CAPITOLO XI
IN TRAPPOLA
Quanto dormirono? Non lo seppero mai dire.
Alcuni spari, diretti verso la galleria che conduceva al sepolcreto, erano improvvisamente echeggiati.
Kammamuri fu il primo a balzar fuori, e subito venne imitato dal rajaputo.
Dinanzi alla porticina sgangherata, illuminati da parecchie torce, stavano in gruppo i cavalieri di Sindhia colle armi puntate.
Non erano cresciuti di numero, tuttavia erano ancora troppi per impegnare con loro un disperato combattimento.
– Orsú, siamo presi! – disse Kammamuri senza troppo inquietarsi. – Ciò presto o tardi doveva avvenire.
Il comandante del drappello scese i gradini, tenendo nelle mani un paio di pistole, e gridò:
– Ormai vi abbiamo raggiunti e non ci sfuggirete piú.
– Non ci hai ancora nelle tue mani, brutta scimmia! – rispose Kammamuri. – Anche noi siamo armati.
– Siamo in venti.
– E noi due soli; ma siamo tali uomini da dare dei fastidi anche a cento. Che cosa vuole Sindhia da noi?
– Io non lo so – rispose il comandante.
– Legarci a quattro cannoni e lanciarci in aria a brandelli?
– Io non sono il padrone. Io ho ricevuto solamente l’incarico di condurvi da lui anche morti.
– Come corri!
– Finiamola! – gridò il comandante. – O vi arrendete o ordino il fuoco.
– Un po’ di pazienza, signor mio! Non siamo delle lepri, per Buddha! Io voglio farti una proposta.
– Di’ su, spicciati.
– Di recarti da Sindhia e chiedergli quali sono le sue intenzioni a nostro riguardo.
– I nostri cavalli sono sfiniti e non potrebbero reggere. Il rajah è piú lontano di quanto tu credi.
– Che cosa fare? – si chiese Kammamuri. – Tentare la lotta? Impossibile! Vi sono dall’altra parte troppe armi da fuoco e saremmo messi subito fuori di combattimento.
Si volse verso il compagno e disse:
– Amico, noi siamo presi. Io non posso assumere la responsabilità d’un combattimento. Arrendiamoci.
Il rajaputo mandò un vero ruggito.
– Accoppiamoli tutti! – gridò.
La voce del comandante del drappello lo interruppe subito:
– Guardati! Non commettere una pazzia.
– Posa la tua carabina, mio povero rajaputo, – disse il maharatto.
– Che sia proprio finita per noi?
– Per ora sí.
– Anche senza carabina ne accopperò molti a pugni, quando si presenterà l’occasione.
– Avete deciso? – gridò il comandante impazientito.
– Sí, la resa – rispose Kammamuri.
– Era tempo. Ci avete fatto correre molto, e siamo tutti sfiniti.
– E noi non meno di voialtri – rispose Kammamuri.
Mandò un lungo sospiro e depose a terra tutte le sue armi. Il compagno lo imitò.
Il comandante del drappello, che impugnava sempre i suoi pistoloni, discese la scaletta seguíto da tutti i suoi uomini, e s’avvicinò ai prigionieri.
– In alto le mani! – gridò.
– Noi non siamo traditori – rispose il maharatto. – Puoi avvicinarti senza temere alcuna sorpresa. Ci condurrai via subito?
– È impossibile. I cavalli hanno bisogno di riposo.
– Fuori splende il sole?
– No, le stelle.
– Che dormita! – mormorò il vecchio cacciatore della Jungla nera.- I nostri corpi, d’altronde, ne avevano ben diritto.
I venti o ventidue banditi si erano avanzati nel sepolcreto con le armi sempre puntate.
Non avevano l’aspetto veramente guerresco. Vi erano piú paria fra di loro che uomini atti alle armi. Erano tutti sparuti, e a mala pena si reggevano in piedi.
Se le avevano passate dure i fuggiaschi, nemmen loro, durante quella caccia accanita, avevano potuto nutrirsi e riposarsi.
– Prendete pure le armi – disse Kammamuri al comandante.
– Vi ripeto: in alto le mani!
– Eccole! – risposero i prigionieri.
– Ora vi lascerete legare poiché noi non partiremo prima di domani.
