L’assalto del rinoceronte (prima parte)

Il pericoloso pachiderma doveva aver abbandonato quel luogo, dove forse si era fermato, per ripararsi dagli ardenti raggi del sole che sovente gli screpolano la pelle, da soli pochi minuti.

Avvertito della vicinanza di quegli uomini dal rumore che producevano iparangs nel troncare le alte canne, si era allontanato senza far rumore, prima che giungessero fino a lui.

Come Tremal-Naik aveva giustamente osservato, l’animalaccio doveva essere in uno dei suoi rari momenti di buonumore, poiché di rado quelle enormi bestie, che personificano se è possibile la forza materiale in tutto ciò che può avere di piú violento, di piú brutale e di piú irragionevole, cedono il campo.

Consce della loro forza veramente prodigiosa, della loro estrema agilità, nonostante le forme massicce del corpo e sicure della loro arma che sbudella senza alcuna difficoltà perfino un elefante, non rifiutano quasi mai la lotta.

Uomini e animali, tutti assalgono con cieco furore e nessuno può arrestare la loro carica irresistibile quando sono lanciati. Lo spessore della loro pelle d’altronde li protegge anche contro le palle e non hanno che il cervello di vulnerabile, ma bisogna giungervi attraverso l’uno o l’altro occhio e, come ben si capisce, la cosa non è facile.

Quantunque l’animale potesse da un istante all’altro tornare sui propri passi, per accertarsi da quali avversari era stato disturbato, Sandokan si era cacciato risolutamente sul sentiero seguito da Yanez e da Tremal-Naik.

Quello squarcio, aperto attraverso l’immensa jungla, dal corpaccio del pachiderma e che pareva si prolungasse sempre verso il nord-est, ossia in direzione di Khari, risparmiava ai malesi una fatica durissima e faceva guadagnare tempo.

I tre cacciatori che formavano l’avanguardia, s’avanzavano però con precauzione, con un dito sul grilletto delle carabine e si fermavano di frequente ad ascoltare.

Non si udiva alcun rumore, segno evidente che il rinoceronte aveva già guadagnato molto e che continuava la sua ritirata.

– È ben gentile, – disse Yanez. – Ci fa da battistrada e lascia respirare i nostri uomini. Dovrebbe continuare cosí fino alla porta del tuobengalow , amico Tremal-Naik.

– Anzi entrare nelle scuderie, – rispose il bengalese, ridendo. – Non gli negherei una buona provvista di radici e di tenere foglie.

– Il fatto è che mantiene sempre la buona direzione.

– Vedremo però fino a quando, – disse Sandokan. – Temo che perda la pazienza nel vedersi inseguito e che tenti un ritorno offensivo. Se cambia d’umore, ce lo vedremo rovinare addosso.

Continuarono ad avanzarsi, seguiti a cinquanta passi dai malesi che vegliavano su Surama e sulla vedova, e dopo sette od ottocento metri si avvidero che i bambú cominciavano a diradarsi, mentre piú innanzi si udiva un baccano assordante che pareva prodotto da un gran numero di uccelli acquatici guazzanti in qualche stagno.

– Che stiamo per sbucare all’aperto? – chiese Sandokan. – Una boccata d’aria la desidererei ardentemente.

– Adagio, – disse Tremal-Naik, – attenti al rinoceronte.

– Non si ode ancora nulla.

– Può essersi fermato. Yanez, fa’ avanzare tre uomini della scorta. Ikampilangs e iparangs hanno buon gioco sui tendini di quei bestioni.

Il portoghese aveva appena fatto segno a tre malesi di raggiungerli, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad una radura, nel cui mezzo si allargava uno stagno dalle acque giallastre, ingombre di canne palustri e di foglie di loto.

Sulla riva opposta vi erano delle rovine, delle colonne, delle arcate, dei pezzi di muraglie screpolate, gli avanzi probabilmente di qualche antichissima pagoda.

Sandokan aveva gettato un rapido sguardo intorno al bacino e subito retrocesse, nascondendosi in mezzo ai bambú.

– È là, l’animalaccio, – disse, – mi pare che ci aspetti per caricarci.

– Vediamo un po’ quel bruto, – disse Yanez.

Si gettò a terra e strisciò fra le canne, finché raggiunse il margine della jungla.

Il colosso stava fermo sulla riva dello stagno, colle zampacce semiaffondate nel fango e la testa abbassata in modo da mostrare il suo terribile corno teso orizzontalmente.

Era uno dei piú grossi della specie, perché misurava almeno quattro metri di lunghezza, e grosso quasi quanto un ippopotamo.

