Il Mar dei Sargassi, come ognuno sa, non è altro che un ammasso immenso di alghe, radunate colà dal gioco diretto ed indiretto delle correnti marine e soprattutto dalla grande corrente del Gulf-Stream. Ha una superficie di 260.000 miglia quadrate, con una lunghezza di 1.200 e una larghezza cha varia dalle 50 alle 160 miglia.
Quelle alghe della specie sargassum bacciferum, si presentano a ciuffi staccati che hanno una lunghezza da trenta a ottanta centimetri, e si vedono ora sparsi ed ora agglomerati, formando ora delle strisce ed ora dei veri campi, talvolta così fitti da arrestare i velieri che hanno la disgrazia di venire spinti là dentro.
Si crede che là sotto esista quella famosa Atlantide, così misteriosamente scomparsa coi suoi milioni e milioni di abitanti, e può darsi benissimo che quell’isola serva di fondo a quello sterminato ammasso di vegetali.
La città galleggiante, spinta in mezzo alle alghe dal possente urto delle onde, vi si era così ben incastrata da rimanere quasi di colpo immobile, come se si fosse arenata sopra un banco di sabbia.
L’enorme massa d’acciaio, investendo i sargassi con uno dei suoi lati, vi si era incastrata come un immane cuneo dentro un tronco d’albero ancora più immane.
Le onde, che si rovesciavano al di sopra degli sterminati campi di alghe,
tentando invano di scompaginarli, l’assalivano ancora, investendo specialmente la cupola, con poco divertimento dei sei uomini, i quali correvano il pericolo di venire portati via; però le ondate non riuscivano più a scuoterla.
«È finito il nostro viaggio, capitano?» disse Brandok, che si teneva aggrappato disperatamente al margine del pozzo.
«Purtroppo» rispose il comandante del Centauro. «Siamo peggio che arenati, e non saprei chi potrebbe trarre dal mezzo di queste alghe questo gigantesco cassone di metallo. Nemmeno una flotta intera vi riuscirebbe.»
«Saremo dunque costretti a vivere eternamente qui, o a morire di fame?»
«Di fame no, poiché il Mar dei Sargassi è ricco di pesci minuscoli, sì, però non meno eccellenti né meno nutritivi degli altri, e che si possono prendere senza l’aiuto delle reti. Troveremo, anzi, anche dei voracissimi e grossi granchi, che ci forniranno dei piatti squisiti.»
«Preferirei però trovarmi lontano da qui.»
«Ed io non meno di voi.»
«Verrà qualche nave a levarci da questa imbarazzante situazione?»
«È possibile che qualche legno volante, per accorciare il cammino, passi sopra questo mare d’erbe, ma quando?»
Un tumulto spaventevole scoppiò in quel momento nelle profondità della città galleggiante.
«Si sono risvegliati» disse Toby. «Signor Jao, cercate di calmare quelle furie, se potete, e di spiegare loro quanto è avvenuto durante la loro sbornia fenomenale.»
«Sarà un affare un po’ serio. Sarebbe meglio per noi che finissero di scannarsi tutti.»
Si curvarono tutti sull’orlo del pozzo e videro sotto di loro, radunati sulla piazza, che era ingombra di cadaveri, cinquanta o sessanta uomini che guardavano per aria, urlando come belve feroci.
«L’ascensore! Calate l’ascensore! Vogliamo fuggire!»
«Furfanti!» gridò Jao. «Che cosa avete fatto?»
«Signor Jao!» gridò un uomo di statura quasi gigantesca «perdonateci, eravamo diventati come pazzi e non sapevamo più quello che facevamo. Tutta la colpa è dell’alcool al quale non eravamo più abituati.»
«E vi siete scannati, banditi.»
«Se eravamo come pazzi!…»
«E avete distrutte perfino le case e rovinati tutti gli attrezzi da pesca.»
«È colpa dell’alcool!» gridò un altro. «Se quel maledetto capitano non l’avesse portato, oggi non piangeremmo tanti camerati.»
«Sì, è lui il birbante!» urlarono trenta o quaranta voci.
«E voi siete dei ladri!» gridò il capitano del Centauro, mostrandosi.
Un immenso clamore scoppiò, un clamore che parve il ruggito di cento leoni riuniti.
«Miserabile!»
«Canaglia!»