– Fa’ come vuoi – disse Kammamuri. – Non stringete troppo le corde, altrimenti vi saltiamo alla gola come tante tigri.
– Va bene – rispose il capo, sorridendo un po’ ironicamente.
Con un segno fece accorrere i suoi uomini, i quali si erano già forniti di funicelle tolte alle loro cavalcature. In un momento i prigionieri furono legati per bene, ma non troppo strettamente.
Poi furono presi e gettati tutti insieme dentro una tomba assai vasta, che doveva aver ricevuto le spoglie di cinque o sei guerrieri per lo meno.
– Tu vuoi soffocarci! – gridò il maharatto esasperato.
– Vi state tutti benissimo lí dentro – rispose il capo. – Potrete riprendere tranquillamente il vostro sonno.
– E rimetti al posto anche la pietra?
– No, perché voglio sorvegliarvi io stesso fino al momento della partenza.
– Allora buona notte anche a voi.
– Oh, ci riposeremo di certo. Ne abbiamo bisogno.
Delle torce erano state piantate qua e là, e intorno all’avello si erano radunati sei banditi, scelti fra i piú robusti ed i meglio armati.
Gli altri si erano sdraiati sulle gualdrappe dei cavalli e avevano cominciato subito a russare.
– Sahib,- disse il rajaputo che si trovava accanto a Kammamuri – ci lasceremo portar via cosí, legati come bestie feroci? Io non so rassegnarmi.
– Ormai non vi è piú nulla da fare, mio povero amico, – rispose il maharatto. – Andiamo a vedere che cosa vuole quel furfante di Sindhia.
– Vorrà la nostra pelle, sahib.
– Non l’ha ancora presa. E poi vi è il Maharajah colle tigri della Malesia che lo tengono a bada.
– Credi che il principe ed i suoi compagni resistano ancora?
– Il principe bianco, o meglio, il signor Yanez? Io sono piú che certo che non si sono ancora arresi quei valorosi. Hanno le mitragliatrici collocate sulla cima d’una collina, e quelle armi, ben maneggiate, in un paio d’ore gettano a terra una colonna ed anche due.
– Ma volevo dirti, sahib, che io posseggo tanta forza, da rompere i miei legami ed anche i tuoi.
– Siamo troppo sorvegliati. Potresti prenderti qualche colpo di pistola senza nessun avviso. Non vedi come quelle canaglie ci spiano?
Il rajaputo alzò la testa e vide i sei banditi scelti per il quarto di guardia, tutti ritti intorno all’avello. Come si reggevano ancora in piedi dopo tante fatiche? È proprio vero che gli indostani posseggono una resistenza superiore perfino alle razze mongole.
– Hai veduto? – chiese Kammamuri.
– Sí, sahib; niente da fare – rispose il gigante agitandosi tutto.
– Allora conserva la tua forza straordinaria per piú tardi.
– Che il gurú non conosca nessun’altra molla segreta?
– Gliel’ho chiesto poco fa e mi ha risposto che altre molle vi saranno, ma che lui è troppo vecchio per ricordarsi dove si trovano.
– Allora non ci rimane che rassegnarci ad andare a trovare i grandi guerrieri del Nirvana.
– Non siamo ancora morti.
– Su chi conti, sahib?
– Io non dispero mai. Su nessuno e su tutti. Lasciamoci pure prendere, giacché per il momento siamo senz’armi.
– Vuoi che salti fuori e che accoppi quelle canaglie a pugni?
– Se sei legato al pari di me…
– Non importa: in un momento posso rompere queste funi.
– Ti ho detto che ci spiano.
– Questo è il male – disse il gigante con un lungo sospiro.
– Allora non commettere sciocchezze! – disse il maharatto. – Già io avevo previsto da tempo che i banditi di Sindhia avrebbero finito col prenderci.
– Me lo dici molto tranquillamente, sahib.
– Non è il momento di urlare.
– Dunque niente da fare? – chiese l’ostinato rajaputo.
– Per ora niente da fare. Puoi riprendere il sonno interrotto.
Il gigante, scoraggiato, si allungò a fianco del giovane cercatore di piste ,il quale russava già.
