CAPITOLO NONO
Il tempio dei re nubiani
Mentre il legno costeggiava la sponda, dondolandosi leggermente, spinto da una fresca brezza che soffiava dal sud e che gonfiava le sue enormi vele, Mirinri, che non sentiva ancora alcun desiderio di riposarsi, dopo tante emozioni, si era seduto sul casseretto di poppa, abbandonandosi alle sue fantasticherie. Pensava ai begli occhi della giovane Faraona, che aveva salvato dalle acque di quel fiume e che per tante notti aveva turbato i suoi sonni ed i suoi sogni, od alle future grandezze verso le quali muoveva, con animo deciso, pronto a tutto, pur di conquistarle? Forse solo la maliarda che si era coricata a breve distanza da lui, su un tappeto di fibre di papiro intrecciate e lo scrutava attentamente, con uno sguardo intenso, magnetico, avrebbe potuto dirlo.
Raggomitolata quasi su se stessa come una serpe, colle nude braccia puntate sul tappeto e che di quando in quando provavano come un fremito che faceva tintinnare i numerosi braccialetti d’oro, la testa bellissima alzata, come una leonessa in agguato che cerca sorprendere il minimo rumore che le indica la presenza d’una preda o d’un nemico, seguiva le diverse impressioni che si manifestavano sul viso del giovane Faraone.
Di quando in quando un sussulto scuoteva il suo corpo, facendo ondeggiare la leggerissima kalasiris e sulla fronte passava come un’ombra. Mirinri, immerso nei suoi pensieri, pareva che non si fosse nemmeno accorto della vicinanza della maliarda. Tuttavia sia che lo sguardo di quella fanciulla gli penetrasse fino nell’anima od altro, di quando in quando involontariamente girava lentamente la testa verso di lei e faceva un gesto come per allontanare qualche ombra che gli appariva dinanzi.
La barca intanto scendeva lentamente il Nilo; le vele sbattevano sotto i colpi irregolari della brezza notturna, i lunghi pennoni scricchiolavano, urtando contro gli alberi e le corde davano dei suoni strani. Qualche ibis, che sonnecchiava fra i papiri o sulle larghe foglie del loto, fuggiva, rasentando le acque, mandando un grido di spavento e scompariva fra le palme che proiettavano sulla riva delle cupe ombre.
Nessuno a bordo parlava. Gli etiopi, appoggiati alle murate, scrutavano attentamente le tenebre. Ounis e Ata, seduti a prora, guardavano dinanzi a loro, senza scambiarsi una parola. Il primo teneva gli occhi fissi sulla cometa che stava per scomparire dietro i grandi alberi, il secondo osservava le acque.
Ad un tratto Mirinri si scosse e parve che solo allora s’accorgesse della presenza di Nefer.
«Che fai qui, fanciulla?» le chiese. «Perché non vai a riposarti?»
«Non dorme il Figlio del Sole,» rispose la maliarda, con voce così dolce che sembrò al giovane Faraone come una musica lontana.
«Io sono un uomo già abituato alle lunghe veglie del deserto,» rispose Mirinri.
«Ed io devo aspettare la comparsa del sole per predirti la buona o cattiva ventura, mio signore.»
«Ah! Me n’ero già scordato,» disse il giovane, sorridendo. «La statua di Memnone suonò quando la interrogai; il fiore della risurrezione di Osiride dischiuse le sue corolle quando lo bagnai. Quale sarà la tua profezia? Buona o cattiva?»
«Il primo raggio di sole lo dirà,» rispose Nefer. «È lui che deve ispirarmi.»
Mirinri stette un momento silenzioso, poi riprese:
«Ah! Tu devi ancora dirci chi sei, da dove vieni e perché i devoti di Bast volevano acciecarti. Quale sinistra istoria ti avvolge?»
La maliarda lo guardò senza rispondere, con una certa angoscia, che non isfuggì al giovane Faraone.
«E noi,» proseguì Mirinri, «non sappiamo ancora se tu ci sei nemica od amica.»
