La ferita poteva essere se non mortale certamente pericolosissima, chiedeva una pronta cura se non fosse stato altro per arrestarne l’emorragia che poteva compromettere la vita del pirata.
Sandokan non lo ignorava, e appena poté riaversi un po’ dalla spossatezza, pensò subito a medicarsi, con tutte le misere risorse che gli offrivano le piante medicinali della foresta.
Con sforzo supremo, aiutandosi colle mani e coi piedi, bestemmiando e gemendo egli si trascinò fino ai primi alberi e dopo di essersi appoggiato al tronco di un betel a poca distanza da un rivoletto d’acqua, esaminò a lungo l’orribile ferita.
Aveva ricevuto una moschettata quasi a bruciapelo a segno che la carne portava ancora le tracce del fuoco; la palla era penetrata nel fianco sinistro al di sotto della quarta costola e dopo di essere sdrucciolata fra le ossa, era andata a perdersi nell’interno senza aver toccato, a quanto pareva, le parti vitali.
A ogni modo se non era mortale, poteva diventarlo per mancanza di un pronto soccorso; Sandokan non l’ignorava, e ritrovando la sua potente energia anche in quei momenti supremi, dove le ore di vita potevano essere contate, si preparò a medicarsi con tutte le risorse che poteva disporre. Egli appressò le magre dita alla ferita le cui labbra erano gonfie pel continuo contatto dell’acqua marina, e non badando alle orribili sofferenze, l’aprì, l’esaminò con occhio pratico e la premè facendone uscire un rivoletto di sangue, dapprima leggermente tinto e poi di un bel rosso.
— Bene — mormorò fra i denti. — Si guarirà!
Vi era tanta energia in queste ultime parole, da credere che fosse lui il padrone della sua vita; vi era tanta fiducia in quell’anima di ferro sostenuta dalla vendetta, che non dubitò più di guarire, ad onta delle scarse sue risorse, ad onta della mancanza d’aiuti, e della terra straniera su cui riposava.
Si trascinò senza emettere un sol gemito fino al rivoletto d’acqua, la principale medicina che egli possedesse, e spruzzò ripetutamente la ferita, poi facendo a brani un lembo della sua camicia di fina battista, fece alcune filacce, e la fasciò con mano abile. Il più era fatto, si trattava ora di cercare qualche erba a lui solo nota e di godere un lungo riposo. Il mezzo di trarsi d’impiccio sarebbe venuto dopo.
Bevette qualche sorso d’acqua per calmare la sete ardente che lo divorava cagionata da una violenta febbre, sostò ancora pallido e disfatto sostenendosi colle mani e colle gambe, credendosi sempre in procinto di venir meno, poi riprese le mosse, gemendo lugubremente. Bisognava cercar una di quelle erbe, ed egli era uomo da trovarla, e la trovò a poca distanza di un gruppo di bambù.
Era una pianticella alta al più sei pollici con ramoscelli pieghevoli, e foglie lunghe lunghe. Il pirata, facendo uno sforzo che gli costò una centesima imprecazione, strappò le radici e senza badare alla terra raggruppata attorno, si diede a masticarla finché l’ebbe ridotta a una specie di pasta gommosa, che applicò sulla ferita.
Aveva appena terminato che l’energia l’abbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una mezz’ora.
Quando tornò in sé una sete ardente lo divorava e la febbre gli faceva provare interminabili tremiti a onta del sole che brillava. Si stropicciò gli occhi, poi si mise a strisciare cercando raggiungere il torrente, ma non vi riuscì.
Allora quell’uomo si rizzò sulle ginocchia alzando le braccia verso il cielo come una minaccia, come una sfida insensata e dal suo sguardo sembrò scaturissero scintille. Si credette più forte che mai.
— A me, mie forze! È d’uopo vivere!
Si rizzò girando attorno lo sguardo torvo, sostenendosi per un miracolo di potente energia e camminò o meglio barcollò fino al rivoletto dove cadde sulle ginocchia. Non voleva di più; tuffò le avide labbra fra le gorgoglianti acque, bagnò una seconda volta la ferita. Tentò una seconda volta di rialzarsi ma non fu capace e andò ad appoggiarsi ai piedi di un arecche, le cui sei od otto foglie di una sproporzionata grandezza (non minore di quindici piedi su sette di larghezza) proiettavano una benefica ombra.
