I due elefanti intanto continuavano la loro corsa indiavolata, imprimendo allahaudah delle scosse abbastanza brusche.
Nessun ostacolo li arrestava e nella loro corsa schiantavano come fuscelli di paglia bambú grossissimi e sfondavano cespugli ed ammassi dicalamus senza fermarsi un momento.
La jungla non accennava a variare: canne, sempre canne, strette le une alle altre da una infinità di piante parassite e pantani coperti di foglie di loto, sulle quali si riposavano placidamente, senza scomporsi nemmeno per la presenza degli elefanti, cicogne, aironi e ibis brune.
Truppe di splendidi pavoni, volatili ritenuti sacri dagli indiani perché rappresentavano, secondo le credenze, la dea Sarasvati, di quando in quando s’alzavano e se ne fuggivano via, lanciando note aspre e sgradevoli, facendo scintillare al sole le loro superbe piume sulle quali la porpora e l’oro si fondevano alle tinte scintillanti degli smeraldi.
Altre volte invece erano bisonti, o megliojungli -kudgiacome vengono chiamati dagli indiani, che balzavano improvvisamente dinanzi agli elefanti e che, dopo un po’ di esitazione, scappavano con velocità fulminea non senza mandare dei muggiti minacciosi.
Rassomigliavano molto ai colossali bisonti delle praterie del Far West americano, essendo del pari forniti d’una gobba robustissima e di taglia non inferiore e, talvolta, superando anche la lunghezza di tre metri.
La corsa degli elefanti continuò cosí fino alle undici, poi essendo giunti in uno spazio scoperto dove si vedevano degli avanzi di capanne, Sandokan diede il comando della fermata.
– Qui nessuno ardirà sorprenderci. Se qualcuno si avvicina lo scopriremo subito e poi abbiamo Darma e Punthy.
– Che non potranno raggiungerci prima di qualche ora, – disse Tremal-Naik.
Devono essere rimasti assai indietro, ma il cane non lascerà la tigre e la guiderà al nostro campo.
– Ero un po’ inquieto per loro, – disse Yanez.
– Non temere, verranno.
Gli elefanti, appena liberati dellehaudah si erano sdraiati al suolo. I poveri animali ansavano fortemente e apparivano stanchissimi e sudavano prodigiosamente.
I duecornac però eransi subito occupati di loro, facendoli sdraiare all’ombra d’unbâr della cui corteccia sono avidissimi e spalmando immediatamente le loro teste, gli orecchi ed i piedi con grasso onde la pelle non si screpolasse.
I malesi si erano invece occupati delle tende, essendo il calore diventato cosí intenso da non poter resistere all’aperto. Pareva che una vera pioggia di fuoco si riversasse sulla jungla e che l’aria diventasse rapidamente irrespirabile.
– Si direbbe che sta per scatenarsi qualche uragano, – disse Yanez, che si era affrettato a rifugiarsi sotto una delle tende. – C’è pericolo, rimanendo fuori, di prendersi un colpo di sole. Tu Tremal-Naik, che sei cresciuto fra queste canne, ne saprai qualche cosa.
– Sta per soffiare l’hot-windse faremo bene a prendere le nostre precauzioni. Si corre il pericolo di morire asfissiati.
-Hot -winds? Che cos’è?
– Ilsimun indiano.
– Un vento caldo insomma.
– Piú terribile talvolta di quello che soffia nel Sahara, – disse il signor de Lussac, che entrava in quel momento nella tenda. – L’ho provato due volte, quand’ero di guarnigione a Lucknow, e ne so qualche cosa della violenza di quei venti. È vero che colà sono ben piú terribili, e anche piú ardenti, perché giungendo da ponente si riscaldano prima passando sulle sabbie infuocate del Marusthan, della Persia e del Belucistan.
Una volta ho avuto quattordicicipayes asfissiati pel motivo che erano stati sorpresi in aperta campagna, senza alcun riparo.
– A me però sembra che si prepari piú un ciclone che del vento caldo, – disse Yanez, additando delle nubi di color giallastro, che si alzavano dal nord-ovest, avanzandosi verso la jungla con rapidità incredibile.
– Succede sempre cosí, – rispose il luogotenente. – Prima l’uragano poi il vento ardente.
– Assicuriamo le tende, – disse Tremal-Naik, – e portiamole dietro agli elefanti i quali, coi loro corpacci, ci serviranno di barriera.
I malesi, sotto la direzione dei duecornac e di Tremal-Naik, si misero all’opera, piantando attorno alle tende un gran numero di piuoli e tendendo parecchie corde al disopra delle tele.
Le avevano rizzate fra un vecchio muro, avanzo d’un villaggio, e gli elefanti erano stati fatti coricare l’un presso l’altro.
Mentre Surama, aiutata da Yanez, preparava la colazione, le nuvole avevano ormai coperto il cielo, stendendosi sopra la jungla e avanzandosi in direzione del golfo del Bengala.
Cominciava a soffiare ad intervalli un vento ardentissimo, che essiccava rapidamente i vegetali e le pozze d’acqua, mentre le nuvole si addensavano sempre piú, diventando minacciosissime.
Gli elefanti davano segni di viva agitazione. Barrivano di frequente, scuotevano gli orecchi e aspiravano fragorosamente l’aria come se non ne avessero mai a sufficienza per riempire i loro enormi polmoni.
– Mangiamo alla lesta, – disse l’ufficiale che stava osservando il cielo sul limitare della tenda, in compagnia di Sandokan.
– Il ciclone s’avanza con rapidità spaventevole.
– Resisteranno le nostre tende? – chiese la Tigre della Malesia.
– Se gli elefanti non si muovono, forse.
– Rimarranno tranquilli?
– Ecco quello che ignoro. Io ne ho veduti alcuni venire presi da un terrore improvviso e fuggire all’impazzata, senza piú obbedire alle grida dei loro guardiani. Vedrete che strage farà il vento di questi bambú.
In quel momento si udí in lontananza un latrato.
– Punthy che ritorna, – disse Tremal-Naik, precipitandosi fuori dalla tenda. – Il bravo cane giunge a tempo al rifugio.
– Sarà seguito da Darma? – chiese Sandokan.
– Eccola laggiú che s’avanza con balzi enormi, – disse il signor de Lussac. – Che bestia intelligente.
– Ed ecco il ciclone che si rovescia su di noi, – disse uno dei duecornac .
Un lampo abbagliante aveva spaccata in due la massa di vapori densi e gravidi di pioggia, mentre un improvviso colpo di vento, d’una impetuosità straordinaria, spazzava la jungla, facendo curvare fino a terra i giganteschi bambú e torcendo i rami deitara e dei pipal.
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