«Ci hai avvelenati apposta!»
«Qualche infame governo ti aveva mandato qui per farci diventare pazzi e poi ammazzarci l’un l’altro.»
«A morte! A morte!»
«Toby!» esclamò Brandok. «Hanno ancora ragione loro.»
«Va bene» gridò Jao. «Ne riparleremo, quando sarete diventati più ragionevoli ed i fumi dell’alcool non vi guasteranno più il cervello.»
«Ah! Cane d’un governatore!» vociò il gigante. «Non morrò contento se prima non avrò la tua pelle.»
«Vieni a prenderla» rispose Jao. «Ti sfido.»
«Non mi scapperai, te lo giuro.»
«Sì, accoppiamoli tutti!» urlarono in coro gli altri.
«Lasciamoli gridare e occupiamoci dei nostri affari» disse il capitano. «Già non potranno mai salire fino a noi, se non caliamo l’ascensore; e per togliere loro ogni speranza lo getto in mare.»
Così dicendo il comandante, prima che gli altri avessero il tempo di opporsi, con una spinta formidabile lo rovesciò giù dalla cupola.
Le alghe, che in quel luogo non erano troppo fitte, s’aprirono e lo inghiottirono.
«Avete condannato a una morte certa quegli sciagurati» disse Toby.
«Se domani una nave approdasse qui, sapete che cosa farebbe?» chiese il capitano.
«No.»
«Farebbe senz’altro saltare questa città con una buona bomba ad aria liquida, insieme a tutti quelli che contiene, morti e vivi. È vero Jao?»
«Così hanno decretato i governi dell’Europa e dell’America, per tenere a freno i rifiuti della società» rispose il vecchio.
«Non sono ancora tre mesi che una nave aerea, mandata dal governo americano, ha colato a fondo la città sottomarina di Fortawa, perché i cinquecento forzati che l’abitavano si erano ribellati, uccidendo il capitano di
una nave e tutti i passeggeri per saccheggiare poi il carico.»
«Queste sono leggi inumane» disse Brandok.
«La società vuole vivere e lavorare tranquillamente,» rispose il capitano. «Tanto peggio per i furfanti. Bah! Lasciamo questi poco interessanti discorsi e facciamo colazione, giacché l’oceano ci lascia un po’ di tregua.»
«Io non potrò mangiare tranquillamente pensando che sotto di me vi sono forse cento persone che cominciano a soffrire la fame.»
«I viveri non mancheranno loro per parecchi giorni» disse Jao. «Se poi verranno a più miti consigli li sbarazzeremo dei cadaveri perché non scoppi qualche terribile epidemia che sarebbe indubbiamente fatale anche a noi, col calore spaventevole che regna in questa regione, e permetteremo loro di venire a respirare una boccata d’aria. Che cosa ne dite, capitano?»
«Io li lascerei crepare» rispose il comandante del Centauro.
«No, ciò sarebbe inumano» dissero Toby e Holker.
«Io sono convinto che finiranno per calmarsi» disse Brandok. «Quando i cadaveri cominceranno a corrompersi, saranno costretti ad arrendersi.»
«Cerchiamo la nostra colazione» ripeté il capitano. «Non ci conviene consumare il nostro pesce secco, che potremmo più tardi rimpiangere. Scendiamo sui sargassi, signori; i pesci, i granchi grossi ed i granchiolini, come vi ho detto, abbondano fra queste alghe.»
Si lasciarono scivolare lungo le invetriate della cupola, tenendosi con una mano alle traverse di metallo e si calarono sul campo di sargassi che era in quel luogo così folto da poter reggere benissimo un uomo.
Il capitano aveva detto il vero assicurando che la colazione non sarebbe mancata.
In mezzo alle alghe, formate da fronde brune, molto ramificate, con corti
peduncoli forniti di foglie lanceolate, guizzavano miriadi di piccoli pesci, piatti, deformi, con una bocca molto larga, lunghi appena un centimetro, del genere degli antennarius, di octopus purpurei, e saltellavano dei piccoli cefalopodi e dei grossi granchi, occupati a fare delle vere stragi dei loro sfortunati vicini.
«Che disgrazia non possedere una buona padella ed una bottiglia d’olio» mormorava Brandok che non perdeva però il suo tempo. «Che ottima frittura si potrebbe mangiare!»