Egli rimase cinque, dieci e forse più minuti immobile, col capo appoggiato al tronco dell’albero e le braccia conserte, guardando il mare che si apriva a lui dinanzi, quasi volesse indovinare ciò che succedeva a Mompracem, poi si scosse.
La sua faccia s’abbuiò terribilmente, i suoi occhi s’accesero d’uno strano fuoco, le labbra si contrassero fremendo mostrando i denti. Un pazzo scoppio di risa gli uscì dalla gola.
— Ah! — esclamò egli con rauca voce che pareva proprio il ruggito di una tigre. — Chi avrebbe detto che un giorno Sandokan avrebbe morso la polvere sotto i colpi di un incrociatore? Chi avrebbe detto che la Tigre della Malesia avesse a cedere dinanzi a un leone? E chi avrebbe detto che la Tigre ferita si ricovererebbe nella tana del nemico? Oh! quando vi penso sento ardermi il sangue dalla vendetta!…
Una spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.
Il pirata tornò a guardare il mare sempre tranquillo e la terra su cui riposava.
— Che importa — continuò egli con maggior ira battendo coi pugni chiusi la terra, — che importa se oggi vinto e ferito mi trovo su questa odiata terra delle giacche rosse, quando domani questi luoghi che mi hanno visto approdare spossato e dissanguato non avranno più abitatore alcuno e non conserveranno più traccia di sé?…
«Che importa se oggi il leone ha il ruggito più forte della Tigre malese, quando domani sarà lui che morderà la polvere e sopra di lui sibileranno mille lingue di fuoco che struggeranno i suoi discendenti? Non si conosce ancor bene la potenza del mio braccio, il mio nome, il mio odio tutto accumulato su questo palmo di terra che dovrebbe fremere al mio soffio! Bene, battuto oggi, vincitore senza pietà domani!
Il pirata, così parlando, si animava come assaporasse di già la vendetta, agitava le braccia come brandisse una scimitarra di fuoco pronta a frantumare l’intera Labuan, fremeva e si dimenava bestemmiando.
Il dolore della ferita lo ricondusse alla realtà; egli divenne cupo e si morse le dita.
— Pazienza, Sandokan — continuò egli poi su altro tono, — la tigre della Malesia sa spiare la sua preda senza fretta e senza rumore, cerchiamo imitarla. Non sarei più il medesimo uomo se avessi a dimenticare l’onta di una sconfitta. Mompracem è laggiù al ponente, la vendetta mi darà la forza di raggiungerla, dovessi farmi schiavo di queste giacche rosse. Sono ancora il terribile Sandokan; malgrado la mia ferita, saprò trarmi d’impaccio anche sulla terra di loro… no, sulla terra del fuoco, sulla terra del Borneo!
Stette un’ora nella medesima posizione, appoggiato al tronco d’arecche, coll’occhio scintillante, fisso sul mare le cui onde venivano a morire gorgogliando a pochi passi lontano, quasi volesse invocare da esse, che egli chiamava sorelle, un aiuto e porgendo orecchio al sibilo del sangue impoverito, al battito precipitoso del cuore e ai tremiti della febbre che lo divorava. Si sentiva stordito, spossato, ammalato; il sangue gli affluiva in testa e i denti battevano come galoppo formidabile; andò ancora a spegnere la sete al ruscello tuffandovi avidamente le labbra, le mani, la testa.
I dolori ricominciarono accompagnati da una spossatezza indefinibile. La ferita gli strappava gemiti, le forze lo abbandonavano a onta di tutta la sua energia. Lottò ancora dieci volte trascinandosi alla riva del ruscello per tuffar la fronte ardente e spegnere la sete che lo divorava, confondendo Dio e gli uomini, invocando il Portoghese, i suoi pirati, la sua Mompracem, poi ricadde sfinito appié dell’arecche nel mentre che il sole dopo di aver compiuto il suo giro si tuffava nel mare dopo un breve quanto magnifico crepuscolo.
— La notte! La notte! — esclamò il ferito sollevando la terra a lui d’intorno colle unghie. — Oh! io non voglio dormire, voglio esser forte, ancora forte. Il nemico è là mi potrebbe spiare… no, non voglio dormire io… non voglio!