«Io tua nemica!» esclamò Nefer, con dolore. «Nemica di te, mio signore, che mi hai strappata dalle mani di quei miserabili?»
Si alzò, guardando dapprima le stelle, poi le placide acque del Nilo sussurranti lievemente fra le radici e le foglie del loto bianco e roseo, poi, tendendo la destra verso il sud, con un gesto tragico disse:
«Sono nata laggiù, nella Nubia nera, dove i grandi fiumi portano il loro tributo alle acque del maestoso Nilo. Mio padre non era di stirpe divina come te, mio signore, nondimeno era un gran capo e mia madre era una sacerdotessa del tempio di Kintar. La mia giovinezza si perde nelle nebbie del sacro fiume. Mi ricordo vagamente di vasti palazzi scintillanti d’oro; di templi immensi; di obelischi tanto alti che quando l’uragano infuriava pareva che toccassero le nubi; di guerrieri neri come l’ebano, armati di scuri di pietra e d’archi, che obbedivano a mio padre come se fossero schiavi. Mi pare che io fossi felice. Bambina, nuotavo nel gran fiume o solcavo le sue acque su barche dorate. Delle donne suonavano presso di me non so quali istrumenti e mi servivano in ginocchio. Un triste giorno tutto scomparve: popolo, padre, guerrieri, grandezza, potenza. Una valanga d’uomini giunta dal Basso Egitto passò come una tromba devastatrice sul mio paese e tutto disperse. Erano gli egizi del delta che invadevano la Nubia: erano i guerrieri di Pepi, l’usurpatore».
«L’usurpatore!» esclamò Mirinri. «Che cosa ne sai tu?»
«Tutto il Basso e Alto Egitto parla di quell’uomo e si sussurra che il figlio di Teti è stato rapito da una mano amica per paura che Pepi lo uccidesse e che è vivo.»
«Ah!» fece il giovane Faraone. «Continua, Nefer.»
«Mio padre fu ucciso alla testa dei suoi guerrieri, mentre difendeva disperatamente il suo territorio contro forze dieci volte superiori ed il suo corpo, crivellato di ferite, fu gettato in pasto ai voraci coccodrilli del Nilo. Il suo popolo fu disperso, le sue borgate incendiate, le donne ed i fanciulli tratti in schiavitù a Menfi.»
«Anche tu?»
«Sì, mio signore, ma appena mia madre, oppressa dalle fatiche immani che le faceva subire il suo crudele padrone si spense, io fuggii su una barca che risaliva il Nilo e vissi predicando la ventura o suonando nelle feste il ban-it (l’arpa).»
«Ciò però non mi spiega il motivo per cui ti volevano acciecare,» disse Ounis, che si era silenziosamente accostato e che aveva udite le ultime parole della fanciulla.
«Volevano far subire anche a me il crudele trattamento inflitto al primo uomo che amai,» disse Nefer.
«Chi era costui?» chiese Mirinri.
«Il padrone della barca che mi aiutò a fuggire,» rispose la maliarda, con un sospiro. «Era un giovane leale e coraggioso, che mi aveva amata ardentemente, ma mi sembrava troppo povero per me, che discendo da una casta elevata. Mi era fissa in testa di valermi di quello sventurato per riconquistare il paese strappato a mio padre. Fu una sera che andai a trovarlo sulla riva del Nilo, per metterlo a parte dei miei progetti. Egli mi aveva parlato sovente d’un tempio meraviglioso, che sorgeva nel mezzo d’una foltissima foresta che copriva una grande isola del fiume e che si diceva contenesse dei tesori incalcolabili, accumulati dagli antichi re nubiani. Avevo contato appunto su quelle ricchezze favolose per armare degli schiavi e assoldare dei guerrieri onde mi aiutassero a scacciare gli egizi che spadroneggiavano sulle terre che m’appartenevano. Avevo però udito raccontare che di tutti coloro che si erano avventurati su quell’isola per scoprire quel tempio, più nessuno era ritornato. Erano stati divorati dalle belve che infestavano quella cupa foresta o vi erano dei guardiani che vegliavano sulle ricchezze degli antichi re nubiani? Fino allora nessuno aveva potuto dir nulla. Invasa adunque dal desiderio d’impadronirmi di quei tesori, esposi al mio fidanzato le mie intenzioni.
