, anche se è un Sultano. –
Il minuscolo drappello si era rapidamente formato.
Yanez apriva la marcia con Lucy, poi seguivano il Sultano, tenuto bene stretto dal maharatto, il quale non cessava di giurare ad ogni passo di accopparlo, poi gli altri quattro uomini di scorta.
Tutta la vallata solcata dal fiume rintronava formidabilmente in quell’istante.
Le bande dei rajaputi e della Tigre della Malesia erano venute a contatto e si assalivano con un furore impossibile a descriversi.
L’artiglieria si era cacciata come un cuneo dentro le linee nemiche e le spazzava, mandandole a soqquadro, senza che quei poveri indiani potessero opporre nemmeno una semplice spingarda.
Le perdite erano gravi d’ambo le parti, poiché di quando in quando le orde correvano all’attacco colle armi bianche, cozzando tarwar contro kampilangs e contro parangs.
Urli spaventevoli salivano di tratto in tratto, facendo molta impressione alla bella olandese, la quale pareva che avesse perduto molto del suo sangue freddo in quel supremo momento.
Yanez sorpassò rapidamente le rocce battute dai proiettili, raggiunse una specie di canale e vi si buttò dentro animosamente dicendo:
– È questo il momento di aiutare gli amici. –
Tenendosi per mano, procedendo curvi per non esser colpiti da qualche scarica, i fuggiaschi scendevano, guardando di non cadere in mezzo a qualche imboscata di rajaputi, ciò che era probabilissimo, poiché i fidi guerrieri del Sultano tentavano ogni sforzo per finirla con quel gruppo di avventurieri.
Si erano immersi in dense nubi di fumo prodotte dalle artiglierie di Sandokan e di Tremal-Naik, le quali avanzavano sempre, mitragliando vigorosamente le guardie del Sultano che cadevano in gran numero sulle rive del fiume, senza poter opporre una efficace resistenza.
Non valevano le carabine né le spingarde cariche di chiodi, né i lilà, quei piccoli cannoncini che lanciano delle palle da un paio di libbre, così i corti troppo leggeri tarwar non potevano avere certamente ragione in un urto coi terribili kampilangs.
Yanez ed i suoi compagni continuavano a scendere attraverso a certi canaluzzi aperti dalle acque, che permettevano il passaggio.
Il rimbombo della battaglia toccava in quel momento il suo culmine.
Sandokan e Tremal-Naik avevano rovesciate le loro bande, forzandole verso le rive del fiume.
– Signor Yanez, – disse Kammamuri – come finirà questa faccenda? Mi pare che i rajaputi oppongano una tenace resistenza.
– Quando verranno all’arma bianca colle tigri della Malesia, vedrai che se ne andranno. –
In quell’istante una voce gridò in inglese:
– Chi vive?
– Amici! – rispose Yanez. – Vi chiediamo il favore di venire avanti a fare la nostra conoscenza.
– Chi siete? Gli avventurieri di Varauni forse?
– Per Giove! – esclamò Yanez sussultando – io l’ho udita un’altra volta questa voce; ma dove?
– Ve lo dirò io, milord, – disse la bella olandese. – Sul piroscafo che avete affondato.
– Avete ragione, signora, sarebbe una vera fortuna catturare ad un tempo il Sultano ed il vero ambasciatore inglese.
Con simili ostaggi si possono dettare delle condizioni anche a Labuan.
– Chi vive? – ripeté in quel momento la voce dello sconosciuto. – Rispondete, o faccio fuoco.
– C’è posto anche per voi, signor mio, – disse Yanez, un po’ ironicamente, cercando cogli sguardi in tutte le direzioni. – Combattono tutti e possiamo combattere anche noi, ma vi avverto che vi spazzeremo via subito, se non siete dei nostri.
– Combatto per mio conto.
– Un piacere anche quello. Da vero inglese.