Si portò ambe le mani sulla ferita dolorosa e si rizzò in piedi. Girò lo sguardo verso la foresta che diventava rapidamente oscura e al mare che diventava color d’inchiostro, parve indeciso sulla via da prendere, poi si gettò sotto gli alberi, movendo diritto, senza saper il dove, né il perché. Camminava per non dormire, per non essere sorpreso dal nemico che forse vegliava; camminava per non cadere nelle sue mani.
Nel suo delirio credeva che gli Inglesi fossero là ad aspettarlo, pronti a precipitarsi su di lui appena addormentato. Credeva sempre di udire le grida degli inseguitori, i loro colpi di fucile, l’abbaiar dei loro feroci cani e fuggiva, ad onta della ferita, cadendo, rialzandosi, lasciando lembi del suo vestito ridotto a brani fra i cespugli, incespicando nelle radici, scalando alberi atterrati, precipitandosi nei ruscelli, bestemmiava, malediceva, ruggiva come la tigre agitando il suo kriss la cui impugnatura tempestata di diamanti scintillava come una face quando un raggio di luna vi batteva sopra.
Continuò la forsennata corsa per dieci minuti, internandosi sempre più nelle foreste, destando tutta la selvaggina dei dintorni, poi si arrestò anelante, smarrito. Alzò le braccia come un pazzo invocando la vendetta celeste su quella terra, che pareva ardesse sotto i suoi piedi, lasciò sfuggire un urlo da disperato e battendo l’aria colle mani, ruinò al suolo come un albero schiantato dal vento.
Allora alla febbre si aggiunse il delirio. La testa pareva fosse lì per iscoppiargli, pareva che dieci uomini la martellassero simultaneamente facendogli saltare il cervello. La ferita malgrado le filacce incominciò a sanguinare, ma pareva fuoco che uscisse dal petto e che ardesse le carni, la terra, le foreste e l’isola intera. Le forze lo abbandonarono ancora nel momento che tentava riprendere la sfrenata corsa e ricadde sui cespugli.
— Via di qua… via di qua! — urlava egli in preda al delirio e alla febbre. — Che volete voi, giacche rosse… su questa terra?… Via da questi mari… sono miei! Largo alla Tigre… largo ai pirati di Mompracem… largo ai padroni di questo mare… essi berranno il vostro sangue… essi succieranno le midolle delle vostre ossa… berranno nei vostri teschi… arderanno le vostre navi… le terre, le città, i villaggi! Che volete voi? Non avete terre in vostra patria?… ladri, avvelenatori di popoli… via di qua! via di qua!
Così parlando, il pirata si rotolava fra i cespugli mordendo la terra, strappando le radici colle unghie e coi denti. Urlava come una belva feroce, si rizzava sulle ginocchia, si batteva il capo, si torceva le braccia, stritolava i cespugli in una potente stretta. Egli credeva di aver dinanzi a sé degli Inglesi, e mordeva credendo mordere i loro crani.
— Io battuto?… La Tigre risorgerà!… vi abbrucerà col solo ruggito… vi disperderà, fossero pur cento leoni contro essa!… sangue di Maometto; io soffro per loro… sulla terra di loro… ma la pagheranno… aspettate, aspettate… vedrò i vostri volti al balenar dei cannoni! Del sangue, del sangue io ho sete… datemi del sangue di loro… traetelo dalle loro vene… datemi delle carni… carni di loro… che palpitino sotto le mie dita… datemele, io le divorerò!… Sono ferito… la palla avvelenata di loro suscita un vulcano nel mio petto… la sento ardere… ma guarirò, voglio vivere…, capisci leone d’Inghilterra… voglio vivere! voglio vedere la Perla di Labuan! Ah! maledetta Perla, fosti la mia ruina!
Uno scroscio di risa diaboliche irruppe dalle sue labbra perdendosi nel fondo delle foreste. Si arrestò colle mani contratte fra i capelli, fremente per la febbre, divorato dalla sete. Pareva che un fuoco immane gli ardesse nel petto, che la terra su cui posava fosse il fondo di una caldaia in ebollizione. Stette alcuni minuti in silenzio, poi ripigliò i suoi pazzi discorsi, destando gli echi delle foreste, agitando le mani come per allontanare delle ombre invisibili, degli scheletri, dei fiumi di sangue.