«Era solo sulla barca quella sera, avendo mandato a terra tutti i suoi uomini. Come al solito era tetro e pensieroso, perché si struggeva d’amore per me e guardava distrattamente il sole morente che lanciava i suoi ultimi raggi obliquamente, come una pioggia d’oro, sulle acque limacciose del fiume. Gli esposi il mio progetto, dichiarandogli nettamente che non mi avrebbe sposata se non sulle terre di mio padre sgombre dagli egizi o mai. Egli mi ascoltò in silenzio, poi, quand’io ebbi finito, s’alzò, dicendomi con voce recisa: – La tua volontà sarà fatta; io andrò ad impossessarmi del tesoro dei re nubiani e con quell’oro armerò un esercito. Addio Nefer, luce dei miei occhi. Se, entro otto giorni, non mi vedrai ritornare qui, vuol dire che la dea della morte mi avrà toccato colle sue nere ali e sarai libera di sceglierti un altro uomo. –
«Strappai dalla riva una foglia di loto e gliela porsi dicendogli: – Prendila e serbala come un mio ricordo. Io l’ho baciata, io l’ho posata sul mio cuore: essa ti darà coraggio. –
«L’indomani il mio fidanzato approdava sulle sponde dell’isola misteriosa. Attraversò la folta foresta senza scorgere nessuno, né uomini né animali e giunse ben presto dinanzi ad un vasto tempio la cui porta era aperta. Non ebbe nemmeno un attimo di esitazione. Entrò in una sala immensa pavimentata a piastrelle bianche e nere, che portavano incise delle foglie di loto e degli ibis colle ali spiegate. Una semi oscurità regnava là dentro e da fessure invisibili sfuggivano delle nuvolette di fumo fortemente impregnate d’un profumo acutissimo.»
«Ma come conosci tu questi particolari?» chiese Ounis, che ascoltava con vivo interesse quella strana istoria.
«Li appresi dal mio fidanzato durante i suoi brevi istanti di lucidità,» rispose Nefer.
«Dunque non fu ucciso?» disse Mirinri.
«Aspetta ed ascoltami, mio signore.»
«Continua dunque.»
«Il mio fidanzato esaminò le pareti, non avendo veduta alcuna porta in nessun luogo e scoprì finalmente una lastra di marmo nero su cui era inciso un fiore di loto. Istintivamente posò un dito su quel fiore e la pietra girò subito su se stessa lasciando vedere uno stretto corridoio alla cui estremità brillava una luce vivissima. Egli era un uomo d’un coraggio a tutta prova e poi il pensiero di poter realizzare la promessa fattami, lo spingeva a qualunque rischio.
«Entrò dunque nel corridoio e sbucò in un’altra sala, contornata da una triplice fila di colonne che si perdevano in una oscurità misteriosa.
«Nel centro invece, una luce verdastra scaturiva dalle pietre che formavano il suolo, permettendo al mio fidanzato di scorgere dei grandi vasi di bronzo, ricolmi fino alla bocca di oro, di smeraldi, di rubini, di zaffiri e di turchesi. Ad una estremità, su un largo gradino, vi erano due sfingi che sembravano d’oro massiccio e che avevano gli occhi formati da grossi rubini. Il mio fidanzato si era fermato, non osando immergere le sue mani in quei vasi, ma poi, come spinto da una forza misteriosa, salì il gradino e passò fra i due leoni. Una tenda pareva che nascondesse qualche altra meraviglia. L’alzò colle mani tremanti ed un grido di stupore, d’ammirazione e nell’istesso tempo di timore gli sfuggì dalle labbra. Presso un gran bacino d’argento, nel cui centro scintillava una fiamma rossa, era sorta improvvisamente una giovane donna d’una bellezza meravigliosa. Un leggero velo, costellato di zaffiri e di smeraldi, copriva il suo corpo fine e flessibile, le sue braccia erano cerchiate di pesanti braccialetti e la sua fronte, ricca d’una capigliatura nera come l’ebano, era adorna d’uno smeraldo d’uno splendore e d’una grossezza incredibile».