– Certo! – rispose l’ambasciatore, il quale peraltro non osava uscire dai turbini di fumo che ingombravano la vallata. – Chi combatte verso i Monti del Cristallo?
– Le guardie del Sultano.
– Attaccano gli avventurieri di Varauni?
– Da tutto questo fracasso si potrebbe supporlo. Vorreste avere la gentilezza di venire a salutare il Sultano del Borneo?
– Il Sultano del Borneo!
– È qui che vi aspetta.
– Come si trova qui, invece di essere fra le sue guardie?
– I rajaputi all’ultimo momento hanno preferito abbandonare il loro Signore, dopo d’averlo dissanguato.
– Oh, fidatevi degli indiani!…
Buoni combattenti una volta lanciati, ma troppo capricciosi.
Siamo a contatto? O pare a me? –
Un uomo di alta statura, che portava delle immense fedine rosse, era uscito dalla nuvolaglia di fumo e si era diretto verso il gruppo di Yanez.
– Attento Kammamuri, – disse il portoghese. – Anche quell’uomo ci è necessario.
– Se non vi spiace lo catturo io – disse la bella olandese. – D’una donna non si deve avere paura.
– State in guardia, signora.
Prendete le mie pistole che valgono meglio della vostra carabina. – Lo sconosciuto si era finalmente mostrato, domandando arrogantemente:
– Chi siete voi? –
La risposta gliela diede subito Kammamuri, il quale aveva lasciato per un momento il Sultano che si trovava ora sotto la sorveglianza della bella olandese.
Con un salto fulmineo gli piombò addosso e con un urto irresistibile lo atterrò.
L’ambasciatore, che non si aspettava certamente quella brutta sorpresa, cadde come un bue colpito da un colpo di mazza.
– Me l’hai guastato, Kammamuri? – chiese Yanez. – Tu possiedi una forza muscolare che bisogna lasciarla in pace più che si può.
– Gl’inglesi sono duri – rispose il maharatto. – A voi!… Ecco che già apre gli occhi e che inarca le mani, come se volesse impegnare qualche partita di boxe.
– Saltagli addosso prima che scappi: è troppo prezioso anche quello. –
Kammamuri era già piombato sull’ambasciatore, martellandogli la testa a forza di pugni.
– Basta… mi arrendo – disse il disgraziato, il quale faceva degli sforzi supremi per rimettersi in piedi.
– Ne hai abbastanza? – chiese l’indiano.
– Volete accopparmi?
– Non così presto.
– Lega le mani anche a quest’uomo, uniscilo al Sultano e cerchiamo di raggiungere al più presto Varauni – disse Yanez.
– Come!… E Sandokan?
– A quest’ora sa quello che deve fare, se Mati lo ha raggiunto, come credo.
– E che cosa andiamo a fare a Varauni noi, mentre qui si combatte?
– Andiamo a scatenare la rivoluzione, mio caro. Quando le tigri giungeranno in vista della baia, può darsi che la rossa bandiera sventoli al di sotto delle gettate.
Orsù, fuggiamo prima che i combattenti ci travolgano. –
Rimanere più a lungo sulle rive del fiume, battute da terribili scariche di carabine e spazzate dalla mitraglia delle spingarde, sarebbe stato pericoloso.
Yanez, che aveva ormai formato rapidamente il suo piano, passò attraverso la boscaglia tirandosi dietro il Sultano e l’ambasciatore.
Erano giunti allora nel centro del fuoco. Da tutte le parti le palle balzavano e rimbalzavano fischiando, troncando le cime dei cespugli e facendo scappare tutti gli animali selvatici che ancora vi si potevano trovare.
Benché le tigri della Malesia avessero attaccato a fondo e risolutamente, non erano ancora riuscite a sgominare la salda fanteria indiana, la quale si faceva trucidare sul posto piuttosto che arrendersi.
Tra la melma del fiume i cadaveri si ammonticchiavano, speventosamente mutilati a colpi di tarwar o di parangs, poiché ormai così le tigri come gl’indiani avevano abbandonate le armi da fuoco, diventate quasi inutili.