— Via di qua, via!… Che volete, orribili ombre?… Via quei fantasmi, volgete altrove quegli occhi di fuoco… Essi mi divorano! Che volete voi, nudi scheletri dalle bianche ossa e dalle vuote occhiaie?… Che avete da gemere… che avete da fare crocchiar quelle dita e quei piedi?… Perché quelle costole spezzate, quelle ossa frantumate… quei teschi aperti… via, via! Non sono Sandokan io forse? Sangue… fiumi di sangue e monti di cadaveri… sempre sangue e fantasmi. Ah! Sei tu Patau… la palla di cannone ti ha infranto il petto… Ah! siete voi… tutti voi che ho ammazzato… andate, andate laggiù nella fossa… nella gran fossa delle giacche rosse. Non verrò! non verrò!
La notte fu orribile. Il pirata in preda alla febbre e al delirio, non sognò che fiumi di sangue dove cercava invano di spegnere la sete, schiere di fantasmi avvolti nei loro sudari bianchi, e i cui occhi si fissavano nei suoi, scheletri che danzavano attorno a lui facendo crocchiar le ossa e facendo udir diabolici scoppi di risa, e una processione di uomini di tutte le razze, gementi, urlanti, coi fianchi aperti, colle teste spezzate a gran colpi di scimitarra o di scure, colle membra troncate donde uscivano fiotti di sangue e coi corpi traforati, scarnati in mille guise da palle di cannone e da mitraglia.
Ma a poco a poco tutte quelle visioni, le une più spaventevoli delle altre, rappresentanti le vittime di lui, disparvero ed egli cadde in un profondo torpore, in una specie di sonno di cui ne avea tanto bisogno, ma che durò qualche ora. Quando si svegliò era ancora notte, ma era più calmo.
— Credeva bene di esser morto! — mormorò egli guardandosi attorno con un misto di spavento e di sorpresa.
Ricompose le fascie della ferita, state rimosse durante il delirio, poi udendo il lieve mormorar di un ruscelletto vi si trascinò e spense la sete. La febbre cessava a poco a poco e vi era da credere che all’indomani stesse assai meglio della sera.
Trovò un posto fra i cespugli dove si accomodò alla meglio a pochi passi dal ruscelletto, e aspettò pazientemente il mattino, cogli occhi fissi al levante spiando ansiosamente l’apparir di qualche chiarore che segnalasse l’aurora.
Le ore passavano lente lente quasi avessero raddoppiato la lunghezza abituale, là sotto quelle fitte foreste, dove l’oscurità era più fitta che mai. Il tempo passava con una lentezza spaventevole pel ferito, abbandonato senza risorse fra quegli alberi, fra atroci sofferenze. Contava minuto per minuto, più ancora, battito per battito.
Qual supplizio! Egli ruggiva in cuor suo, e ideavasi orologi ai quali faceva rotear le sfere; faceva volare nella sua mente il tempo, maledicendo la lentezza di quei minuti altre volte sì rapidi e bestemmiava contro il sole che non appariva mai. Al di sotto dei grandi alberi poi udivasi le urla delle fiere che vagavano in cerca di preda, altro supplizio non meno spaventoso, dove il ferito provava tutte le emozioni della paura malgrado il suo coraggio, quando quelle urla andavano avvicinandosi. Se fosse stato sano, se ne sarebbe bene infischiato di loro, ma sfinito di forze, quasi impotente di lottare, in quella pericolosa situazione, armato di un solo kriss, era ben altra cosa.
Le tigri, forse le ultime che scorrazzavano le foreste, ruggivano balzando nei cespugli o arrampicandosi sui rami per attendere la selvaggina all’agguato, a cui si univano le strida delle scimie accoccolate sulle più alte cime degli alberi, affannate a respingere quei potenti carnivori o a mettersi in salvo, e l’abbaiar dei cani vaganti e il grugnir dei babirussa o dei cignali scovati.
Sandokan prestava orecchio a tutti questi concerti, a quei differenti rumori, rattenendo i gemiti, immobile fra i cespugli, col kriss in mano. Non si inquietava che delle tigri, quei carnivori potenti che avrebbero potuto piombare su di lui e farlo a brani ancor prima che avesse a pensare a difendersi. Vi era da stare all’erta tutta la notte.