Come si trovasse lí anche lui, non lo abbiamo detto sopra per non ripetere una storia troppo simile a quella raccontata. Il lettore se ne sarà accorto da sé e non si meraviglierà se troverà qui Timul e gli altri, compreso lo strano sacerdote.
Kammamuri non tardò ad imitarlo, stendendosi presso il gurú, il quale pure dormiva tranquillamente, malgrado la presenza dei banditi di Sindhia.
– Mi odi? – gli chiese urtandolo vigorosamente.
– Sí, sahib, – rispose lo strano sacerdote.
– Non vi è alcun mezzo per fuggire? Pensa che Sindhia farà la pelle a noi tutti.
– Ti ho già detto poco fa che possono esservi qui altre molle ed altri passaggi segreti, ma che io non mi ricordo piú nulla. Sono vecchio – rispose il gurú.
– Anch’io non sono piú giovane, eppure se avessi ancora le armi, mi sentirei in grado di dare battaglia a questi banditi. Disgraziatamente è troppo tardi, e non abbiamo che le nostre braccia e per di piú ben legate.
– Io sono rassegnato al mio destino! – rispose filosoficamente il gurú. – Si prendano pure la mia pelle. Varrà ben poco, sahib, e faranno un cattivo acquisto: è tutta cicatrici perché sono stato prima un guerriero.
– Basterà per fare un tamburo.
– Poco me ne importa. Ormai la lotta è impossibile e rinuncio alla vita senza rammarico.
– E se potessimo sbarazzarci di quei furfanti?
– In qual modo ora che siamo cosí immobilizzati?
– Anche questo è vero. Forse io ho avuto troppa fretta a consegnare le armi, ma era necessario per non farci fucilare tutti.
– I rimpianti ormai sono inutili, sahib – disse il gurú . – Cosí ha voluto Siva. Cerca di riposarti, giacché non vi è nulla da tentare. Siamo come dei sepolti vivi. Guarda: hanno rimesso a posto anche la pietra dell’avello.
– Me ne sono accorto.
– Sahib,- disse il rajaputo, il quale cercava invano di addormentarsi – vuoi che spezzi i miei legami e che con due calci poderosi mandi in aria il coperchio?
– Tu non devi far nulla per ora, ti ho detto – disse Kammamuri. – Che cosa faremmo poi se non abbiamo nemmeno un miserabile tarwar ?
– Ed i miei pugni?
– Basta un colpo di carabina per metterti subito fuori di combattimento, sebbene tu abbia il torace d’un orso.
– Sahib,ti obbedisco – rispose il rajaputo. – Ho capito anch’io che ormai una lotta sarebbe assolutamente inutile. Tuttavia io cercherò di spezzare le mie corde.
– Non farti scorgere.
– Fa abbastanza oscuro dentro questa sepoltura. Lavorerò con estrema prudenza, senza far rumore. Se poi vorrai, scioglierò anche te.
– Ne riparleremo piú tardi – disse il maharatto, il quale aveva veduto comparire novamente gli uomini di guardia del comandante del drappello. – Lavora con prudenza per non farci uccidere tutti prima del tempo.
– Non farò nessun rumore. Le mie dita sono robuste quanto le tenaglie. Spezzano tutto.
– Fa’ come vuoi, povero amico; ma ti ripeto che questa volta finiremo fra le unghie di Sindhia.
– Ed è per questo, sahib, che cerco di avere almeno le braccia libere. Un giorno sulla montagna con un pugno solo ammazzai un orso che mi aveva assalito sulla discesa del…
– Mi racconterai il resto domani – lo interruppe il maharatto. – Lasciami riposare. Questo non è il luogo per raccontare delle avventure.
Il rajaputo si allungò vicino ad un compagno e si mise bravamente all’opera. Voleva essere libero prima che lo portassero via di lí.
Stirava le membra senza badare al dolore, poi lavorava di denti, sfilacciando rapidamente le funicelle.
Se era robusto come un orso, aveva anche dei denti poco dissimili a quelli di quei plantigradi.
Kammamuri, completamente immobilizzato, si lasciò cadere a fianco del gurú in attesa di qualche scarica di pistola o di carabina, poiché i banditi non avevano rallentata la sorveglianza.
Il sacerdote russava tranquillamente, ed anche Timul dormiva della grossa senza pensare al pericolo.