Solamente le spingarde, collocate sugli avvallamenti dei Monti del Cristallo, continuavano ancora a sparare per diradare le file della tenacissima guardia, che cadeva senza gloria.
Yanez, con un rapido colpo d’occhio, prima di abbandonare la roccia, si era formata un’idea più o meno esatta del corso d’acqua e guidava tranquillamente la sua schiera, quantunque di quando in quando delle folate di mitraglia passassero in aria ed anche rasente il suolo.
Suo scopo era quello di liberarsi dalle strette dei rajaputi, che da un momento all’altro potevano rinserrarli e fare una ecatombe di quei pochi eroi.
A raggiungere la Tigre della Malesia, impegnata con tutte le sue forze, non vi era nemmeno da pensarci.
Una sola cosa rimaneva da fare ormai a Yanez: gettarsi su Varauni, sollevare i cinesi, e scatenare l’insurrezione prima del ritorno del Sultano.
Adoperando abilmente la sua piccola avanguardia, il portoghese, che conservava un sangue freddo meraviglioso, riuscì finalmente ad aprirsi la via del fiume.
Al di là vi era la grande foresta ancora tenebrosa, non essendo sorta l’alba. I rifugi non potevano mancare.
– Uno sforzo supremo, signora, – disse Yanez alla bella olandese. – Dobbiamo passare attraverso un cerchio di fuoco.
– Io sono pronta a tutto – rispose la flemmatica creatura, battendo col palmo della destra sulla canna della sua piccola carabina. – Consideratemi come un soldato, milord.
– Se tutte le donne fossero come voi, quanti malanni si eviterebbero!
– Alla guerra si va per combattere, milord, – rispose Lucy. – Non crediate poi che io sia impressionata troppo per questa battaglia che si combatte intorno a noi.
– Ecco il buon sangue del settentrione! – mormorò il portoghese. – Kammamuri, a me! –
Il maharatto, che stava tempestando di busse l’ambasciatore ed anche il Sultano, i quali con grandi urli cercavano di fare accorrere verso di loro la guardia, perché li liberasse, s’avanzò sulla riva del fiume roteando ferocemente il kampilang sul capo dei due prigionieri per terrorizzarli.
– A te la donna, Kammamuri, – gli disse Yanez. – Se fra un quarto d’ora non avremo sorpassato le ali della battaglia, non so che cosa accadrà di noi.
Sento per istinto che i bornesi del Sultano giocheranno una terribile carta.
– La guardia è ormai quasi mezzo distrutta – rispose l’indiano.
– E non conti gli scikari dell’accampamento? Vedrai che giungeranno anch’essi per darci addosso.
– Dobbiamo attraversare il fiume?
– Sì, Kammamuri.
– Brutto momento, con tutti questi proiettili che sibilano da tutte la parti!
– Non ci badare: sparano a casaccio; e poi hanno addosso le tigri di Mompracem e queste non lasceranno ai bornesi il tempo di spazzarci via tutti.
Signora Lucy, in acqua!
– Non ci annegheremo?
– Non sarebbe impossibile l’essere divorati dai gaviali che infestano sempre i corsi del Borneo, ma spero che con tutto questo baccano non avranno voglia di scherzare. –
Il baccano era diventato veramente spaventoso: infatti, nella vallata del fiume pareva in certi momenti che saltassero in aria dei lembi interi di foresta.
Continuava la sanguinosa battaglia fra le guardie del Sultano e le tigri di Mompracem con una furia incredibile.
Le bande, stanche di fucilarsi, si assalivano all’impazzata, cercando di rovesciarsi nella fiumana.
