CAPITOLO VENTOTTESIMO
La cattura di Ounis
Ounis, dopo la cattura di Mirinri, era fuggito bestemmiando, confondendosi fra la folla che ingombrava l’immensa piazza. Pareva che in pochi minuti quell’uomo, che sembrava vigoroso come una quercia nonostante l’età avanzata, fosse invecchiato di dieci anni almeno.
Aveva infilata una via, poi una seconda, quindi una terza, quasi correndo, finché si era arrestato sul magnifico viale che costeggiava il Nilo, lasciandosi cadere affranto, pallido, disfatto, su una delle enormi pietre che dovevano servire alla costruzione di quelle colossali dighe delle quali, anche oggidì, dopo cinque o sei mila anni, si trovano ancora gli avanzi.
Un rauco singhiozzo aveva lacerato il petto del povero vecchio. «Preso!» veva mormorato. «Amore fatale che lo ha perduto, quando l’alba sorgeva per lui raggiante, protetta da Râ e da Osiride! A che cosa hanno servito tanti anni d’esilio nelle sabbie ardenti del deserto e tanti sacrifici? Io, che avrei potuto splendere come l’astro che irradia questa terra che il Nilo feconda e che gli dei proteggono! Io, che avrei potuto con un cenno far tremare i popoli al di qua ed al di là del Mar Rosso! E tutto è caduto! Quale immensa rovina intorno a me! Meglio sarebbe stato che io fossi morto davvero là, dove ho pugnato e vinto, sotto l’enorme cumulo dei Caldei che la mia daga ha spenti e che il mio carro di battaglia ha calpestatO! Che cosa sono io ora? L’ombra d’un grande che non avrà nemmeno più gli onori d’una imbalsamazione, né una piramide per asilo… meno d’una mummia… Abbiano almeno le acque di questo fiume, che scendono dal cielo, il mio corpo. Râ mi accoglierà nella sua barca sfolgorante…
Si alzò con una mossa violenta, fissando i suoi occhi sulle acque gonfie del fiume che muggivano sordamente, rumoreggiando contro le colossali dighe.
«Scomparire dal mondo, senza essermi vendicato di Pepi?» disse ad un tratto, indietreggiando. «Che cosa ci guadagnerei io? Un vecchio guerriero sopprimersi dinanzi al pericolo? No, tutto non può essere finito e… Ata? E i miei amici, i vecchi partigiani di Teti il grande? Forse che non mi aspettano nella Piramide di Rodope? Ata! Il mio cervello si era dunque talmente sconvolto, da farmi dimenticare quei valorosi che altro non attendono che un mio cenno per mettere a ferro ed a fuoco Menfi? Sì, rovesceremo tutto e passeremo come una tromba devastatrice attraverso l’Egitto, se Pepi vorrà lottare con noi. Il mio grido di guerra, quel grido che un giorno ha sgominato orde sterminate, assetate di sangue e di stragi, farà crollare le cento colonne del palazzo reale e la mia mano strapperà l’ ureoche brilla sulla fronte dell’usurpatore. Menfi l’orgogliosa cederà o cadrà distrutta coi suoi templi e coi suoi monumenti. M’uccidano Mirinri ed io farò passare a fil di spada i trecentomila abitanti della città e non lascerò una pietra sola che possa ricordare l’esistenza di questa metropoli che è la meraviglia del mondo. Andiamo: io non sono più Ounis! Ritorno quello che fui un giorno!»
Si staccò dal parapetto e si mise a costeggiare il Nilo, avviandosi verso la parte settentrionale della città, dove giganteggiava, fra un tramonto tutto color di fuoco, la piramide entro cui dormiva la mummia della bella Rodope nel suo sarcofago di marmo azzurro. L’immenso viale, ombreggiato da doppi filari di palme, era quasi deserto, essendosi la popolazione riversata in massa verso il basso corso del fiume, dove i sacerdoti avevano condotto, con grande pompa, ad abbeverarsi il bue sacro. Ounis camminava rapidamente, tuttavia non fu che verso il tramonto che giunse sul luogo ove doveva abboccarsi coi congiurati.
«là che dorme Rodope,» mormorò il vecchio.
La piramide s’innalzava maestosamente dinanzi a lui, a meno di trecento passi, tutta rosseggiante sotto gli ultimi raggi del sole morente. All’intorno non si scorgeva alcuna persona. Solo due sciacalli dal pelame bruno sonnecchiavano l’un presso all’altro, sotto l’ombra che proiettavano le foglie d’una palma.
«Dove sarà Ata?» si chiese Ounis. «Io non so ove sia l’entrata che conduce alle serdab. Tutto è silenzio qui! Mi fa impressione questa immensa calma. Qui dovrebbe battere il cuore del futuro regno ed invece mi pare che dentro il mio si sia spezzato qualche cosa… Ah! Genio maligno! Del sangue!»
