L’indiano, agile come una scimmia, s’arrampicò su per la scala e si appollaiò sull’enorme dorso dell’elefante.
Icornac , che si tenevano a cavalcioni, colle gambe nascoste dietro le immense orecchie dei pachidermi, impugnarono le loro corte picche coll’uncino aguzzo e ricurvo e mandarono un grido.
I due colossi vi risposero con un barrito assordante e si misero in marcia, preceduti da Punthy e seguiti da Darma, la quale non pareva amare troppo la vicinanza dei due bestioni.
Attraversato il villaggio che era ancora deserto, dopo un quarto d’ora, gli elefanti raggiungevano il margine delle jungle tuffandosi fra le canne e le erbe gigantesche. Avevano preso un buon passo e non esitavano mai sulla direzione. Bastava una leggera pressione dei piedi deicornac ed un semplice sibilo per piegare a destra ed a sinistra.
S’avanzavano però con una certa precauzione, scartando colla tromba le altissime canne e tastando il terreno umido e fangoso che poteva celare qualche fondo pericoloso entro cui potevano sprofondare.
La jungla si estendeva a perdita d’occhio, monotona e triste, appena rallegrata da qualche gruppo di palmizi tara, da qualche latania o da qualche gruppetto di maestosi cocchi che stendevano le loro lunghe foglie di un bel verde brillante o da qualcuno di quegli immensi alberi, che da soli formano una piccola foresta, sostenuti sovente da parecchie centinaia di tronchi e chiamansi fichi delle pagode o banian.
Un profondo silenzio regnava su quel mare di vegetali, dormendo ancora i trampolieri delle lunghe zampe che abitano a migliaia e migliaia quelle terre umide. Non si udiva che il leggero stormire delle cime dei bambú giganti ed il rauco e poderoso respiro dei due colossi.
Non essendo ancora sorto il sole, una nebbia pesante e giallastra, carica di esalazioni pestifere derivanti dall’imputridire di miriadi di vegetali, ondeggiava ancora sull’immensa pianura, nebbia pericolosa perché celava nel suo seno la febbre ed il cholera, gli ospiti abituali delle jungle gangetiche.
Il calore, che doveva diventare intenso piú tardi, non doveva tardare ad assorbirla per lasciarla ricadere dopo il tramonto.
– Ecco una nebbia che mette indosso il cattivo umore, – disse Yanez che fumava come una vaporiera e che di quando in quando si bagnava le labbra con una sorsata di vecchio cognac. – Deve fare effetto anche sulle tigri.
– Può darsi, – rispose Tremal-Naik – perché quelle che abitano le Sunderbunds godono fama di essere piú sanguinarie delle altre.
– Devono fare dei grandi vuoti fra i poveri molanghi.
– Ogni anno un bel numero di quei disgraziati finisce sotto i denti delle signorebâg , come le chiamano qui. Si calcola che quattromila indiani scompariscono per opera di quei terribili carnivori ed i tre quarti spettano alle abitatrici delle Sunderbunds.
– Ogni anno?
– Sí, Yanez.
– Ed i molanghi si lasciano divorare pacificamente?
– Che cosa vuoi che facciano?
– Che le distruggano.
– Per affrontare quelle belve ci vuole del coraggio ed i molanghi non ne hanno abbastanza.
– Non osano cacciarle?
– Preferiscono abbandonare i loro villaggi quando una mangiatrice d’uomini comincia a diventare troppo golosa.
– Non sanno preparare delle trappole?
– Scavano qua e là, nei luoghi frequentati da quelle belve, delle buche profonde, munite di pali aguzzi e coperte da sottili bambú dissimulati sotto un leggero strato di terra e di erbe, ma di rado riescono a prenderle. Sono troppo astute e poi sono cosí agili che anche cadendo entro la fossa, ottanta volte su cento riescono ancora a uscirne.
Ne usano anche altre con maggior profitto, servendosi d’un giovane albero, forte e flessibile, che piegano ad arco legando la cima ad un palo piantato nel suolo. Alla corda uniscono l’esca la quale consiste ordinariamente in un capretto od in un porcellino, disposta in modo che la tigre non possa toccarla senza introdurre prima la testa od una zampa entro un nodo scorsoio.