Nefer si era arrestata. La sua destra si portò, come involontariamente, sulla fronte e alzò i capelli che le cadevano fino quasi sugli occhi.
Ounis e Mirinri, che la guardavano attentamente, videro scaturire al di sotto dei capelli come un lampo verdastro.
Lo proiettava una grossa pietra, forse uno smeraldo simile a quello che portava la giovane misteriosa che era comparsa presso il bacino d’argento, nel cui centro fiammeggiava la lingua di fuoco rosso.
Nefer che si era forse accorta della loro sorpresa, non lasciò loro tempo di rivolgerle alcuna domanda.
«Il mio fidanzato,» continuò, «cogli occhi pieni di quella visione meravigliosa che oltrepassava in splendore tutto quanto aveva potuto sognare, si era lasciato cadere lentamente sulle ginocchia, tenendo le mani verso l’apparizione radiosa ed immobile, che lo fissava con uno sguardo penetrante come la punta di una spada. In quel momento egli si era scordato di me ed i suoi giuramenti d’amore si erano dileguati. Egli non mirava più le immense ricchezze, che dovevano servire a liberare le terre di mio padre dai guerrieri di Pepi; quella donna era il tesoro impareggiabile, che valeva mille volte tutto ciò che era racchiuso nei vasi.
«Era appena caduto in ginocchio dinanzi a quell’apparizione divina, quando sentì una mano posarglisi su una spalla. Presso di lui, otto sacerdoti, racchiusi in lunghe e candide vesti, coi volti coperti da lunghe barbe bianche, stavano rigidi, implacabili. Uno di essi, colui che l’aveva toccato, gli disse, curvandolo al suolo con forza sovrumana: – Tu hai voluto vedere e tu hai veduto. Quale desideri di tutti i tesori racchiusi in questo tempio? È l’oro il padrone del mondo o sono le pietre preziose rutilanti di luce, dagli splendori abbaglianti che acciecano le fanciulle? Parla e scegli!
«Perduto nella sua contemplazione, il mio fidanzato tese le mani verso la donna bellissima, che stava sempre fitta dinanzi al gran bacino d’argento, illuminata dai rossi riflessi della fiamma: – Lei è il tesoro che io desidero! – esclamò il disgraziato, – Nefer è nulla in confronto a lei e l’ho già scordata. Regina di beltà, i miei occhi non vedranno d’ora innanzi che te, divinità scesa sulla terra. Io non desidero né pietre preziose, né quell’oro che è la leva del mondo; chiedo solo che mi sia permesso di contemplare di continuo la tua raggiante bellezza, o fanciulla divina. Preferirei di non più vedere la luce del giorno, piuttosto che cessare d’ammirarti.
«La giovane fece un gesto, poi disse: – Che sia fatta la tua volontà. La tua risposta ti salva l’esistenza, poiché tu hai scelto la mia bellezza, perfezione eterna, alle immense ricchezze accumulate in questo tempio, da secoli e secoli dagli antichi sovrani dell’Alto Nilo. Ma tu non ignori che coloro che vollero vedermi non ritornano, a meno che non siano Figli del Sole, dei Faraoni. Più fortunato di costoro, tu rientrerai nel mondo, ma non potrai vedere altre meraviglie, né narrare a chicchessia quello che hai veduto. Va’, ammira prima bene, riempi i tuoi occhi della mia bellezza divina, poi rientra nell’oscurità fino al giorno della tua morte.
«Il mio fidanzato, sempre inginocchiato dinanzi alla radiosa visione, pareva che non l’ascoltasse. Tutta la sua vita era concentrata nei suoi occhi, che teneva fissi su quella meravigliosa bellezza.
«Ad un tratto un urlo atroce gli irruppe dal petto. Uno dei sacerdoti gli aveva toccate le pupille con un bidente di bronzo arroventato, dicendogli poscia, con voce ironica: – Nella notte che d’ora innanzi ti avvolgerà tu avrai sempre presente la visione superba della beltà eterna che tu sapesti apprezzare meglio dei tesori racchiusi in questo tempio degli antichi re nubiani e, fino alla morte, avrai per te solo l’immagine divina di quella che hai contemplato ed il suo ricordo farà battere per sempre il tuo cuore.