Si era curvato verso il suolo e col dito sollevava le sabbie che i venti caldi del vicino deserto libico avevano deposte intorno alla gigantesca piramide.
«Del sangue!» ripetè, con voce strozzata. «Tutta la sabbia è rossa qui!»
Indi alzò gli sguardi verso la piramide.
«Dei dardi!» esclamò poi, girando intorno uno sguardo smarrito. «Sono stati presi.»
Rimase silenzioso: era un silenzio tragico. Un improvviso accasciamento lo prese e cadde al suolo come fulminato, rimanendo inerte. Scese la notte e le ore passarono lente.
Una voce a lui ben nota lo fece tornare in sé dopo moltissime ore. Quanto tempo era trascorso? La notte era scomparsa ed il sole era riapparso e forse da molto tempo, perché era quasi alla metà del suo corso.
«Nefer!» esclamò Ounis.
«Sì, sono io, mio signore,» rispose la giovane. «Che cosa ti è successo? Ti abbiamo trovato svenuto.»
Ounis si passò parecchie volte una mano sulla fronte, per meglio risvegliare le sue idee ancora offuscate.
«Non so,» disse poi. «Mi è sembrato che un macigno mi fosse piombato sul cranio e che il cuore mi fosse scoppiato… è giorno! Quanto sono rimasto come morto?…» Poi guardando Nefer con un certo stupore, disse:
«E come ti trovi qui? Chi è questo vecchio soldato che ti accompagna? Non eri con Mirinri tu?»
«Sì, mio signore.»
«Mirinri!» gridò Ounis. «Dove si trova?»
«Nelle mani di Pepi.»
«Ah! Disgraziato! È perduto!»
«Sì, perduto,» singhiozzò Nefer. «Per me e per te.»
Ounis si era alzato di scatto, come se avesse riacquistate improvvisamente tutte le sue forze. «Narrami che cosa è avvenuto,» disse con voce cupa.
Nefer in poche parole lo informò dell’arresto e della prigionìa nei sotterranei del palazzo reale, poi della sua liberazione e delle promesse di Nitokri di proteggere Mirinri.
Un amaro sorriso contrasse le labbra del povero vecchio.
«Nitokri! È la figlia dell’usurpatore e non è lei che comanda. Tutto è finito, mia fanciulla: Mirinri non uscirà vivo da quel sotterraneo. Conosco troppo bene Pepi.»
Stette alcuni minuti silenzioso, poi chiese:
«Eri certa di trovarmi qui?»
«Avevo qualche speranza,» rispose Nefer, «sicché, appena libera mi feci condurre qui da questo soldato, che era incaricato di proteggermi.»
«Ora non hai più bisogno di lui: congedalo.»
«Va’, amico, e aspettami nella casa che il re ha messa a mia disposizione,» disse la giovane al veterano. «Ci rivedremo presto.»
Il vecchio guerriero s’inchinò profondamente senza parlare e si allontanò a lenti passi.
«Nefer,» disse Ounis quando furono soli, «i vecchi amici di Teti sono stati presi. La piramide è stata espugnata e forse a quest’ora nessuno di quei prodi è vivo.»
«Siamo dunque maledetti?»
«Sì,» rispose Ounis. «Il trono a cui Mirinri aspirava è ormai perduto, la vendetta mi fugge di mano quando credeva di tenerla ben salda nel pugno… ed a te, mia povera fanciulla, che cosa rimane?»
«La morte,» rispose Nefer con un sordo singhiozzo.
«Camminiamo verso la morte dunque,» disse Ounis. «Là, sulle sabbie del deserto, sulle quali è forse rimasta ancora impressa l’orma di colui che doveva tutto distruggere, ritroveremo un po’ di tranquillità. Vieni fanciulla, risaliremo il Nilo e accanto alla grande piramide dove lui visse e passò la sua prima giovinezza e sotto le foreste di palme sotto le quali sognò e dormì, ritroveremo la calma che l’aria pestifera dell’orgogliosa Menfi ha distrutto! Torno nella terra dell’esilio, io che avrei potuto regnare qui possente e ben più forte di Pepi.»
«Chi sei tu? Dimmelo almeno una volta!» gridò Nefer.
«Il leone del deserto libico» rispose Ounis. «Dove io sia nato, chi lo sa? Che cosa sono stato un giorno? Io solo lo so. Vieni fanciulla: andiamo a respirare l’aria che ha vivificato i polmoni di Mirinri, andiamo a udire il mormorìo dolce delle acque che lui ascoltava per ore ed ore sotto la fresca ombra delle palme dùm; andiamo a rivedere i luoghi ove egli visse. È morto! Menfi maledetta, come ti distruggerei! Osiride non irradia più coi suoi raggi il cielo! Egli ha abbandonato i figli del Sole! Che la sua barca si fonda sotto le fiamme di Râ! Siano maledetti tutti gli dèi dell’Egitto! Che l’ombra cupa della notte eterna li dissolva tutti. Vieni, Nefer! Vieni nel deserto! Tu sarai mia figlia!».
