CAPITOLO VENTINOVESIMO
Il trionfo di Teti
Un po’ al di sopra di Menfi, ad occidente del Nilo, in quel luogo ove la catena libica comincia ad allargarsi, formando una pittoresca oasi che chiamasi ancora oggidì il Fayum, si apriva quel famoso serbatoio fatto costruire da Amenemhat III che formò per secoli e secoli la meraviglia degli assiri, dei caldei e dei naviganti greci e che era destinato a ricevere le acque sovvabbondanti del fiume ed a regolare l’irrigazione in tutto il paese circostante.
Era un’opera meravigliosa, un bacino immenso che aveva delle dighe di cinquanta metri di spessore e della lunghezza di parecchie decine di chilometri, come si può constatare dagli avanzi che ancora sussistono oggidì, dopo migliaia e migliaia d’anni da che esse furono erette.
Sulle rive del famoso lago di Moeris, come fu chiamato dai Greci che lo visitarono più tardi, sulle cui rive sorgeva il Labirinto, che era il più vasto palazzo del mondo, con più di tremila camere, la facciata di calcare bianco, che si rispecchiava nelle acque, come marmo di Paros e con nel mezzo le due colossali statue di Amenemhat III e sua moglie.
In quel meraviglioso bacino, ventiquattro ore dopo la cattura del disgraziato Ounis, più di centomila persone si erano radunate, scaglionandosi sulle gigantesche dighe che formavano come un immenso anfiteatro.
Al mattino mille araldi avevano fatto echeggiare le loro trombe per le vie della superba metropoli, annunciando uno spettacolo emozionante ed invitando gli abitanti a radunarsi nel serbatoio, che le acque del Nilo non avevano ancora invaso, non avendo il fiume raggiunto ancora la sua massima piena; e migliaia e migliaia di persone si erano rovesciate sulle dighe, quantunque ignorassero ancora di che cosa veramente si trattasse.
La notizia però che anche il re, seguito dalla sua corte sfarzosa, vi avrebbe preso parte, aveva bastato per muovere i buoni menfini assieme alle loro famiglie.
L’ora dello spettacolo era stata fissata a tre ore prima del tramonto, sicché quando il sole cominciava a declinare rapidamente e l’aria a rinfrescarsi, tutte le dighe che si stendevano di fronte al meraviglioso palazzo del Labirinto si erano coperte di spettatori. Sulla facciata del palazzo le due gigantesche statue di Amenemhat e della sua consorte, si ergevano superbamente in attesa che i flutti del sacro Nilo, scendenti dal cielo, bagnassero i loro piedi estendendosi intorno a loro con flebili mormorii, come un gran mostro soggiogato dai suoi possenti vincitori.
Pepi, seguito da tutta la sua corte, composta di grandi dignitari, di ciambellani, di sacerdoti, di arcieri, di guardie reali, di suonatrici e di danzatrici, che facevano echeggiare rumorosamente i loro svariati istrumenti musicali e da un gran numero di giovani schiavi, che reggevano immensi ventagli risplendenti d’oro e sormontati da magnifiche penne di struzzo e diversi simboli religiosi di metallo prezioso, era giunto all’ora fissata.
Dinanzi alla candida facciata del Labirinto era stato innalzato per lui e pei suoi dignitari un palco grandioso, a tinte smaglianti, coperto da un immenso velario di finissimo lino a grandi fascie multicolori e vi aveva subito preso posto, sedendosi su una specie di trono altissimo, da cui poteva dominare tutto il bacino e le gigantesche dighe.
Il popolo notò subito, con un certo stupore, che Nitokri non lo aveva accompagnato. Ignorava che in quel medesimo momento la giovane Faraona, accompagnata da Nefer e da uno stuolo di schiavi e di guardie, si dirigeva verso la Necropoli per far spezzare la durissima pietra murata nella serdab principale, ove Mirinri era stato chiuso.
Un grande silenzio si era fatto, rotto solo dal rumoreggiare monotono delle acque scorrenti lungo le dighe, impazienti di precipitarsi nell’immenso serbatoio e di fecondare quelle terre benedette dal sole. Pareva che tutte quelle migliaia di persone avessero trattenuto il respiro.
Un lungo squillo di tromba, seguito tosto dalle prime battute della fanfara reale, avvertì la moltitudine che lo spettacolo promesso stava per cominciare. Alcune guardie, uscite dal palazzo del Labirinto, si erano avanzate verso la diga di ponente, scendendo la gradinata che conduceva nel fondo del serbatoio. Scortavano un vecchio d’aspetto imponente, dalle membra ancora robustissime, coperto solo da un corto kalasiris, stretto ai fianchi, munito d’uno scudo semiovale, simile a quello che usavano i guerrieri di quell’epoca e armato d’una daga di bronzo dalla lama molto larga e molto pesante: era Ounis!