La caccia, poiché si trattava d’una vera caccia, anziché d’una pesca, durò una buona mezz’ora e fu abbondantissima.
Non potendo cucinare tutti quei piccoli pesci, poiché i fornelli a radium si trovavano in fondo alla città galleggiante, i tre americani ed i loro compagni furono costretti a mangiare quella squisita frittura… viva!
L’uragano intanto a poco a poco si calmava. Le nuvole si erano finalmente spezzate, il vento aveva terminato di lanciare i suoi poderosi soffi e l’Atlantico, come se si fosse stancato di quella gigantesca battaglia che durava da quarantotto ore, si spianava rapidamente.
Non accennava invece a calmarsi la rabbia dei forzati. Le troppo copiose libazioni dovevano aver sconvolto completamente quei cervelli che forse non erano mai stati equilibrati.
Resi maggiormente furiosi dal rifiuto di Jao di calare l’ascensore, avevano saccheggiato i magazzini gettando tutto sottosopra, poi avevano ripresa la demolizione delle casupole che ancora rimanevano, tutto fracassando e tutto disperdendo.
Salivano di quando in quando dal pozzo urla feroci, che commuovevano non poco Toby e Brandok, ma che lasciavano assolutamente indifferenti il capitano, Jao, il pilota e perfino Holker, i quattro uomini moderni ormai abituati a considerare i malviventi come belve pericolose per la società!
Alla sera però tutto quel baccano cessò. I forzati, stanchi di distruggere e di urlare, si erano finalmente decisi a riposarsi, malgrado il tanfo insopportabile che cominciava ad espandersi al di sotto della immensa cupola; i cadaveri cominciavano a decomporsi.
I tre americani ed i loro compagni, seduti sull’orlo del pozzo, un po’ tristi, guardavano il cielo che era tornato ad oscurarsi, chiedendosi quale altro malanno stava per coglierli.
Si sarebbe detto che un nuovo uragano stava per scatenarsi sull’irrequieto oceano. Un’afa pesante, soffocante, regnava negli alti e nei bassi strati, satura di elettricità.
Il sole, qualche ora prima, si era tuffato più rosso del solito, dentro una nuvolaccia nera che era apparsa verso ponente.
«Ancora cattivo tempo, è vero, capitano?» chiese Brandok.
«Sì» rispose il comandante del Centauro, che appariva più preoccupato del solito. «Avremo una seconda burrasca signori miei, che getterà completamente fuori di rotta le navi volanti che potrebbero trovarsi in questi paraggi. Ho però una speranza.»
«Quale?» chiese Toby.
«Che questo uragano che verrà da ponente ci tragga dai sargassi e ci spinga nuovamente al largo.»
«Sarebbe una vera fortuna, capitano.»
«Adagio, signore. Se il vento ci spingesse questa volta verso le Canarie? Ecco quello che temo.»
«Vi rincrescerebbe approdare a quelle isole?» chiese Brandok con sorpresa.
Il capitano del Centauro guardò a sua volta l’americano con profonda
sorpresa.
«Ma da dove venite voi?» gli chiese.
«Dall’America, signore.»
«Un paese che non è poi molto lontano dalle Canarie.»
«Non so che cosa vogliate dire con ciò, capitano» disse Brandok sempre più stupito.
«Disgraziata la nave marina od aerea che cadesse su quelle isole» rispose il capitano. «Nessun uomo dell’equipaggio uscirebbe certamente vivo.»
«Che cosa è successo dunque su quelle isole?» chiese Toby, che non era meno sorpreso di Brandok.
«Diamine! I governi dell’America, dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa hanno popolato quelle isole di tutti gli animali che un tempo esistevano su tutti i cinque continenti.»
«Perché?» chiese Brandok.
«Per conservare le razze. Là vi sono tigri, leoni, elefanti, pantere, giaguari, coguari, bisonti, serpenti e tante altre bestie delle quali io non conosco nemmeno il nome» rispose il capitano. «Come ben sapete, ormai, tutti i continenti sono fittamente popolati, quindi quegli animali non avrebbero più trovato né rifugio, né scampo. Gli zoologi di tutto il mondo, prima della distruzione completa di tutte le belve, hanno pensato di conservare almeno le ultime razze.»
«Trasportandole alle Canarie?»