Riprese la fanciulla, che singhiozzava sempre, per una mano, e tornò verso il Nilo.
Stava per accostarsi ad una barca che si trovava ormeggiata alla diga, quando quattro guardie reali, che si tenevano nascoste dietro il parapetto, gli piombarono improvvisamente addosso, colle daghe alzate, atterrandolo.
Il vecchio, con una mossa fulminea, aveva afferrato pel polso l’uomo che gli stava più presso, strappandogli l’arma.
«Largo, miserabili!» tuonò, con voce formidabile. «Cento caldei non hanno fatto paura a me e tutti caddero sotto il mio ferro. A te pel primo!»
Con un’agilità meravigliosa, che qualunque giovane gli avrebbe invidiata, era balzato in piedi, gridando:
«Indietro, Nefer!»
La daga, un’arma solida ed affilata, balenò un istante nell’aria e scomparve tutta intera nel corpo della guardia.
Le altre tre si erano scagliate sul vecchio, urlando: «Arrenditi!»
«Ecco come si arrende chi vinse i Caldei!» rispose Ounis.
Tre volte scintillò la lama già rosseggiante di sangue ed i tre uomini caddero l’un sull’altro, contorcendosi fra gli spasimi della morte.
Ounis stava per prendere la fuga, quando un drappello di guardie, sbucato da una via laterale, lo circondò. Erano quaranta o cinquanta uomini, armati d’azze di guerra e gagliardi.
Ounis aveva gettata la daga stillante sangue, dicendo con ironia: «Non uccido il mio popolo! Chi mi vuole?»
«Il re,» disse un vecchio arciere, avanzandosi.
«Ah!» fece Ounis.
Poi, volgendosi verso Nefer, disse: «Nemmeno il deserto ci vuole. Ecco la catastrofe completa. È la fine di tutto!» Quindi, guardando irosamente le guardie, chiese sdegnosamente: «Da chi mi conducete?
«Dal re,» risposero le guardie.
«Mi avevate seguito, dunque?»
«Sì,» disse il vecchio arciere che comandava il drappello.
«E di questa fanciulla che cosa ne farai tu?»
«Io non ho ordini per lei: chi si cura d’una vagabonda?»
Un urlo di belva feroce irruppe dal petto del vecchio Ounis.
«Miserabile!» gridò, liberandosi con una scossa violenta dalle guardie che lo trattenevano pei polsi. «Costei una vagabonda! A te! È una Figlia del Sole!» La mano del vecchio cadde sul viso dell’arciere come un terribile colpo di frusta, facendolo girare due volte su se stesso. «Inchinati davanti a questa fanciulla che porta sul suo corpo divino il tatuaggio dell’ ureo.Giù o t’uccido! Se Pepi non ti farà sgozzare, vi sarà chi ti punirà se non obbedisci! Giù! Tu non sai chi è l’uomo che te lo comanda!»
Vi fu fra le guardie un momento di stupore impossibile a descriversi. Quel vecchio che aveva già ucciso quattro uomini e che comandava coll’autorità d’un re, aveva sgomentato tutti.
«È tua figlia?» chiese il capo degli arcieri con voce alterata.
«Chi sia non lo so,» disse Ounis. «È una Faraona e ti basti! Guarda, vile schiavo d’un re ladro!»
Con un gesto rapido strappò alla fanciulla la leggera tunica che la copriva e mise a nudo la sua spalla mostrando il simbolo del diritto di vita e di morte. «Lo vedete?» disse. «È una Faraona! Giù, a terra, tu che l’hai offesa, perché è d’origine divina!»
L’arciere era caduto in ginocchio, mentre gli altri avevano allargato il cerchio.
«Ed ora,» disse Ounis, «conducetemi pure da Pepi. Desidero vederlo.»
«Ed io?» chiese Nefer.
«Seguimi,» rispose il vecchio. «È là, nel palazzo delle cento colonne, che noi daremo l’ultima battaglia. Chissà! Forse tutto non è ancora perduto e quando urlerò in faccia a lui la sua infamia, può darsi che la fenice rinasca per abbruciare il corpo di suo padre nel tempio del Sole e che addenti, pari ad un famelico coccodrillo, la sua anima. Vieni, Nefer, vieni fanciulla mia. Le ali dorate e rosse della fenice ci proteggeranno.»