Le ore, lente lente, passarono alfine, dopo una notte passata fra il delirio e l’angoscia. La luna che scintillava al di sopra degli alberi, senza tramandar uno di quei bei raggi d’argento al di sotto, tanto era fitto il fogliame, cominciò a impallidir a poco a poco man mano che una luce biancastra dapprima e rossa un po’ più tardi compariva al levante e le stelle impallidirono con essa. Il pirata respirò; le tenebre se ne volavan via dinanzi alla luce. Il sole apparve come improvvisamente illuminando la foresta, facendo tacere tutti quei concerti notturni, penetrando anche nei più reconditi luoghi. Sandokan si scosse trascinandosi fino al rivoletto d’acqua, dove lavò la ferita sempre infiammata e sempre dolorosa, applicandovi nuove filaccie e radici masticate.
Era estremamente debole, ma la febbre era cessata, un segno infallibile per credere che la guarigione benché lenta incominciava. Egli risolse di compierla ad onta di tutti gli ostacoli.
Abbisognava del cibo per richiamare le forze e rinnovare il sangue, quindi la necessità di trovarne. Non aveva che un kriss, un’arma quasi inutile per atterrare la selvaggina che il ferito non avrebbe potuto raggiungere, ma se non poteva contare su di essa, poteva almeno contare sugli alberi fruttiferi, che in quelle foreste non mancano.
Labuan, quantunque sia un lembo di terra, gode la medesima feracità di Borneo, dalla quale pare sia stato staccato in seguito a qualche formidabile cataclisma. Tutti gli alberi della Malesia hanno i loro rappresentanti, senza dimenticare anche il velenoso upas che si mostra in qualche luogo non troppo recondito dell’isola.
Non manca né di sagù, né di magnifici artocarpi, né di cavoli palmisti, né di canne da zucchero, piante che possono dare un alimento, se non troppo sostanzioso, almeno salubre ed eccellente. Sandokan non ignorava ciò, e quantunque la ferita lo facesse sempre soffrire, si mise in cerca di uno di quegli alberi, camminando come un ubbriaco o trascinandosi come un serpente quando le forze lo abbandonavano, arrestandosi per riprendere lena e ricominciando la penosa marcia fra fitti cespugli.
— Oh! troverò bene io qualche cavolo palmista o qualche sagù, che abbia a sfamarmi — mormorava egli continuando a strisciare fra erbe taglienti e acute spine. — Animo, non lasciamoci abbattere finché l’energia non viene meno, e le forze mi sorreggono, sono ancora Sandokan, la Tigre della Malesia.
Attraversò i cespugli in mezzo a centinaia e centinaia di tronchi, che si innalzavano in mille guise, gli uni più alti degli altri, inclinati o diritti o torti e lisci, frondosi o semi-spogli, e si arrestò dinanzi un piccolo albero, di tre o quattro metri di altezza, le cui foglie erano ricoperte di una fina polvere biancastra. Lo conobbe subito.
— Un sagù! — esclamò egli.
Infatti il prezioso albero, così comunemente sparso in tutta la Malesia, faceva capolino fra tutti gli altri, circondato da erbe gigantesche e da cespugli spinosi. È una delle piante più utili che oltre crescere spontaneamente nelle foreste viene con premura coltivata dagli indigeni, somministrando essa una fecola nutritiva al sommo grado che fa le veci della farina.
Non viene molto alta, tre o quattro metri al più, fa parte della gran famiglia delle palme, alle quali occorrono ben sette anni per giungere al loro pieno sviluppo e che amano i luoghi paludosi o almeno umidicci. Il sagù, la sostanza farinosa e piacevole che essa dà e che viene smerciata in gran quantità su tutte le isole della Malesia, non è che la midolla della pianta, bianca di colore, umida, nicchiata fra gl’interstizi di una fitta rete fibrosa, che si taglia a pezzetti rammollendola nell’acqua ottenendone ben un cento o centocinquanta chilogrammi.
Era una vera fortuna pel ferito l’incontro di un albero sì prezioso. La polvere biancastra sparsa sulle foglie indicava che la fecola era giunta a perfetta maturanza; nulla di più facile che cibarsene.