«Sì, signor Brandok» rispose il capitano.
«E gli abitanti di quelle isole non vengono divorati?»
«Quali abitanti?»
«Non ve ne sono più? Scusate la mia ignoranza, capitano, ma noi veniamo dalle parti più remote del continente americano, dove non giungono notizie di tutti gli avvenimenti del mondo» disse Toby, che non desiderava affatto far conoscere la storia della loro risurrezione.
«Credevo che gli americani fossero più innanzi di noi europei» disse il capitano. «Dunque voi avete sempre ignorato la terribile catastrofe che ha colpito quelle disgraziate isole cinquant’anni or sono?»
«Non ne abbiamo mai udito parlare» rispose Brandok.
«Già si sapeva che tutte quelle isole erano d’origine vulcanica» rispose il capitano. «Non erano altro che le punte estreme d’immense montagne o meglio di vulcani, inghiottiti forse durante il gigantesco cataclisma che fece sprofondare l’antica Atlantide. Un brutto giorno il Tenerifa, dopo chi sa quante migliaia d’anni di sonno, cominciò a svegliarsi, vomitando lave in quantità prodigiosa e tanta cenere da coprire tutte le isole del gruppo. Ancora si fosse limitato a questo; vomitò invece, anche una tale massa di gas asfissiante da distruggere completamente la popolazione.»
«Non ne scampò nemmeno uno?» chiese Brandok.
«Appena quindici o venti, i quali recarono in Europa la terribile notizia» rispose il capitano. «Quell’eruzione spaventevole durò vent’anni, facendo scomparire parecchie isole, poi cessò bruscamente. I governi europei ed americani, dopo aver invano cercato di ripopolare quelle terre, hanno allora pensato di relegarvi tutti gli animali, feroci o no, che ancora sussistevano sui cinque continenti, per impedirne la totale distruzione.»
«Sicché quelle isole sono diventate tanti serragli» disse Toby.
«Sì, signore. Di quando in quando dei coraggiosi cacciatori si recano là a fare delle battute, onde provvedere i musei ed impedire che quegli animali diventino troppo numerosi.»
«Quante cose hanno fatto questi uomini in cent’anni!» mormorò Brandok, che era diventato pensieroso. «Se potessimo ripetere l’esperimento, che cosa vedremmo fra un altro secolo? Forse noi, uomini d’altri tempi, non potremmo più vivere.»
L’uragano che il capitano aveva annunciato si avanzava, con un crescendo orribile di tuoni e di lampi così intensi che Brandok e Toby si sentivano accecare.
Pareva che la grande elettricità sviluppata dalle infinite macchine elettriche funzionanti sulla crosta terrestre, avesse avuto una ripercussione anche negli alti strati aerei, perché i due americani non avevano mai veduto, ai loro tempi, lampi così abbaglianti e di così lunga durata.
L’uragano questa volta veniva da ponente. Era quindi probabile che il Mare dei Sargassi, scompaginato dai furiosi assalti dell’Atlantico, allargasse le sue mille e mille braccia, lasciando libera la città galleggiante.
Alla mezzanotte, l’oceano sollevato da un vento impetuosissimo, diede i primi cozzi ai campi dei sargassi. I suoi cavalloni piombavano sulle masse erbose con furia estrema, rodendo o sfondando qua e là i margini.
La città galleggiante, investita per di sotto, si agitava in tutti i sensi. Pareva che dei marosi, d’una potenza incalcolabile, la urtassero nella sua parte inferiore, poiché di quando in quando subiva dei soprassalti violentissimi che mettevano a dura prova i muscoli dei tre americani e dei loro compagni.
I forzati, svegliati dal rombare incessante dei tuoni, dai bagliori intensissimi dei lampi e dal rumoreggiare delle onde, avevano ricominciato a urlare, mescolando le loro voci a quella possente della tempesta.
Spaventati da tutto quel fracasso, non sapendo che cosa succedeva all’esterno, chiedevano che si calasse l’ascensore, che ormai non c’era più, minacciando di sfondare le pareti della città galleggiante e di annegare tutti.
«Non ci mancherebbe altro!» esclamò il capitano, un po’ inquieto. «Se mettono in esecuzione la loro minaccia, buona sera a tutti. Non sarà il campo dei sargassi che ci salverà, con questo indiavolato ondulamento. Caro Jao, bisogna cercare di calmarli.»