– Sotto! non cessava di gridare Yanez, il quale porgeva una mano alla bella olandese. – La nostra salvezza sta nella nostra rapidità. Badate ai coccodrilli. –
Erano riusciti a sfondare gli ultimi cespugli che si accavallavano disordinatamente sulla riva della fiumana e dopo aver ascoltato per rendersi conto dei progressi della battaglia, si cacciarono risolutamente fra le acque limacciose e nerastre, tentando la traversata prima che giungessero i formidabili rajaputi, i quali tenevano testa al nemico valorosamente pur cadendo decimati dalle scariche delle spingarde e dei lilà.
Tenendosi per mano, passando di banco in banco, i fuggiaschi, i quali traevano sempre con loro il Sultano e l’ambasciatore, erano giunti quasi presso la riva opposta, quando un fracasso più spaventevole echeggiò in mezzo alla foresta che sorgeva di fronte al drappello.
– Che cosa succede? – gridò Yanez, il quale si era arrestato su un isolotto fangoso. – Questi sono elefanti!
– Sì, signore – disse Kammamuri, che sorvegliava attentamente i suoi prigionieri, i quali tentavano di quando in quando di approfittare della confusione per filarsela per loro conto.
– Tigri malesi, tigri indiane ed elefanti!… Chi uscirà vivo da questa sinistra vallata?
– Signore, attraversiamo prontamente l’ultimo braccio di fiume – disse Kammamuri. – Vi è laggiù qualche cosa che potrà offrirci un rifugio contro tutti, almeno per un po’ di tempo. –
Una massa oscura si era delineata verso la riva e di proporzioni capaci.
Invece di uno dei soliti prahos, pareva che dei minatori cinesi avessero abbandonato in quel luogo una giunca.
Come si sa le costruzioni fluviali dei mongoli sono d’una resistenza a tutta prova. Più che navi, sembrano cassoni, ottimi per le tranquille navigazioni, ma pessimi velieri invece in altomare. Basti il dire che ogni anno la sola provincia di Canton non perde mai meno di diecimila marinai.
– Sì, là! – gridò Yanez, il quale teneva sempre per mano l’olandese.
Passando di banco in banco, il drappello riuscì finalmente a raggiungere quella massa oscura che si era arenata sulla riva, rompendosi diverse costole.
– Ecco la nostra salvezza! – disse Yanez, salendo rapidamente la scala del piccolo veliero sconquassato. – Se gli elefanti ci bloccavano in mezzo al fiume eravamo perduti.
– Ma quali elefanti credete che siano? – chiese la bella olandese.
– Quelli che i battitori hanno catturato per conto del Sultano e che ora rovesciano attraverso alle foreste per sfondare le nostre bande.
– Potremo noi resistere qui?
– Questo veliero è pesante come una roccia ed opporrà anche ai pachidermi una resistenza straordinaria.
– Non monteranno all’abbordaggio quassù quei bestioni?
– Non abbiate questo timore, signora. Le loro linee si spezzeranno contro questo ammasso di legname.
Eccoli che giungono!… Disgraziati quelli che si trovano nella foresta.
A terra i prigionieri e prepariamoci a fucilare i colossi.
– Li lego, signore, – disse Kammamuri, spingendo il Sultano e l’ambasciatore verso l’albero maestro e gettando su di loro una mezza gomena. – Ora si provino a scappare! –
In quel momento le bande degli elefanti, raccolte giorni prima dagli scikari del Sultano nel mezzo della foresta, si scagliavano con impeto irrefrenabile nel fiume, muovendo verso la veliera.
Si trattava di cinquanta e forse più pachidermi, tutti di mole enorme, capaci di spazzare da soli un esercito.
Giunti sulle rive del fiume, si arrestarono come stupiti dall’enorme baccano che echeggiava nella vallata, continuando sempre la battaglia; poi il capo fila, preso da una rabbia improvvisa, si abbatté sulla giunca tentando spostare l’enorme massa.
Come era da prevedersi cadde sulle ginocchia colla testa fracassata, mentre Kammamuri, Yanez, la bella olandese e gli uomini della scorta bruciavano furiosamente le loro cartucce.
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