Sandokan, adoperando il kriss, si mise all’opera febbrilmente. Tagliò a pezzetti la parte fibrosa tanto da poter bastare per alcuni giorni, la tuffò per pochi minuti nel ruscello, poi si mise a morderla per calmare la fame che cominciava tenagliarlo trovando un po’ di sollievo in quel magro pasto.
Non bastava. Aveva un organismo di una robustezza eccezionale; bisognava trovare qualche cosa da aggiungere a quel pasto, della carne se fosse stato possibile. Impotente di abbattere qualche capo di selvaggina, si rivolse al mare cercando qualcuna di quelle enormi ostriche che quattro individui di non comune appetito sono imbarazzati a divorare. Il mare non era troppo lontano; lo udiva muggire e frangersi sulle rupi e sulle scogliere. Raccolse la sua provvista, bagnò ancora una volta la piaga e facendo sforzi da gigante camminò o meglio si trascinò fino alla spiaggia.
— Posso trovare qualcuna di quelle ostriche giganti — mormorò egli. — Il mio sangue è povero, bisogna rinnovarlo. La guarigione verrà dopo. Tagliò un bambù di quindici piedi d’altezza e ne aguzzò una delle estremità col kriss, fatto ciò si spinse nell’acqua vicino alle scogliere, scandagliando i crepacci, sostenendosi a mala pena contro l’impeto della risacca che si faceva sentire con qualche violenza.
Perlustrò ad una ad una le fessure facendone uscire frotte di pesciolini, troppo agili per venire afferrati, mosse le alghe in mezzo alle quali si appiattavano lunghe anguille, frugò sui banchi di sabbia rimescolando ostriche piccole e granchi, e continuò ad avanzarsi coll’acqua fino alle ginocchia, avvicinandosi a un banco sabbioso di pochi piedi sott’acqua.
— L’ostrica non deve mancare là, su quel banco, che si presenta a sì buon punto — pensava egli.
E infatti il marinaio non s’ingannava. Vide una di quelle ostriche colossali chiamate di Singapura, a metà seppellita nelle sabbie, capace di nutrire per lo meno due uomini. La raggiunse tuffandosi fino alle anche, si curvò, e con uno sforzo che gli costò più di un gemito, la strappò dalle sabbie.
— Ecco ciò che io cercava; che importa ora se sono ferito quando accanto a me ho un ruscello e dei viveri? Non andrò no, a battere la porta delle giacche rosse finché le forze mi resteranno; vivrò nei boschi come una tigre, e una volta guarito saprò ben io trovare la via per ritornare a Mompracem. Del resto, i miei uomini non mi hanno dimenticato.
Raggiunse la riva affranto, dove sostò, sedendosi sulla grande ostrica, che aveva rinchiuso prudentemente i suoi bivalvi. Occorreva del fuoco per farli riaprire; il kriss per quanto fosse di una tempra eccezionale non sarebbe riuscito a nulla contro il guscio di uno spessore notevole.
Gettò uno sguardo attorno, andò a raccogliere una bracciata di legne secche, sparse in gran quantità nei dintorni, colle dovute precauzioni per non trovare qualche velenoso rettile nel cavo di esse, o dei ragni se non del tutto pericolosi almeno cagionanti la febbre, e tagliando due pezzi di legno dalla tinta biancastra e lucente, si mise a strofinarli vigorosamente l’un contro l’altro finché ne trasse una fiammella. Non ci voleva altro. Le legne presero fuoco come esca, mettendo in fuga insetti, ragni e qualche serpentello innocuo, e quando furono semi-consumate, gettò la colossale ostrica sui carboni ardenti.
L’effetto fu istantaneo: i due gusci si apersero lasciando uscire un solleticante profumo. Ritiratala dal braciere, il pirata sedendosi in mezzo alle erbe e dimenticando per un istante e la ferita e la situazione disperata in cui si trovava, assalì la colossale ostrica aiutandosi colla lama del kriss.
Non aveva ancor inghiottito venti bocconi che l’abbaiar di un cane venne a ferire le sue orecchie.
Abbandonò per un momento l’ostrica e tese le orecchie, per nulla contrariato dell’abbaiar di quell’animale, che forse poteva guidare qualche cacciatore, e chi sa, forse qualche indigeno.