«Bisognerebbe farli salire e allora ci accopperanno tutti» rispose il vecchio che cominciava a tremare.
«Cercate di rassicurarli.»
«Non mi ascolteranno. Vogliono uscire da quella bolgia infernale dove soffocano. Non sentite che puzza orrenda comincia a sprigionarsi da tutti quei cadaveri?»
«Non siamo stati noi a commettere la strage» disse il capitano. «Ne sopportino le conseguenze ora. Noi non possiamo, in così piccolo numero e senza ascensore, far salire fino a noi quattrocento e più cadaveri. Ci vorrebbe una settimana di lavoro.»
«E forse non basterebbe» disse il pilota.
«Eppure bisogna fare qualche cosa per quei disgraziati,» disse Toby.
«Che stupido sono!» esclamò in quel momento Jao. «E più stupidi di me sono anche loro.»
«Perché, amico?» chiese il capitano.
«Noi possiamo tramutare la città galleggiante in una immensa ghiacciaia. E nessuno prima ci aveva pensato! Tre volte bestia con cento corna!»
«In qual modo?» chiesero Brandok e Toby.
«Abbiamo più di venti serbatoi pieni d’aria liquida per la conservazione del pesce. Dieci si trovano sotto la cupola e gli altri nei quattro angoli della città. Fra cinque minuti i cadaveri geleranno o poco meno, e la loro putrefazione sarà immediatamente arrestata.»
«E gelerete anche i vivi» disse Brandok.
«Hanno delle coperte; che si coprano» disse il capitano.
«Cercate almeno prima di calmarli ed avvertirli» disse Toby. «Non udite come picchiano contro le pareti della città? Non dubito che siano robustissime, però potrebbero cedere in qualche punto.»
«Avete ragione» rispose Jao.
Per essere meglio udito dai forzati, si calò fino sulle traverse d’acciaio che avevano servito di sostegno all’ascensore, comparendo fra i potenti fasci di luce proiettati dalle lampade a radium che non erano state più spente.
Fu subito scorto dagli abitanti i quali non cessavano di guardare in alto, sempre colla speranza di veder scendere l’ascensore, ed un coro d’invettive salì su pel pozzo con un frastuono indiavolato.
«Eccolo, il brigante!»
«Eccolo, il traditore!»
«Linciamo quell’avanzo di galera che ha giurato da sempre la nostra distruzione.»
«Scendi cane!… Scendi!…»
Jao li lasciò sfogare, ricevendo filosoficamente, senza turbarsi, quell’uragano d’ingiurie e di minacce, e quando vide che non avevano più fiato, fece loro un gesto amichevole, gridando:
«Ma finitela, pazzi! Volete ascoltarmi sì o no? Se continuate, risalgo e non mi rivedrete più mai».
«Sì, sì, lasciamolo parlare!» gridarono parecchie voci.
«Parla dunque, vecchio» disse una voce.
«La nostra città si è staccata dallo scoglio e la tempesta ci ha portati fra i
sargassi.»
«Tu menti!»
«Che uno di voi, ma uno solo, salga per accertarsi se io ho detto la verità.»
«Cala l’ascensore!»
«Il mare l’ha portato via.»
«Manda giù una fune allora.»
«Sì» rispose Jao. «Vi avverto però che se sale più d’uno la taglieremo. La cupola è avariata e crollerebbe sotto il vostro peso.»
«E vuoi che crepiamo qui, fra tutti questi cadaveri che puzzano orrendamente?» gridò un altro.
«Aprite i serbatoi dell’aria liquida e geleranno presto.» Aveva appena terminato di parlare che tutti quegli uomini si precipitavano verso i quattro angoli della città galleggiante, dove si vedevano degli enormi tubi d’acciaio.
Si udirono tosto dei fischi acutissimi, poi una corrente d’aria gelida eruppe dal pozzo, mentre le lastre di vetro si coprivano per di sotto d’uno strato di ghiaccioli.
Intanto Brandok, il capitano ed il pilota avevano attaccato le funi che una volta servivano per sospendere le reti e che le onde in parte avevano risparmiate, e le avevano annodate.