– Queste non sono le tigri della Malesia – disse il vecchio cacciatore della Jungla nera.
Il gigante intanto riprese il suo durissimo lavoro, cercando di non far rumore. Aveva finalmente capito che poteva prendersi di sorpresa qualche colpo d’arma da fuoco ed agiva con estrema prudenza.
Era appena trascorsa una mezz’ora, quando Kammamuri lo udí mormorare:
– Finalmente sono libero, e non mi hanno ancora ucciso.
– Ebbene, che cosa farai ora, mio povero amico? Tu conti troppo sulla tua forza – disse il maharatto.
– Preferisco essere libero piuttosto che legato. Almeno avrò la possibilità di spaccare qualche testa.
– Ti consiglio di rimanere per ora tranquillo. Potresti fare ammazzare anche noi.
– Sono una bestia. Io non ho pensato che siamo tutti senz’armi e che voi siete tutti legati.
– Come, non ti sei accorto che il comandante del drappello ci spia? Guardalo: forse si è già accorto che tu ti sei sciolto.
Il bandito che aveva surrogato quello ucciso da Kammamuri stava curvo sull’avello e guardava i prigionieri con occhi irati.
– Che cosa fate dunque? – chiese con voce minacciosa. – Volete che vi uccida prima che giunga il rajah?
– Sindhia si degna di venirci a fare una visita? – disse il maharatto con voce ironica.
– L’ho mandato a chiamare.
– Eppure tu dicevi che tutti i tuoi cavalli erano diventati bolsi.
– Ne ho trovato uno in ottimo stato.
– Durante il viaggio non lo mangeranno le tigri?
– Il cavaliere è coraggioso e saprà difendersi. Fra cinque o sei ore il rajah sarà qui.
– Potevi condurci nel suo accampamento.
– Laggiú infierisce il colera, e non ho alcun desiderio di prendermi quel malanno che di rado perdona.
– Ne sei ben sicuro?
– Muoiono in buon numero nel campo del rajah. Ieri incontrai un informatore che veniva dalla capitale e mi raccontò tutto.
– Giacché sei cosí gentile, si potrebbe sapere che cosa fa il tuo padrone?
– Questo non lo posso dire.
– Allora ci farai portare qualche cosa da mettere sotto i denti.
– Soffriamo la fame anche noi – rispose il bandito. – Non abbiamo nulla da offrirvi. Stringetevi il ventre. Finché il rajah non giungerà, non vi darò nemmeno un sorso d’acqua.
Poi rivolgendosi al rajaputo, che si era messo in ginocchio e pareva pronto a scattare, gli disse:
– Ora ti lascerai rilegare. Me ne sono accorto che hai spezzate le tue funi.
– Una volta sí, due no! – rispose il gigante con voce di tuono.
– Ed allora ti uccido! – rispose il bandito, puntandogli contro le pistole.
Il rajaputo con uno scatto fulmineo balzò fuori dell’avello e si gettò sul miserabile mandando dei veri ruggiti.
Lo afferrò pei polsi in modo da spezzarglieli, e si impadroní delle due armi da fuoco, prima che i colpi partissero.
– Ah, cane! – urlò il comandante del drappello, che stava per svenire sotto la formidabile stretta. – All’armi!
I sei uomini di guardia, quantunque mezzo addormentati, accorsero in suo soccorso.
Ma dinanzi al gigante, che impugnava una pistola per ogni mano, arretrarono, quantunque fossero armati fino ai denti.
– Largo! – tonò il gigante – o vi uccido tutti!
Il comandante del drappello si era intanto rialzato, spasimando per le strette poderose sofferte.
Guardò il rajaputo, che pareva impazzito, e gli disse:
– Rendimi le pistole, o ti faccio subito fucilare.
– I tuoi uomini non li temo – rispose il gigante.
Aveva preso le pistole per le canne e stava per servirsene come martelli. Nelle mani di quel formidabile uomo, adoperate anche in quel modo, diventavano armi terribili.
La resistenza, come già Kammamuri aveva previsto, era inutile. Tutti gli altri banditi, attratti dalle grida di allarme, accorrevano urlando colle carabine puntate.