Tutto rinchiuso nella sua grossissima pelle, come entro un’armatura, quasi impenetrabile alle palle dei fucili usati in quell’epoca che non avevano la terribile penetrazione delle armi moderne, e la brutta testa, corta e triangolare, affondata nelle spalle deformi e massicce, pareva che non aspettasse che la comparsa dei cacciatori per scattare e mettere in opera il suo aguzzo corno che aveva una lunghezza d’oltre un metro.

– È ben brutto in quella posa, – disse Yanez a Tremal-Naik, che lo aveva raggiunto.

– Che non voglia lasciarci il passo libero?

– Non se ne andrà cosí presto come speri, – rispose il bengalese. – Sono testardi quegli animali.

– Possiamo colpirlo da qui? Con sei palle si dovrebbe abbatterlo.

– Ehm! Ne dubito.

– Eppure io e Sandokan ne abbiamo ucciso piú d’uno nelle foreste del Borneo. È vero però che quelli non erano cosí enormi.

– Quando è fermo è difficile colpirlo mortalmente.

– E perché?

– Perché allora le pieghe che servono come di cerniere alla sua corazza, sono aderenti le une alle altre ed impediscono alle palle di penetrare ben dentro.

Quando è in marcia invece si spostano, lasciando scoperto il tessuto sottostante e allora vi sono maggiori probabilità di toccarlo nella carne viva.

– Lasciamo che vada a farsi uccidere altrove e cerchiamo di raggiungere le rovine di quella pagoda.

Dietro a quelle colonne ed a quelle pareti, saremo al riparo dalle cariche di quell’animalaccio e potremo fucilarlo con nostro comodo.

– Purché non s’accorga della nostra manovra.

– Finché non ci mostreremo non si muoverà, lo vedrai, – rispose Tremal-Naik.

Tornarono verso Sandokan, il quale stava consigliandosi coi suoi malesi sul da farsi, non volendo esporre le due donne ad una carica del pachiderma.

La proposta di Tremal-Naik fu subito approvata. Essendo quella parte della riva cosparsa di macerie e di enormi blocchi di pietra, il rinoceronte non poteva spiegare la sua agilità e la sua violenza.

Dopo essersi accertati che il mostro non aveva cambiato posizione, si gettarono in mezzo ai canneti, spostandosi senza far rumore e girarono attorno allo stagno.

Già non distavano dalle rovine che un centinaio di passi quando udirono unniff !niff ! acuto come lo squillo d’una tromba, poi un galoppo pesante che faceva tremare il suolo.

Il pachiderma si era slanciato verso la jungla, là dove supponeva che si nascondessero i suoi avversari.

Yanez aveva preso per un braccio Surama, gridando:

– Di corsa! Ci piomba alle spalle!

Il rinoceronte, guidato da quel comando cosí inopportunamente dato, invece di precipitarsi verso il sentiero da lui poco prima aperto, aveva fatto un brusco volta faccia, scagliandosi là dove scorgeva i bambú oscillare.

Pareva un treno lanciato a tutto vapore attraverso alla jungla.

Le immense canne, spezzate come se fossero fuscelli di paglia, cadevano dinanzi a lui come falciate, mentre col corno sfondava gli ammassi intricati dei calami.

Le due donne e i pirati si erano lanciati a corsa disperata.

In pochi minuti raggiunsero la rovina, salvandosi dietro le colonne e gli enormi blocchi di granito.

Il rinoceronte sbucava in quel momento fra le canne e caricava colla testa rasente al suolo e il corno teso.

Yanez e Sandokan, che si erano rifugiiati su un muricciolo che un tempo doveva essere stato un lembo di cinta, vedendoselo dinanzi, fecero fuoco simultaneamente, quasi a bruciapelo.

Il colosso, ferito in qualche piega, s’inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi riprese subito la corsa contro il muricciolo, il quale, già screpolato, non resse a quell’urto poderoso.

I mattoni si sfasciarono di colpo ed i due pirati rotolarono in mezzo alle macerie a gambe levate.

Tremal-Naik che si trovava su un enorme blocco di pietre assieme a Surama e alla vedova, aveva mandato un urlo di terrore, credendoli perduti, a cui aveva fatto subito eco un muggito terribile.

Il rinoceronte era stramazzato al suolo agitando disperatamente le massicce zampe deretane, dai cui tendini recisi sfuggivano flotti di sangue.

– È nostro! – aveva gridato una voce.

Quasi nel medesimo istante uno dei malesi che teneva in pugno unparang gocciolante di sangue, era balzato fra i rottami, accorrendo in aiuto della Tigre della Malesia e del portoghese.

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