«Che cosa accadde poi? Io non te lo saprei dire, mio signore,» proseguì la maliarda. «Alcuni giorni dopo, il mio fidanzato fu raccolto, da un suo amico che passava per caso presso l’isola maledetta colla sua barca, mentre errava sulla sponda. Egli era cieco e pazzo e non parlava che della divina visione del tempio misterioso. Ecco il perché gli adoratori di Bast volevano far subire anche a me la pena dell’acciecamento, per vendicare il mio compagno».
«È vivo ancora quel disgraziato?» chiese Ounis.
«No,» rispose la maliarda, «un giorno credendo di udire la voce della divina visione sorgere dalle acque del Nilo, si precipitò nel fiume ed i coccodrilli lo divorarono.»
Ounis fece un gesto di collera.
«Che cos’hai?» chiese Mirinri, a cui non era sfuggito quell’atto.
«Io molti anni or sono ho udito parlare di quel tempio meraviglioso. Era l’epoca in cui le legioni caldee irrompevano sul nostro paese e lo stato si trovava sprovvisto di denaro per armare nuovi eserciti. Un uomo, che forse sapeva dove trovavasi quell’isola e che probabilmente non ignorava che fra quei boschi si celava il tesoro degli antichi re nubiani, propose a tuo padre di mandare della gente fidata ad impadronirsi di quelle ricchezze. Le vicende della guerra impedirono a Teti di occuparsi di quell’impresa e più mai se ne parlò. Forse tuo padre non credeva a quell’istoria.»
«E chi fu a parlarne?» chiese Mirinri.
«Pepi, l’usurpatore.»
«Mio zio?»
«Sì, lui stesso. Se si potesse sapere dove si trovano quelle ricchezze, sarebbero per noi d’immensa utilità pei nostri futuri progetti. L’oro è il nerbo della guerra e quello che possediamo non potrebbe forse bastare per colpire a morte le forze di quell’uomo.»
Udendo quelle parole un lampo brillò nelle pupille nerissime della maliarda. Guardò Ounis, poi Mirinri, che appariva pensieroso, preoccupato, poi disse:
«Ma io so dove si trova quell’isola,» disse.
«Tu?» esclamarono ad una voce Mirinri ed il vecchio sacerdote.
«Sì, il mio fidanzato me lo ha detto.»
«È lontana?» chiese Ounis.
«Meno di quello che tu credi, sacerdote.»
«Ne sei ben certa?»
«Saprei condurti anche cogli occhi bendati, perché dopo la pazzia del mio fidanzato, mi ci sono recata colla speranza d’impadronirmi di quel tesoro. Vuoi venire?»
«Sai tu innanzi a tutto chi abita quel tempio?» chiese Mirinri.
Nefer, invece di rispondere, si alzò di scatto, guardando verso oriente. Le tenebre erano scomparse, le stelle stavano per dileguarsi sotto la brusca invasione della luce e l’astro radioso stava per comparire.
«Il sole, la grande anima d’Osiride!» esclamò. «È il momento della profezia. Dammi la tua fronte, figlio della luce eterna, che mai si oscura, né di giorno, né di notte e che scintilla sempre nelle profondità del cielo.»
Mirinri si era pure alzato, sorridendo sardonicamente.
«Ecco la mia testa,» disse. «Che cosa vuoi cavare dal mio cervello?
«Voglio leggere il tuo destino,» disse Nefer.
«Provati.»
La maliarda guardò il sole, che cominciava allora ad apparire al di sopra dei palmizi che coprivano la riva del maestoso fiume. Pareva che i suoi occhi non soffrissero per l’intensa luce che si rifletteva sulle acque del Nilo.