– Che cosa vuoi fare ora? – chiese il capo del drappello. – Vedi bene che sei preso e non puoi sostenere la lotta. Lo so che sei forte, ma anche gli elefanti, che sono piú forti di te, si uccidono.
– Ebbene, fammi uccidere! – disse il rajaputo impugnando le pistole.
– A questo penserà il rajah.
– Quando verrà?
– Forse piú presto di quello che credi.
– Puoi intanto anticipare le sue stupide vendette.
– Ah, no, signor mio! Io non sono che un povero comandante di un drappello di cavalieri, ed ho ricevuto degli ordini ai quali devo assolutamente obbedire, se non voglio che il mio corpo finisca calpestato dall’elefante carnefice del rajah. Tengo un po’ anch’io alla vita, quantunque sia un uomo di guerra ed abbia ormai veduta la morte vicina a me centinaia e centinaia di volte.
– Allora affrontami. Hai degli uomini pronti ad aiutarti.
Il gigante aveva in quel momento un aspetto cosí terribile, che il capo del drappello credette opportuno rinunciare alla lotta. Già i suoi cavalieri erano scappati, come se temessero di veder crollare le vòlte del sepolcreto.
– A me, poltroni! – urlò con voce tonante.
Gli risposero delle risate.
I suoi superbi cavalieri erano già fuggiti nell’interno della pagoda. Non volevano assolutamente provare le furie di quel gigante, che pareva piú una belva che un essere umano.
– Sotto! – gridò il comandante, vedendo apparire un giovane graduato. – Non meritavi i galloni tu, ma te li farò strappare dal rajah.
– Preferisco la morte ad una tale onta.
– Aiutami.
– Scappano tutti!
– Siete dei vili!
– No, capo: aspetta che prendiamo fiato.
– Quest’uomo cerca di andarsene.
– Non andrà lontano.
Il rajaputo, ritto presso l’avello entro cui si trovavano i suoi compagni ammassati gli uni sopra gli altri, faceva veramente paura. Aveva perfino gli occhi iniettati di sangue come una bestia.
– Su, avanti! avanti! – urlava. – Vi voglio uccidere tutti!
Sette od otto banditi intanto erano tornati nel sepolcreto, e decisi a finirla, avevano puntate risolutamente le carabine.
Già stavano per far fuoco, quando al di fuori si udirono squillare delle trombe.
– Il rajah! il rajah! – gridarono tutti alzando le armi.
Il rajaputo stette un momento in forse, poi stringendo sempre le due pistole si sedette sull’avello bestemmiando.
La voce di Kammamuri si fece udire:
– Che cosa vuoi tentare, pazzo? La lotta è impossibile.
– Forse hai ragione, sahib, ma non lascio le mie armi.
– Il meglio che puoi fare è di arrenderti.
– No! – rispose il testardo.
Aveva innanzi a sé dieci banditi, i quali lo avevano preso nuovamente di mira; ma l’ercole non si sgomentò affatto.
– Voglio vedere prima la faccia del rajah – disse. – Ad arrendersi c’è sempre tempo.
In quel momento il capo del drappello ricomparve accompagnato da altri cavalieri i quali scortavano il rajah.
Erano vestiti quasi come i cipai del Bengala, e facevano una discreta figura. Le loro fasce poi erano piene di pistoloni e di corte scimitarre.
– Giú le armi! – tonò una voce.
Era Sindhia, l’ex rajah, il quale era improvvisamente comparso fra i suoi guerrieri.
– Ho faticato abbastanza per guadagnarmi queste due pistole – disse il rajaputo.
– Chi sei tu, che, solo, osi rifiutarti?
– Un uomo che saprà vendere molto cara la propria pelle – rispose il gigante.
– Abbassa quelle pistole! Io sono il rajah.
– Ti conosco, Altezza. Non è la prima volta che ti vedo.
– Se entro tre battute di mano non disarmi, comando il fuoco.
– Ma arrenditi, testardo! – gridò Kammamuri, che si trovava stretto fra i suoi compagni di sventura e per di piú ancora legato. – Te lo comando!
– Lo vuoi proprio, sahib?
– Sí, lo voglio.
Il rajaputo alzò le pistole in alto, e prima che il rajah battesse le mani le scaricò.
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