«Caliamole nella ghiacciaia» disse Brandok, che respirava a pieni polmoni l’aria fredda che usciva sempre a folate dal pozzo. «Siamo quasi sotto l’equatore e battiamo già i denti. Che cosa non hanno dunque inventato questi meravigliosi uomini del Duemila? Io finirò per impazzire davvero, te lo assicuro!»
I forzati, aperte le valvole, erano corsi a chiudersi nelle case che ancora si mantenevano, bene o male, in piedi, impadronendosi di tutte le coperte che
trovavano.
Se sotto la cupola andava formandosi il ghiaccio, quale freddo doveva regnare laggiù con quei quattro serbatoi che soffiavano fuori gradi e gradi di gelo?
La fune finalmente, solidamente trattenuta dal capitano, dal pilota e da Jao toccò il suolo; ma allora un altro e più spaventevole tumulto scoppiò fra quei furibondi.
Venti mani l’avevano afferrata e non volevano più lasciarla. Quelli che non avevano potuto farsi innanzi a tempo, si erano messi a percuotere spietatamente i compagni che pei primi l’avevano presa.
Il capitano ed i suoi compagni, nauseati da quelle scene, invano si erano provati a ritirare la fune. Sarebbe stato necessario un argano.
Già il primo stava per proporre di tagliarla, quando un giovine galeotto più lesto degli altri, con un salto degno d’un clown, balzò sopra le teste dei rissanti, aggrappandovisi e troncandola, con un colpo di coltello, sotto i propri piedi.
«Su! Su!» gridò il capitano.
Il giovine montava rapidamente, poiché anche gli americani prestavano man forte al capitano.
I forzati, vedendo salire il compagno, lo coprivano d’ingiurie, minacciando di sventrarlo appena fosse disceso.
«Noi non potremo mai andare d’accordo con quelle canaglie» mormorò Brandok. «Il galeotto di cent’anni fa mi pare che si sia mantenuto eguale. La scienza tutto ha perfezionato fuorché la razza, e l’uomo malvagio è rimasto malvagio. Passeranno secoli e secoli, ma, levato lo strato di vernice datogli dalla civiltà, sotto si troverà sempre l’uomo primitivo dagli istinti sanguinari.»
La fune, vigorosamente tirata dal capitano e dai suoi compagni, era giunta presso i margini del pozzo.
Il galeotto che vi si era aggrappato, un giovinotto quasi ancora imberbe, biondo, allampanato, tutto braccia e gambe, appena si vide a buon punto, lasciò la fune balzando agilmente sulla cupola.
«Guarda dunque e va a riferire ai tuoi compagni quello che hai veduto» gli disse Jao.
«Che siamo sul mare o all’inferno poco m’importa» rispose il galeotto, respirando a lungo. «Sono uscito da quel macello e mi basta. Accoppatemi, se volete, ma io non ritornerò mai più laggiù. Mi farebbero a brani.»
«Rimani adunque, però t’avverto» disse il capitano «che se tenterai qualche cosa contro di noi, avrai da aggiustare i conti colla mia rivoltella elettrica.»
«Non vi darò alcun impiccio, ve lo giuro, signore.» Sotto, i forzati urlavano a squarciagola. La gran voce della tempesta però non tardò a soffocare tutti quei clamori.
L’uragano sconvolgeva per la seconda volta l’Atlantico.
«Dove andremo?» si chiese il capitano, che guardava con inquietudine le onde che si rovesciavano, con furia estrema sui campi dei sargassi.
Ad un tratto la città galleggiante che si trovava un po’ sbandata, si raddrizzò di colpo, emergendo bruscamente di parecchi metri.
«Aggrappatevi alle traverse!» aveva gridato Jao.
Un’onda mostruosa, passando attraverso il campo dei sargassi contro cui s’appoggiava la città galleggiante, avanzava con mille muggiti spingendo innanzi a sé delle fitte cortine d’acqua polverizzata che velavano perfino la luce dei lampi.
«Andiamo dunque?» chiese Brandok, che col robusto braccio destro teneva
fermo Toby, affinché non venisse portato via dal cavallone.
Una tromba, una vera tromba d’acqua passò su di loro, coprendoli ed inzuppandoli dalla testa ai piedi, poi la città galleggiante si spostò e fece un salto immenso. Era nuovamente libera.
Fra i Sargassi
11 Luglio 2017 Di Lascia un commento
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