Il vecchio, quantunque ignorasse ancora contro chi l’usurpatore desiderava che si misurasse, procedeva tranquillo, a testa alta, impugnando saldamente la daga, destando una profonda ammirazione fra gli spettatori che si erano tutti alzati in piedi per meglio osservarlo.
Quando giunse fra le due gigantesche statue fu lasciato solo e le guardie si ritrassero correndo.
Quasi nel medesimo istante da una delle gallerie sotterranee che servivano di canale per le acque del Nilo, si vide balzare fuori, con un salto immenso, un superbo leone libico, di forme poderose, con una lunga criniera quasi nera.
Un immenso grido, somigliante al rumoreggiare sinistro di una grande marea od al rombo d’un maremoto, s’alzò fra i centomila spettatori.
Si ribellavano contro la ferocia del loro re, che esponeva un vecchio, probabilmente un guerriero a giudicarlo dal modo con cui erasi prontamente coperto collo scudo e dal fiero atteggiamento. Oppure salutava il leone? Ounis, immobile, colla daga tesa, il corpo curvo innanzi per offrire minor bersaglio alle terribili unghie del carnivoro, attendeva intrepidamente l’assalto, con un sorriso strano sulle labbra.
La belva, che era stata probabilmente tenuta a digiuno per qualche giorno, udendo l’urlo della folla si era arrestata, poi, vedendo la preda dinanzi a sé, spinta dalla fame aveva spiccato un secondo salto, cadendo a cinque o sei passi da Ounis.
Ad un tratto, mentre stava per spiccare l’ultimo, s’accasciò guardando in aria e mandando un lungo ruggito che si ripercosse come un colpo di tuono entro le gigantesche dighe. Tutti gli spettatori erano nuovamente balzati in piedi, guardando anche essi verso il cielo. Un terrore improvviso pareva che avesse sorpreso tutti: uomini e bestie.
Quale strano fenomeno succedeva? L’aria si era fatta rapidamente oscura, le dighe cambiavano tinta, il palazzo del Labirinto, prima tutto bianco come l’alabastro, aveva assunta una tinta grigiastra, il cielo all’orizzonte prendeva delle sfumature verdastre, i raggi del sole sparivano: tutta la natura sembrava sul punto di spegnersi.
Gli aironi e le ibis, che prima volteggiavano in gran numero al di sopra del serbatoio, si lasciavano cadere al suolo, come se fossero state improvvisamente colpite da freccie invisibili; in lontananza i buoi che si abbeveravano sulle rive del Nilo, muggivano sinistramente, i cani urlavano lugubremente ed i volti degli spettatori assumevano delle tinte cadaveriche.
Sembrava che qualche sinistro avvenimento stesse per piombare sull’Egitto. Dai quattro punti cardinali, delle dense tenebre salivano, invadendo con velocità fantastica il cielo, mentre il sole spariva dietro una immensa macchia nera.
Uno spavento indicibile si era impadronito di tutti gli spettatori. Perfino Pepi si era alzato, guardando l’astro diurno che si ottenebrava. Poi un gran grido si confuse coi muggiti dei buoi e colle urla dei cani:
«Râ fugge!»
Il ruggito del leone vi fece eco. Il formidabile carnivoro pareva che non pensasse più alla preda umana che gli stava dinanzi. Si era accovacciato, rannicchiandosi su se stesso, come se avesse perduto completamente la sua istintiva ferocia.
Ounis però non l’aveva dimenticato. Uomo d’una coltura superiore, aveva subito capito che quel fenomeno non era altro che una eclissi totale di sole, e quelle tenebre che piombavano sulla terra non l’avevano punto spaventato. Râ, il disco solare, veniva nel supremo momento in suo aiuto e ne approfittò. Con un salto fu sopra al leone, la sua daga balenò in aria e scomparve tutta intera nel petto della belva.
Il ruggito formidabile che uscì dalle fauci spalancate della fiera, strappò bruscamente il pubblico dal suo terrore. Abbassò gli occhi verso il fondo del bacino e nella penombra scorse il vecchio con un piede sul leone già morente e la daga sanguinante in mano.
«Popolo!» gridò allora Ounis, con voce tuonante. «Râ si è offuscato per non assistere all’assassinio d’uno dei suoi figli. Non riconosci più dunque tu Teti, il vincitore dei Caldei, quel Teti che un giorno chiamasti Grande e che mio fratello, quell’uomo che siede sul palco reale e che impallidisce sotto il mio sguardo, fece credere morto? Popolo, il tuo re è vivo ed è tornato in questa Menfi orgogliosa, dove ha regnato. Tu vedi nel segno che ti ha dato Râ la mia origine divina! Nell’uccisione di questo leone il valore dell’antico guerriero che debellò le orde asiatiche! Ed ora, guardami in viso e se mi riconosci ancora, vieni con me a strappare dalla fronte di mio fratello, di colui che mi rubò il potere, il simbolo di vita e di morte, per darlo a mio figlio, che per diciott’anni ho nascosto e allevato nel deserto!».