Gli arcieri si erano stretti intorno a loro ed il capo aveva svolta la fascia che gli cingeva il kalasiris, per legare le mani a Ounis.
«Non occorre,» disse il vecchio. «Non ho più una daga per uccidervi tutti. Andiamo! Il palazzo reale ed io ci conosciamo.»
Ounis, tetro, pensieroso, camminava fra le guardie e Nefer lo seguiva, colla testa chinata sul petto, come un’ombra vagante. Salirono il viale che conduceva al palazzo reale, senza che né l’uno, né l’altra, né la scorta avessero pronunciata una parola. Quando però Ounis si trovò nel peristilio di marmo parve ridestarsi come da un lungo sogno.
Guardò come stupefatto le immense porte, le alte terrazze bastionate, le colonne sfolgoranti d’oro che s’ergevano maestosamente attraverso l’immensa sala, dove Mirinri era stato ricevuto ed aspirò fragorosamente l’aria.
«Diciotto anni,» disse, fermandosi bruscamente. «E lo rivedo, ma non più mio!»
Si era voltato verso le guardie, come se volesse scagliarsi contro di loro o come se volesse gridare qualche cosa sui loro volti, poi, frenandosi, chiese:
«Dov’è il re?»
«Domani lo vedrai,» rispose il capo degli arcieri.
«E dov’è Nitokri, sua figlia?» chiese Nefer, con impeto.
«La figlia del Faraone?» chiese il capo del drappello, con stupore.
«Non sono anch’io una Faraona forse?» chiese la fanciulla. «Hai visto tu il tatuaggio, sulla mia spalla? Va’ a dirle che vi è una Figlia del Sole che vuole vederla e subito! Mi hai compreso?»
«È la figlia del re,» osservò umilmente il capo degli arcieri.
«Ed io di chi sono, se l’ ureoha marcato il mio corpo?»
«Nefer!» disse Ounis. «Che cosa vuoi fare tu?»
«Nelle cento colonne daremo battaglia, sia pure l’ultima,» disse la fanciulla con un singhiozzo. «Getto il mio destino! Addio, signore, spero di rivederti presto.»
Ounis scosse tristemente il capo e seguì gli arcieri che avevano aperta una porta la quale pareva che mettesse in qualche sotterraneo. Il capo intanto si era allontanato, salendo una gradinata di marmo, che era nascosta da una immensa tenda intessuta di pagliuzze d’oro ed a larghe fascie di tinte svariate, tutte smaglianti.
Nefer, rimasta sola nell’immensa sala, si era appoggiata ad una coppa di lapislazzoli che serviva in certe occasioni da fontana, nascondendosi il viso fra le mani. Dai sussulti che di quando in quando scuotevano il suo corpo, si capiva che la disgraziata fanciulla singhiozzava.
Un passo leggerissimo, accompagnato dal fruscìo d’una veste, trasse Nefer dalla sua muta disperazione. Nitokri, la figlia di Pepi Mirinri, le stava dinanzi.
Le due fanciulle si guardarono a lungo, senza parlare, poi Nitokri disse:
«Sei tu, che chiamano la principessa dell’isola delle Ombre?»
«Io sono Nefer.»
«O meglio Sahuri: era questo il nome che portavi quando ti tolsero di qua.»
«Non me lo ricordo,» rispose Nefer. «Ero ancora bambina allora.»
«Che cosa vuoi, fanciulla?»
«Sapere che cosa è avvenuto di Mirinri, il figlio del grande Teti,» rispose Nefer, scoppiando in singhiozzi. «Tu che sei onnipossente, proteggilo, signora, contro le ire di tuo padre… io, che l’ho immensamente amato, te l’abbandono purché gli salvi la vita.»
«Mirinri… l’hai amato? E lui?» gridò Nitokri.
Nefer scosse tristemente il capo.
«Egli non sognava e non vedeva che la fanciulla salvata sulle rive dell’Alto Nilo. Nefer era nata sotto un raggio funesto di Râ: il raggio azzurro che porta sventura a tutti quelli che tocca.»
Nitokri era rimasta silenziosa. Una profonda compassione traspariva dai suoi occhi bellissimi.
«Povera Sahuri,» disse poi, con un sospiro. «Nata sui gradini d’un trono al pari di me, la felicità ti è mancata.»
Ad un tratto si scosse.
«Mirinri corre qualche pericolo?» gridò.
«Sì, forse a quest’ora ha subito la sorte orrenda dei partigiani di suo padre. Io ho veduto il loro sangue sulle sabbie che circondano la piramide di Rodope.»
«Mirinri minacciato! Forse morto! Attendimi, fanciulla! Guai se mio padre ha osato alzare la mano su di lui! Sarebbe troppo! Sorella, uniamo le nostre forze contro i tristi consiglieri di Pepi: siamo due Faraone!»
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