— Ah! se fosse un indigeno della costa o un barcaiuolo che possedesse un canotto! — esclamò egli. — Saprei ben io trascinarlo fino a Mompracem per caricarlo poi d’oro, a meno che non diventasse un pirata. Possa non essere una giacca rossa, alla quale io nulla chiederò. Ferito, pur morente, finché l’energia e l’odio per la loro razza maledetta mi sosterrà, rifiuterò i loro aiuti, i loro veleni. Tutti ignorano su questo lembo di terra chi io mi sia; il selvaggio potrà ospitarmi senza paure.
Dopo di aver ascoltato alcuni istanti, Sandokan credette bene di aspettar la comparsa del cane o del cacciatore, terminando il pranzo, la cui carne molle ed eccellente gli solleticava l’appetito. Ad onta della ferita, sbarazzò mezzo guscio.
— Aspettiamo — disse egli distendendosi mollemente sulle erbe. — Forse l’uomo o il cane si mostreranno.
Gli abbaiamenti continuavano, talvolta avvicinandosi e talvolta allontanandosi. Pareva che l’animale seguisse qualche pista. Sandokan già s’impazientiva, quando udì una detonazione in lontananza.
— È una giacca rossa! — esclamò egli rizzandosi sulle ginocchia. — Che la tigre la divori!
Non si occupò più né del cane né del cacciatore, che d’altronde parevano allontanarsi e si coricò sotto un arecche. Rimase tutto il dì là sotto, conservando una immobilità completa, l’unica medicina occorrente per la ferita già pericolosamente infiammata per gli sforzi incontrati nella pesca e nella passeggiata sotto le foreste. Con tutto ciò la febbre tornò ad assalirlo con nuovo vigore, e prima che il sole tramontasse, batteva i denti, provava ancora atroci dolori e cominciava a delirare.
Quell’uomo che non avea mai saputo che fosse paura, l’ebbe a provare quando il sole calò al ponente e le tenebre cominciarono a invadere la foresta. Ebbe paura della notte, e, deciso a tutto affrontare anziché addormentarsi, raccogliendo le ultime forze si ripose in cammino, aggravando il male. Dove andava? Egli nol sapeva. Vagava sotto i grandi alberi provando brividi interminabili come fosse nelle regioni polari, con un vulcano nel cervello, cogli occhi di bragia e il kriss convulsivamente stretto. Avrebbe fatto paura al più coraggioso isolano se avesse avuto la sfortuna d’incontrarlo.
A poco a poco la marcia fra quei cespugli, quelle spine che gli strappavano gli ultimi lembi di veste, fra quei tronchi dove vi cozzava il capo senza vederli, fra quelle erbe taglienti come tante lame flessibili, divenne rapida.
Ebbe paura, lui, il pirata, Sandokan, la Tigre della Malesia, il cui solo grido avrebbe bastato per far fuggir mezza popolazione. Il delirio tornò ad impossessarsi di lui colla febbre, si credette inseguito e si mise a fuggire.
— Qua… qua… giacche rosse! Sono io… Sandokan, la Tigre… sono io! — urlava egli.
Precipitò la corsa senza sapere ove andasse, varcando ruscelli e cespugli, scalando alberi e attraversando paludi in miniatura, cadendo e risollevandosi come la sera precedente. Correva come un forsennato, invocando le giacche rosse colla spuma alle labbra, cogli occhi fuori dall’orbite. Volava incespicando ogni cento passi, non udendo più nulla attorno fuorché il celere martellar del cuore, senza provare i dolori della ferita, soffocati dal delirio.
Quanta via percorse, non poté mai saperlo. Il fatto si è che si trovò d’improvviso dinanzi a una prateria solcata da un fiumicello scaricantesi in un ampio stagno, nel fondo della quale, in riva alle acque, sorgeva qualche cosa di nero che pareva una abitazione.
Sostò un momento, anelante, senza forza di gridare, poi si precipitò nella prateria continuando la sua sfrenata corsa. Fece cento, forse duecento passi colla schiuma alle labbra, le mani nell’aria, poi rotolò come fosse fulminato al suolo e vi rimase immobile, irrigidito, lasciando sfuggir un ultimo gemito che si perdé fra le tenebre della notte.
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