Fra i centomila spettatori regnò per qualche istante un profondo silenzio. La notte che era piombata, l’audacia del vecchio guerriero che aveva ucciso il leone, l’accusa terribile che aveva lanciato contro l’usurpatore, lo sgomento manifestatosi improvvisamente nel palco reale, il ricordo del grande re che aveva salvato l’Egitto e che mille vaghe voci avevano affermato essere davvero vivo, avevano prodotto un effetto impossibile a descriversi su quella moltitudine.
Poi tutto d’un tratto delle voci isolate echeggiarono:
«Sì, egli è Teti! Ieri Pepi ha reciso le mani ai suoi partigiani! Viva il vincitore dei Caldei! Popolo, seguiamolo!»
Sembrò che un muggito, uscito dalle fauci di migliaia di fiere, facesse tremare le immense dighe del bacino. Il popolo si precipitava, con rombo spaventevole, giù dalle gradinate, mentre Pepi e la sua corte abbandonavano precipitosamente il palco reale, fuggendo verso Menfi.
In quel momento il sole riappariva raggiante e le tenebre si dileguavano.
«Ecco Râ che torna!» tuonò Teti. «Egli ci illumina la via! Vieni popolo! Il tuo re ti guida!»
«Al palazzo reale!» urlarono migliaia di voci. «Viva Teti!»
Il vecchio, che imbracciava ancora lo scudo e che impugnava la daga sanguinante, aveva saltato via il leone e s’avviava verso il Labirinto. I centomila spettatori, guidati da alcuni partigiani del vecchio re, lo seguivano in falangi compatte, fra un urlìo assordante. Egli salì la gradinata, poi, giunto sulla cima, dominando colla sua voce tuonante il fracasso e alzando la daga, gridò:
«Al palazzo reale! Menfi questa sera avrà un altro re!»
«Viva Teti!» rispose la folla, che pareva in preda ad un vero delirio.
Quando l’immensa colonna rientrò in Menfi, la città era in subbuglio.
La voce che Teti, della cui morte già molti avevano dubitato, era ricomparso, si era divulgata colla rapidità del lampo e gli abitanti scendevano nelle vie armati, pronti a farsi uccidere in difesa del salvatore dell’Egitto.
Il grido di: «Viva Teti il grande!» risuonava in tutti i quartieri della metropoli, dalle rive del Nilo ai margini del deserto e nuove falangi si aggiungevano a quelle già sterminate, uscite dal gigantesco serbatoio. Una specie di guardia reale si era formata, avvolgendo Teti, che s’avanzava sempre alla testa del popolo, in uno spazio lasciatogli libero.
Quando le falangi giunsero dinanzi al palazzo reale, trovarono tutte le porte spalancate. Guardie, arcieri, dignitari, favoriti, tutti erano vilmente fuggiti. Teti sostò un momento a guardare quella grandiosa costruzione ove aveva regnato da grande monarca, poi entrò nell’ampio peristilio e salì il marmoreo scalone, penetrando audacemente nella immensa sala del trono che più nessuno difendeva. Dalle ventiquattro porte di bronzo, che nessuno aveva chiuse, il popolo si era già riversato con terribili clamori.
In fondo alla sala, raggomitolato quasi sul trono risplendente d’oro, coperto dalle vesti reali e colle insegne del comando strette fra le mani rattrappite, livido, atterrito, stava Pepi, l’usurpatore.
Il popolo si arrestò ed era diventato muto. Quei simboli del potere supremo, che il re stringeva nelle mani e sopratutto l’ ureoche gli brillava sulla fronte e la maestà del trono, ancora una volta si erano imposti a quegli schiavi della potenza faraonica.
Teti, fortunatamente, non si sgomentò. Mosse diritto verso suo fratello che lo guardava con spavento, salì i gradini del trono, poi, con una mossa rapida, gli strappò l’ ureoche aveva in fronte e lo gettò al suolo con disprezzo, gridando:
«Ecco: non sei più re!»
Poi, gettato lo scudo, lo afferrò per un braccio e lo trasse in mezzo alla sala, senza che egli opponesse resistenza e lo atterrò sulle lucide pietre del pavimento, alzando su di lui la daga.
«Quest’arma ha ucciso un leone,» disse «ed ora ucciderà un usurpatore, un ladro!»
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