– Che viene stretto dallo scattare dell’albero.
– Sí, Yanez, e la tigre rimane prigioniera.
– Preferisco ucciderle colla mia carabina.
– E anche gli ufficiali inglesi sono del tuo parere.
– Vengono qui qualche volta a scovarle? – chiese Sandokan.
– Fanno di quando in quando delle battute con ottimi risultati, perché devo confessare che gli ufficiali inglesi sono bravi e coraggiosi cacciatori. Ricordo la caccia organizzata dal capitano Lenox, a cui presi parte anch’io, con molti elefanti ed un vero esercito discikary ossia di battitori e un centinaio di cani. Anzi per un pelo non vi lasciai la pelle.
– In bocca ad una tigre?
– E per colpa del mio portatore d’armi che fuggí col mio fucile di ricambio, proprio nel momento in cui ne avevo bisogno, essendomi trovato di fronte a tre tigri d’un colpo solo.
– Narra un po’ come te la sei cavata, – disse Sandokan che pareva s’interessasse straordinariamente.
– Come vi ho detto, la spedizione era stata organizzata in grande, per dare una dura lezione alle tigri che da molti mesi facevano delle vere stragi fra gli abitanti delle Sunderbunds. Spinte dalla fame o da altri motivi, avevano abbandonate le isole pantanose e pestilenziali del golfo del Bengala, facendo delle audacissime scorrerie fino entro i villaggi dei molanghi, dove osavan mostrarsi anche in pieno giorno.
In soli quindici giorni avevano divorato piú di sessanta molanghi, quattrocipayes ed il loro sergente, sorpresi sulla via di Sonapore ed i piloti di Diamond-Harbour sbranati assieme alle loro mogli.
Avevano spinta la loro audacia, da mostrarsi perfino nelle vicinanze di Port-Canning e di Ranagal.
– Si vede che erano stanche di starsene nelle Sunderbunds e che volevano cambiare paese, – disse Yanez.
– Le prime battute diedero buoni risultati, – proseguí Tremal-Naik. – Di giorno gli ufficiali inglesi le scovavano cogli elefanti; di notte le aspettavano presso le fonti, nascosti nelle buche e le fucilavano benissimo.
In tre soli giorni quattordici erano cadute sotto il piombo e tre altre erano finite sotto le zampacce degli elefanti.
Una sera, poco prima del tramonto, giunsero al campo due poveri molanghi per avvertirci d’aver veduto una tigre aggirarsi presso le rovine d’una pagoda.
Tutti gli ufficiali, compreso il capitano Lenox, erano già partiti per raggiungere le fosse d’agguato che avevano fatto scavare durante il giorno.
Al campo non ero rimasto che io coisikary , essendo stato trattenuto da un attacco di febbre.
Quantunque le mie braccia non fossero ferme, in causa dei brividi che non mi lasciavano in pace, decisi di recarmi alla pagoda, conducendo con me il mio portatore d’armi, un giovanesikaro su cui, fino allora, avevo avuto gran fiducia avendomi dato prove di coraggio e di sangue freddo.
Vi giunsi un’ora dopo il tramonto e m’imboscai fra un gruppo dimindi a breve distanza da un piccolo stagno, sulle cui rive avevo notato numerose tracce d’animali.
Era probabile che la tigre presto o tardi comparisse, amando nascondersi presso gli abbeveratoi per sorprendere i cinghiali o le antilopi che vanno a dissetarsi.
Mi trovavo colà da due ore e cominciavo a perdere la pazienza, quando vidi avanzarsi sospettoso e guardingo unnilgò , una specie di cervo che ha il capo armato di due corna aguzze, lunghe un buon piede.
La preda valeva un colpo di fucile e dimenticando la tigre, gli feci fuoco addosso. L’animale cadde, ma prima che lo avessi raggiunto si rialzò fuggendo verso la jungla. Zoppicava, sicché, convinto di averlo gravemente ferito, mi slanciai dietro di lui ricaricando la carabina.
Il mio portatore d’armi, che aveva un grossorifle di ricambio, mi aveva seguito. Stavo per superare un macchione dikalam quando ad un tratto udii fra le alte erbe dei mugolii poco rassicuranti che m’arrestarono di colpo, titubante fra l’andare innanzi ed il fuggire.
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