«Sèb,» gridò con voce stridula, «tu che rappresenti la terra nostra! Nout che rappresenti le tenebre! Nou che sei l’emblema delle acque! Neftys che proteggi i morti! Râ, che sei il disco solare, Api che rappresenti il Nilo e tu, grande Osiride che nel tuo cuore batte l’anima del sole, ispiratemi! Toth, il dio che ha la testa dell’ibis, l’uccello sacro, che è l’inventore di tutte le scienze; Logas che rappresenti la ragione e che aiuti coi tuoi consigli e che sei la forza creatrice, datemi la forza di predire il destino a questo giovane Faraone!
Nefer fissava il sole cogli occhi aperti, come se i raggi non le offendessero le pupille ed era invasa da un forte fremito. Sussultavano tutte le sue membra ed i suoi fianchi dalla curva elegante e pareva che perfino i suoi lunghi capelli neri provassero delle strane vibrazioni. Stette parecchi istanti ritta, in una posa superba in faccia all’astro diurno che sorgeva sfolgorante ad di sopra dei palmizi, tutta avvolta nella luce dorata. Ad un tratto si portò le mani agli occhi e se li nascose.
«Vedo,» disse con voce fremente, «un giovane Faraone che atterra un re ed un vecchio che gl’impone di ucciderlo. Vedo una fanciulla, bella come un sole quando lambe, sul tramonto, l’orizzonte e lancia i suoi ultimi raggi sulle acque del Nilo. Vi è una nebbia dinanzi a me. Quali misteri nasconde? Oh velo impenetrabile, sciogliti! No, è sempre denso, sempre denso! Perché non lo posso lacerare? La mia potenza di maliarda, figlia d’una grande maliarda nubiana, mancherebbe in questo momento? Il giovane Faraone sale alto, alto, vittorioso su tutto e su tutti! Ah! La cattiva stella! Sarà fatale a qualcuno! Vedo una fanciulla che piange e le sue lagrime si cambiano in sangue… Osiride! Grande Osiride, lascia che io veda il suo viso! È una fanciulla che muore… dal suo petto squarciato vedo cadere una pioggia rossa… il Faraone sarà fatale a qualcuna… tutto è finito!».
Nefer, come se le forze l’avessero improvvisamente abbandonata, vacillò, poi cadde fra le braccia di Mirinri che gli stava dietro.
A quel contatto, il corpo della maliarda sussultò tutto, come se avesse ricevuto una scarica elettrica e anche quello del giovane Faraone ebbe un fremito.
Ounis, che assisteva alla scena, corrugò la fronte, ma fu un lampo.
«Meglio che sia la maliarda della Nubia che bruci il cuore di Mirinri, piuttosto che la Faraona,» mormorò. «Chissà che cosa serba il destino?»
Con un gesto chiamò alcuni etiopi.
«Portate questa fanciulla in una cabina,» disse. «Ha bisogno di riposarsi.»
I battellieri sollevarono Nefer, che pareva assopita e la portarono nel casotto di poppa.
«Che cosa ne pensi tu della profezia di quella fanciulla?» chiese il sacerdote, volgendosi verso Mirinri che pareva fosse ricaduto nelle sue meditazioni.
«Non so» rispose il giovane, «se debbo crederle.»
«Che cosa dice il tuo cuore?»
Mirinri stette un momento esitante, poi rispose:
«Il sogno sarebbe troppo bello. Potenza e gloria! Mi sembra troppo.»
«Credi di essere veramente un Figlio del Sole? Suonò la pietra di Memnone; schiuse le sue corolle il fiore eterno d’Osiride; parlò la maliarda.»
«Sì, non ho alcun dubbio d’aver nelle vene il sangue del vincitore delle legioni Caldee… Ma chi sarà quella fanciulla a cui sarò fatale? La prima donna che io ho veduta e che ho strappata alla morte?»
«La pensi sempre dunque?»
«Sì, sempre,» rispose Mirinri con un sospiro. «Quella fanciulla che pur discende al pari di me dal sole, m’ha stregato.»
«Una nemica!»
«Chi lo sa?»
«Che tu dovresti odiare.»
«Taci, Ounis. Il destino mio non ha forse ancora scritto l’ultimo papiro.»
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